Palazzo delle esposizioni Roma dal 22 Novembre al 22 Gennaio.
Californiano, classe '52, Herb Ritts entra nel mondo della fotografia per caso, dopo che alcuni suoi scatti ad un Richard Gere quasi bambino, fatti a causa di una sosta forzata per una foratura, arrivano su Vogue per diramarsi poi su altre riviste di moda. Fino a quei giorni Herb era un appassionato che si divertiva a ritrarre gli amici e, tra di loro, il giovane attore che sarebbe diventato Richard Gere. Ma spiegare il successo di Herb Ritts con l'amicizia con Gere sarebbe scorretto. "L'occasione fece sicuramente l'uomo fotografo" ma il suo talento, soltanto quello, lo ha fatto diventare un maestro indiscutibile.
Negli oltre 100 ritratti esposti a Roma si può percorrere, dai primi anni ad oggi, l'evolvere della carriera del fotografo statunitense. Come un chirurgo della psiche, Ritts sa cogliere tra le curve di uno sguardo quel lato nascosto che rende uniche le immagini dei famosissimi personaggi che ritrae. Sembra conoscere così bene i suoi modelli che in ognuna delle foto esposte sa far emergere quell'impalpabile, sfuggente tratto del carattere di ognuno di loro.
Ciò porta i suoi lavori oltre all'atteso, in un film che schiude la psicologia e ci fa sembrare più vicini i suoi attori. L'uso del corpo è sempre pianificato ad un fine che non vuole essere d'effetto ma rappresentativo. Lontano da Mapplethorpe sa prenderne l'insegnamento migliore, lontano da Newton ne scorge gli spunti utili. Nessuna sua Immagine va oltre quello che vuole essere, un ritratto. Nessun accessorio serve se non a enfatizzare il soggetto, nessuna luce serve a creare un effetto diverso da quello di impressionare su un foglio di acetato un volto.
I suoi lavori sono puri, incontaminati. L'unico elemento che li contraddistingue è nello sguardo, negli occhi, nel corpo. È l'anima ad uscire fuori e una volta che la si è rappresentata, l'opera è completa; non serve altro per delineare il personaggio. Quello che fa grande Herb Ritts è la sua capacità di prendere l'anima ai suoi modelli e darle lo spazio che merita nella foto, un approccio così perfetto che non rende necessario altro che il soggetto. Mentre la fotografia odierna insegue il contorno per disegnare un personaggio, finendolo per inquadrare in un cliché, Ritts toglie dalle sue scene tutto ciò che non è il personaggio. Questo lascia parlare i soggetti, non il fronzolo, e il discorso viene fuori ben più pulito di tante cose che siamo costretti a vedere. Da non perdere. (recensione di Valerio Berdini)
Ugo Mulas, Un Archivio per Milano.
Approfondimento.
Si è inaugurata ieri (4 ottobre 2000) alla Galleria Carla Sozzani in Corso Como 10 la personale di Ugo Mulas, Un Archivio per Milano. La mostra, che ripercorre i punti fondamentali della carriera del fotografo, è un omaggio importante al personaggio, all'uomo, all'artista e, più in generale, alla fotografia italiana. Omaggio che certo non dispiace vista la bellezza delle immagini esposte e l'ottima scelta del percorso fotografico fatta dagli organizzatori.
Divisa idealmente in quattro distinte sezioni, la mostra ripercorre il lavoro di una vita intera, dalle prime immagini, rubate nella periferia urbana milanese, agli esperimenti degli ultimi anni, detti "Verifiche". Se da un lato vediamo un Mulas intento nel riprendere la quotidianità periferica di una città industriale, foto dure, immerse in un'atmosfera gelida, istintive, forse didascaliche; dall'altra possiamo finalmente scoprire il fotografo che ha ideato, o quasi, un genere, che ha creato una fotografia per l'arte, un'arte fine a se stessa che ritrova la sua massima espressione significativa nella intrusione discreta nel mondo e nella realtà di pittori, scultori, poeti... Vediamo Montale, vediamo Fontana, vediamo Man Ray, Pomodoro e molti altri intenti nella creazione delle proprie opere, nella normalità dei loro ambienti, nella bellezza delle forme che li circondano, li avvolgono e, quelle forme, sono le loro, sono l'arte nata dalla loro mente. Mulas è entrato in questo mondo, ne è entrato come semplice ritrattista e ne è uscito vincente. Artista anch'egli senza troppa filosofia, con la semplicità intuitiva della ripresa fotografica nella normalità assoluta che un'immagine può regalare alla complessità di un'arte.
Cronologicamente per seconda, ma non per esposizione, vi è la serie dedicata all'inaugurazione dell'opera di Christo sul monumento a Vittorio Emanuele in Piazza del Duomo: un reportage compiuto, semplice, convenzionale ma reso estremamente piacevole dalla capacità del fotografo di rendere l'ambiente come fosse un palco, il gigantesco palco di un teatro. Sono immagini ingenuamente teatrali e sta proprio in questo l'originalità di questo reportage.
