Il Costarica è uno stato del Centroamerica, grande all’incirca come le nostre due principali isole, che ha fatto della conservazione della Natura la propria identità caratteristica, con una serie di Parchi Nazionali sulle due sponde degli Oceani, tutelando così tutta una serie di ecosistemi boschivi e rinunciando alle spese militari, grazie all’abolizione dell’esercito nel 1949.
Naturalmente, data la sua posizione geografica tra l’8° e l’11° grado di latitudine Nord, una delle principali attrazioni del paese sono le giungle tropicali, o foreste nebulose, (Bosque nuboso, in spagnolo), col classico clima equatoriale, perennemente umido e caldo, dove convive una miriade di essere viventi, sia vegetali che animali: tali foreste occupano complessivamente un quarto della superficie dello stato.
A dire la verità, pur avendo visitato molte e diverse giungle tropicali, non ne sono mai stato particolarmente attratto, anche se riconosco naturalmente l’altissimo valore biologico di questi ecosistemi.
Forse per il ricordo di una mano gonfia come un palloncino nella fitta giungla di Tikal in Guatemala, a causa della puntura di un insetto, o per una fila di formiche che banchettavano lungo le mie gambe in Ecuador, o l’insetto sconosciuto che si era attaccato ad una mia coscia in Perù e che ho dovuto togliere con il fedele coltellino svizzero, o anche il bagno di sudore nelle giungle umide del Madagascar alla ricerca dell’elusivo lemure Indrindri. Insomma, il dilemma era semplice: o stavi all’ombra del fogliame e ti facevi mangiare vivo da sciami di insetti delle più disparate specie, oppure ti mettevi al sole e ti rosolavi sotto i suoi raggi implacabili.
In più, dal punto di vista fotografico, nascevano diversi, interessanti e spesso contraddittori problemi. Le foreste umide, quelle vere, naturali, e non quelle artefatte di Disneyland, sono senza dubbio un paradiso biologico, dove migliaia di specie vegetali e animali, conosciute e sconosciute, si danno battaglia giornaliera per la sopravvivenza, ma consistono in ambienti bui, con pochissima luce disponibile, piene di suoni, richiami, fruscii, ombre e falsi avvistamenti. Al mattino presto si gode una notevole frescura ma dopo le dieci diventano autentiche saune, umidissime, caldissime e soffocanti, specie se si vuole portare un discreto corredo fotografico, e questo vale sia per gli umani (che a poco a poco diventano parte integrante del banchetto quotidiano perpetuo ed incrociato tra essere animali e vegetali), sia per le povere apparecchiature fotografiche, sottoposte a temperature notevoli e ad un umido sia esterno sia provocato dal contatto con le mani perennemente sudate e gocciolanti.
Naturalmente oggi, con le apparecchiature digitali dotate del libero innalzamento degli ISO e di vari sistemi autofocus, oltre che spesso di flash incorporati, molte di queste problematiche sono state superate, ma con le pellicole di 100 e 400 ASA, e con ottiche a messa a fuoco manuale di un tempo, ci si scontrava con una notevole serie di restrizioni che imponevano scelte, talvolta drastiche.
Il flash ad esempio: oltre ad occupare spazio e peso, con la sua staffa laterale, rappresenta un ulteriore ingombro nell’intrico della vegetazione e inoltre bisogna seguire i tempi di ricarica, progressivamente sempre più lenti, e avere un set minimo di batterie di ricambio. Talvolta utile ed indispensabile in molte occasioni, in questa particolare circostanza ho scelto di non servirmene, proprio per essere più leggero e diretto nell’azione fotografica. Le pellicole Fuji sono state divise su due macchine: quelle da 100 ASA sulla Leica R6.2 per i paesaggi, e quelle da 400 ASA sulla Leica R7 accoppiata ad un Elmarit 100 Apomacro, scelto non solo per la sua qualità ottica ma anche per la sua universalità.
L’automatismo della R7 donava al complesso quella capacità di reazione necessaria con i mutevoli soggetti della foresta, mentre il vetrino di messa a fuoco tutto smerigliato, produceva quella luminosità in più, necessaria per una messa a fuoco di precisione, specie a distanza ravvicinata, quando la profondità di campo diminuiva drasticamente.
