Per una breve escursione a Londra, con ciurma di bambini al seguito, ho scelto di portare con me uno zoom, fatto abbastanza inedito considerata la mia antica idiosincrasia per le ottiche a focale variabile. Il mio occhio londinese è stato il 28-70 Leica R, di apertura 3,5-4,5.
Devo precisare che la mia inveterata antipatia per gli zoom non è motivata tanto da fattori qualitativi, ma soprattutto da ragioni legate alle peculiarità dell’atto compositivo. La mia idea è che lo zoom impigrisca il fotografo, portandolo ad adattare passivamente la focale alle situazioni (spesso scivolando inerzialmente verso le focali estreme) e snaturando quello che a mio avviso è il gesto più puramente autoriale, cioè organizzare lo spazio delimitando una porzione di realtà sulla scorta di una data prospettiva mentale.
Non c’è bisogno di spendere il soldino per il telescopio.
Il Big Ben è perfettamente riconoscibile nello sfuocato morbido e dettagliato.
Ho dunque curato di adoperare lo zoomino come se avessi con me tre distinte ottiche fisse, un grandangolare, un normale e un mediotele; non già quindi per ”aggiustare” le composizioni modificando l’ampiezza del campo inquadrato - per quello bastano le gambe - ma per avere a disposizione l’ottica effettivamente necessaria per le specifiche esigenze fotografiche, senza dovere ogni volta sostituire l’obiettivo. La relativa bassa luminosità non è risultata un problema, essendo compensata dalla capacità delle odierne reflex digitali di utilizzare alte sensibilità senza evidente scadimento della qualità dell’immagine. Nell’occasione si trattava di una Canon 5D, naturalmente utilizzata in manual focus e con esposizione in stop down. A queste condizioni lo zoomino Leica, abbastanza compatto e leggero, col suo paraluce telescopico essenziale ma efficace, si è rivelato comodo e sintonico al mio modo di fotografare. L’obiettivo è dotato di ghiere separate per la messa a fuoco e per le focali, morbida fluida e generosamente dimensionata la prima, altrettanto fluida ma ben più rigida (com’è giusto che sia) quella dello zoom.
Il “London eye” insieme ad una statua del Dalì, accoppiata bizzarra
almeno quanto mi pareva fosse la mia con uno zoom.
Il 28-70, com’è noto, non è considerato tra le più pregiate realizzazioni Leica. Costruito da Sigma a partire dal 1990 su specifiche Leitz, con uno schema a 11 lenti in 8 gruppi, è in genere criticato per l’elevata distorsione e la resa troppo “giapponese”, con una incisione ritenuta eccessiva per quelli che sono i parametri tipici delle ottiche tedesche. Posso confermare la presenza di una consistente distorsione (un barilotto bello tondo sul grandangolare e un morbidoso cuscinetto in posizione tele), ma non così penalizzante per generi come il reportage e la foto di strada, e comunque niente che non si possa ormai recuperare con due rapidi tocchi di Photoshop. Stessa cosa per la vignettatura, percepibile ma non troppo molesta. Il passaggio tra fuoco e fuori fuoco non è così graduale come Leica ci ha abituato con le sue migliori ottiche fisse, ma la resa è complessivamente ottima. Nitidezza e contrasto, che in certe condizioni di luce risultano in effetti un po’ “taglienti”, sono comunque da obiettivo di gran classe, ben gestibili attraverso i settaggi della macchina o durante la postproduzione, con risultati che a me paiono globalmente eccellenti. Il flare fa capolino ogni tanto, ma solo in condizioni limite, con il sole a bordo fotogramma.
Nonostante la limitata luminosità, lo zoom non va a dormire presto la sera.
Che dire? La mia predilezione per le ottiche fisse rimane inalterata, ma la soddisfacente prova di questo zoomino (acquistato d’occasione per pochi soldi) ha ammorbidito qualche ostinato pregiudizio. Con questi risultati, la possibilità di viaggiare leggeri avendo immediatamente a disposizione un buon tris di focali, nelle situazioni in cui sarebbe difficile fermarsi a cambiare ottica e ove non fosse necessaria una elevata luminosità, non è affatto da trascurare. Ferma restando però una solida disciplina di base, soprattutto evitando di scorrazzare su e giù lungo l’escursione dello zoom alla ricerca dell’inquadratura giusta. Ciò che, nel mio modo di pensare, produce un inesorabile scadimento del gesto fotografico.
Anche a colori l’obiettivo se la cava egregiamente.
Carlo Riggi © 10/2009
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