Ultima parte della mostra è quella delle così dette Verifiche. Queste immagini sono dedicate alla fotografia stessa, ognuna rappresenta un modo di vedere e di vivere la fotografia. L'intenzione è originale perché muove dal concetto di una fotografia come fine e causa di se stessa, una fotografia che dovrebbe trovare il motivo dell'esistenza in se stessa e per se stessa. Una sperimentazione originale giustificata dal periodo storico, siamo negli anni settanta, ma che trovo estremamente, forse troppo, concettuale. L'esporre una foto non fatta, ad esempio, ovvero esporre il nulla, il vuoto, l'inesistente risulta un esercizio ambizioso che scade nell'intellettualizzazione forzata dell'idea di fotografia. Inquadrare quest'operazione e tutte le Verifiche in un processo di creazione artistica pura non riesce a giustificare l'esasperazione eccessiva delle parole, il tentativo di fare una "filosofia" incerta che fa perdere quella intuitiva semplicità che caratterizza l'arte del Mulas del Bar Giamaica, dei ritratti di Montale, di Fontana, di Pomodoro.
Luigi Ghirri. In mostra presso Photology, Via della Moscova 25 Milano.
Approfondimento: semplice spontaneità.
Elogio alla semplicità. Poesia del quotidiano. Attimi di tranquilla spontaneità fotografica. Geometrie di un mondo alla ricerca di una propria personalità. Intuizioni, queste, che emergono dalla visione della mostra di Luigi Ghirri, una mostra che si muove e prende vita nei meandri di queste sensazioni, di questi aspetti che il fotografo sapientemente cela dietro una patina di convenzionalità fotografica.
Ghirri ha la capacità di riprendere i particolari più comuni della realtà e di trasmetterli come quadri di una sensazione personale, come attimi magici di una tranquilla normalità quotidiana. Contrasti a cui è difficile sfuggire. Stupisce vedere come un angolo di una strada, quattro cipressi, un muro, una spiaggia assolata, una piazza di una periferia deserta, un manifesto dietro un vetro, divengano soggetti di piccoli e meravigliosi racconti. La sua capacità di trasmettere le situazioni più comuni come aspetti di un sistema più grande e di geometrie esistenziali, è alla base di un capillare lavoro di riproduzione della realtà. Ghirri riprende la realtà senza troppe intromissioni soggettive, la fotografa, la cattura nei suoi momenti più comuni e, volendo, più banali. È proprio questa sorta di banalità dei soggetti ripresi che conferisce un fascino particolare alle immagini; immagini che regalano personalità agli elementi ripresi e gli investono di un'atmosfera particolare e nascosta, quella stessa che, vissuta soggettivamente, ha spinto il fotografo alla cattura di quell'attimo muto, immobile ma "celatamente" vivo. È una specie di schema circolare, ogni elemento conferisce ad un altro qualcosa di nascosto; pertanto, in questo processo, il punto di partenza coincide con quello di arrivo.
Giocare con le immagini di tutti i giorni, con la normalità delle cose e scovare in esse quel particolare che le rende speciali, trovarlo e, soprattutto, riuscire a trasmetterlo è la grande intuizione di Luigi Ghirri. Colori slavati, morbidi, oggetti e ambienti saturi della loro semplicissima realtà quotidiana, inconsapevoli del loro esistere, diventano protagonisti di immagini geometriche, perfettamente geometriche, simbolo e particelle di un sistema di cose più grande, del tentativo costante di donare personalità alle cose comuni, agli ambienti logori di ideali città di frontiera.
Magnum a Milano...
Riflessione sulla "personalità e funzionalità della fotografia"
Vedere una mostra dedicata all'Agenzia Magnum è qualcosa che colpisce, sempre. Osservare le fotografie di questi uomini accomunati dal mezzo espressivo fotografico, vuol dire entrare in atmosfere diverse e rare, viversi luoghi e immagini che il tempo cela in se, che la fotografia ruba ed incastona per sempre in quella "totalità" che è la Storia. Aldilà della descrizione pura e semplice delle fotografie presenti nella mostra, aldilà dell'analisi del valore tecnico e fotografico di queste immagini, valore sul quale è difficile discutere vista la varietà estrema dei punti di vista, l'approfondimento, che la visione di una tale esposizione invita, è la semplice riflessione sul ruolo che la fotografia riveste nella società, all'interno storia, nella vita dell'uomo.
Se da un lato si crede che la fotografia sia un mezzo di espressione artistica dall'altro è innegabile che tale espressione artistica viene concettualmente indebolita dalla funzionalità che la fotografia stessa ricopre nel suo svolgimento quotidiano. Ci troviamo davanti ad un bivio, o per lo meno davanti a due scuole di pensiero, che portano su strade molto distanti e che si differenziano proprio nell'analisi concettuale del mezzo. Se l'arte è fine a se stessa, se l'operazione artistica, nell'accezione comune del termine, non deve svolgere funzioni, la fotografia potrebbe risultare slegata dall'arte proprio per la sua funzione costruttrice e documentaria.