L'obiettivo
Il Leica Elmarit 100 Macro è un’ottica Apo, ovvero un obiettivo che possiede la correzione apocromatica sui tre colori dello spettro di luce: questo dona all’Elmarit una notevole incisione, particolarmente a tutta apertura, ove raggiunge livelli di MTF incredibili, tanto da essere la migliore apertura relativa dell’ottica. In questa occasione l’ho quasi sempre usato appunto a f/2.8, puntando sugli occhi del soggetto da riprendere, pochissime volte sono riuscito a chiudere il diaframma a f/4 e ancora meno a f/5.6. Il controaltare di queste scelte è stato che i tempi di otturazione non sono mai scesi sotto 1/125 di sec con pellicola da 400 ISO, e spesso mi sono spinto anche a 1/250 di sec, per particolari occasioni.
Il Leica Elmarit, pur essendo ormai del 1987, è sempre stato una delle bandiere fondanti del sistema Leica R, prodotto sino al 2002 in circa 2000 esemplari. Composto da uno schema ottico di 8 lenti in 6 gruppi, è stato disegnato da W. Vollrath, per garantire riproduzione apocromatica e planeità di campo costante a tutte le distanze di ripresa. Non è certo un obiettivo leggero, essendo lungo ben 104cm e pesante 760g, ma la sua qualità e universalità, la messa a fuoco sino a 45cm, oltre alla sua luminosità, me lo hanno fatto preferire ad altri, perché sempre pronto per riprendere i più disparati soggetti della foresta, senza il bisogno di cambiare necessariamente ottica. Infatti l’umido circostante e quello delle mani può provocare infiltrazioni attraverso il bocchettone portaottiche nei cambi di obiettivo, rovinando conseguentemente la pellicola all’interno del corpo macchina. Il paraluce, assolutamente necessario, sia per questioni ottiche che fisiche, è incorporato e telescopico, ed inoltre la lente frontale risulta ben incassata nella montatura. Per arrivare alla minima distanza di messa a fuoco occorre far fare ben due giri completi alla ghiera di messa a fuoco, il che, anche se rallenta la velocità dell’azione, ne garantisce una ottima precisione, specie in abbinamento col vetro smerigliato della Leica R5.
Storicamente questo Leica Elmarit ha rappresentato un punto di svolta per la casa di Wetzlar: oltre alla resa a TA, con contrasto e risolvenza elevatissimi, possiede una trascurabile vignettatura ed un’invisibile distorsione. La chiusura del diaframma non aumenta la risolvenza, ma incrementa solo la profondità di campo. Curvatura di campo ed astigmatismo risultano corrette in modo esemplare.
Con questo macro, Leica ha creato un’ottica di riferimento del settore, un obiettivo con cui tutti gli altri costruttori si sono dovuti necessariamente confrontare, alzando notevolmente l’asticella della qualità assoluta e non a caso è una delle mie ottiche preferite da sempre del sistema R. Nel caso specifico, nelle foreste del Costarica, il Leica Elmarit è riuscito a riprendere un’incredibile varietà di soggetti, pappagalli variopinti, scimmie urlatrici, grandi aironi golagialla, rettili primitivi, minuscoli colibrì, sino alle infaticabili farfalle (in spagnolo mariposas, simbolo dal Costarica) e, naturalmente, le infinite texture di una natura prorompente, che pulsa di vita in modo frenetico e inesauribile.
Individuare e fotografare tutto ciò non è stato facile, anche con l’aiuto del fedele binocolo Leica 10x42. Ad esempio vi sono centinaia di specie di uccelli, che si intravedono appena nel fogliame, si intuiscono nella penombra, si sentono coi loro continui richiami, si avvertono nel volo basso tra le piante: ma cogliere una buona immagine è quasi impossibile. Sono occorse molta pazienza, tenacia, tecnica e naturalmente sudore... molto sudore!
Pierpaolo Ghisetti © 07/2022
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