Questa riflessione ingenua è l'intuizione che emerge dalla visione del mondo attraverso gli sguardi dei fotografi della Magnum. Come l'architettura, in generale, non viene considerata arte primaria, perché ricopre un ruolo funzionale al suo esistere, ricordiamo a tal proposito la corrente decostruttivista che nella creazione di architetture afunzionali si avvicinò più al concetto di scultura che a quello di architettura, così, nell'ambito della fotografia è difficile non trovare una funzionalità specifica nell'elaborazione delle immagini. Se la fotografia diventa agire sociale, analisi della vita, del silenzio dell'uomo, della morte, ma anche documento di esistenza e speranza, allora la concezione artistica non può convivere con essa. La visione delle immagini della Magnum non è altro che il punto di partenza per la formulazione di quel quesito che si pone il problema sulla reale possibilità di coesistenza della funzione artistica e "non artistica" all'interno della stessa disciplina. La fotografia diventa pertanto "disciplina variegata" nella quale è difficilissimo riconoscere quale reale aspetto emerga più di un altro. La fotografia può essere arte quando si divincola dal funzionale; ma questo suo essere è proprio e troppo legato a quell'importantissimo aspetto documentario.
La mostra (che è stato spunto per questa riflessione) ormai inflazionata, molte ormai sono le immagini dei fotografi dell'Agenzia Magnum che visitano gallerie ed esposizioni italiane e mondiali, ha sviluppato in me un dibattito sul ruolo del fotografo oggi, sul ruolo della disciplina fotografica e, più in generale, sul ruolo dell'artista. Dibattito la cui soluzione resta legata agli avvenimenti e alle strade che oggi la fotografia vorrà intraprendere. Ed è proprio questa ancora aperta possibilità di scelta della fotografia a rendere tale disciplina una "creatura" appena nata, un essere ancora giovane ed in cerca di una sua propria e specifica personalità.
World Press Photo
fotogiornalismo e reportage.
Conclusasi sabato alla Galleria Carla Sozzani la mostra di World Press Photo, è giusto, alla luce dell'importanza che ogni anno riveste questa iniziativa internazionale, ripercorrere e tirare le somme di quest'ultima edizione. L'importanza del fotogiornalismo nello scenario della comunicazione globale è indubbia, come è indubbio che l'uso di questo mezzo d'espressione sia necessario (ancora necessario!) per la trasmissione di valori, di avvenimenti, di momenti "del mondo dal mondo" che sono elemento per la conoscenza di luoghi lontani, di situazioni distanti
anche drammaticamente distanti. La fotografia allora diventa un mezzo per la comunicazione di valori, un mezzo per sensibilizzare, per permettere la conoscenza di svariate realtà, anche dure, anche orride ma che esistono e spesso si nascondono affogate in silenzi di drammatica profondità.
World Press Photo è un'iniziativa che raccoglie le più significative esperienze fotogiornalistiche mondiali, e sono proprio questi momenti di testimonianza che rendono grande il lavoro compiuto da uomini che hanno avuto il coraggio e la forza di entrare in situazioni difficili, di narrarli e di renderli indelebili alla memoria storica. Divisa in più sezioni, immagini di guerra, di sport, di scienza ecc, l'esposizione si diramava su campi di analisi differenti; si concentrava sull'analisi di condizioni di vita disagiate e su forti scene di guerra, per poi spaziare sulla rappresentazione di attimi di vita e di decadenza sociale. Difficile descrivere a parole quello che tali fotografie, nella loro intensità, trasmettevano all'osservatore; difficile cercare di descrivere i volti, le espressioni di persone sbattute dagli eventi, estirpate dalla decadenza e dal male della storia; difficile reggere certi sguardi che i soggetti di alcune fotografie di duro reportage lanciavano come protagonisti di vicende infernali.
Oltre all'impatto di queste immagini l'esposizione di World Press Photo faceva un excursus su altri generi di espressione fotogiornalistica, dai miracoli della scienza, foto spettacolari per il loro impatto visivo, si passava agli avvenimenti sportivi
avvenimenti sportivi documentati grazie a fotografie spesso costruite e a volte "strane" nel loro momento di ripresa.
Un conflitto di generi che, in un certo senso, spiazzava il visitatore, ma che rientrava e rientra nella celebrazione di un genere di fotografia a volte disprezzato, altre volte rinnegato perché, per alcuni "estremisti", non facente parte della concezione purista dell'arte fotografica fine a sé stessa. Forse il reportage non trasmette la visione del fotografo, forse è in questo che si estranea dall'arte in quanto tale, ma rimane elemento e tassello fondamentale per la rappresentazione della realtà per la divulgazione stessa dell'uso della fotografia come mezzo di comunicazione e analisi, aspetti, secondo me, ancora più importati della creazione "sedentaria" di opere che restano solo esercizi di pensiero e pura creatività.
Andrea L. Casiraghi © 2001
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