Le immagini di Smith hanno suscitato in chi scrive due emozioni in parte contrastanti: stupore e rammarico. Stupore per la bellezza di questi bianconero, "sporchi" e intensi come pochi, per la superba qualità delle stampe, con neri cupi e bianchi accecanti da far drizzare i capelli in testa ad un appassionato di camera oscura; ma anche rammarico per la manifesta disuniformità di fondo dell'opera di Smith, per un senso di incompiutezza. Disuniformità, intendiamoci, non legata al singolo portfolio perché i suoi servizi erano e restano eccezionali: tanto di cappello ad uno dei più grandi reportagisti di tutti i tempi, punto bensì relativa al suo percorso globale di fotografo: a lungo perso dietro progetti immensi e spesso irrealizzabili, Smith aveva dentro di sé l'anelito della Genialità, della Grandezza, e le sue opere lo dimostrano. Con rammarico, osserviamo che spesso gli sono mancati il metodo e la coerenza necessari a concretizzare compiutamente alcuni progetti.
Del resto, la sua esistenza presenta gli elementi ideali per tratteggiare perfettamente un artista maledetto: il padre suicida nel '36, quando Smith aveva 18 anni, una madre con personalità dominante, pure fotografa, un continuo rapporto di amore-odio con gli editori e le riviste per cui lavorava (da un lato sedotti dalle sue superbe fotografie, dall'altro sgomenti dinanzi ai sistematici ritardi di Smith nelle consegne e alle sue richieste di assoluta autonomia nel realizzare i servizi), dure esperienze durante la Seconda Guerra Mondiale (Okinawa, Iwo Jima non propriamente delle scampagnate, per chi c'era), culminate con una grave ferita a causa di una granata (ciò gli comporterà, oltre a due anni di cure, una forte dipendenza dalle anfetamine che lo accompagnerà fino alla morte), due matrimoni e due divorzi, depressione, alcolismo, bancarotta finanziaria, una vita spesa a fianco degli oppressi, e infine una morte piccola e lontana dalla ribalta, nel 1978, mentre in una drogheria dell'Arizona comprava cibo per gatti: un'uscita di scena dal sapore borghese, quasi beffardo, nei confronti di un personaggio vissuto con stili e canoni ben diversi.
Grazie alla vittoria in un concorso amatoriale organizzato dalla Carl Zeiss negli USA, nel 1937 Smith si fa notare ed inizia a lavorare nel fotogiornalismo: ha una breve esperienza in "Newsweek", poi si lega a "Life" che, nel bene e nel male, sarà la rivista con cui verrà identificato per sempre, pur avendola lasciata una prima volta nel '42 ed una seconda, definitiva, nel '54, per divergenze su quanti dei suoi lavori venivano pubblicati, e come. Ed è dalle pagine di "Life" che ammiriamo decine di splendide fotografie: i lavori su "Il medico di campagna", "Il villaggio spagnolo" e "La levatrice nera" sono superbi esempi di fotogiornalismo di razza. E le foto diventano ancora più belle se osservate sulle pagine originali della rivista, saggiamente ripresentate alla fine di questo volume di cui infine ci troviamo a parlare: perché assumono appieno la valenza di racconto per immagini.
"W. E. Smith Il senso dell'ombra" è una imponente monografia che presenta 350 fotografie ed una nutrita serie di scritti e saggi relativi all'opera di Smith. A conti fatti, non c'è molto da dire sul volume: bello, ben stampato, graficamente curato e gradevole. I saggi hanno il pregio di essere accurati, chiarificatori ed attenti senza cadere nella trappola dell'intellettualismo (chi scrive è profondamente convinto che con un minimo di riferimenti culturali ed un discreto vocabolario sia possibile commentare una fotografia scrivendo quante pagine si desiderano zeppe di roboanti nullità). E' interessante, in particolare, l'ultimo saggio, che si sofferma sugli aspetti tecnici del lavoro di Smith, il quale ottenne da "Life" il permesso di sviluppare e poi stampare da sé le proprie immagini, caso unico nel suo genere, proprio in conseguenza della sua ossessione verso il controllo assoluto di ogni fase del suo lavoro.
Dopo gli anni trascorsi con "Life", Smith si dedicò a vari progetti personali: splendidi e famosi i lavori su Haiti, su Minamata, e le foto realizzate da e dentro il suo loft sulla Sesta Strada; e riaffiora il rammarico, qui, per le foto che restano dei progetti incompiuti: il lavoro su Pittsburgh, di cui l'immagine più famosa è probabilmente quella della copertina del volume, e l'idea di "The walk to Paradise Garden", una sorta di libro totale ed autobiografico che Smith non riuscirà mai a realizzare. In sostanza, mai un fotogiornalista fu tanto artista
o mai un artista fu tanto fotogiornalista: questo dualismo ha accompagnato Smith lungo tutto il suo percorso professionale ed esistenziale, segnandone profondamente gli esiti. Il suo eccezionale talento e la sua straordinaria tecnica (non ci si faccia ingannare dall'apparente rozzezza di molte sue stampe: Smith gestiva superbamente la luce ed era uno straordinario stampatore) purtroppo erano accompagnate dall'incapacità di presentare agli editori un qualcosa che fosse coerentemente organizzato e materialmente pubblicabile. Peccato, perché se le cose fossero andate diversamente forse oggi la storia della fotografia vanterebbe un altro paio di libri capolavoro; invece l'unico capolavoro che Smith ci ha lasciato sono la sua vita e la sua opera, che a pensarci bene sono più che mai la medesima cosa. Questo volume è un'eccellente sintesi di entrambe, e va consigliato senza riserve.
Agostino Maiello 07/2003
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Dettagli del libro
"Il senso dell'ombra" a cura di Gilles Mora
Formato: 24,1x30,5 cm
350 fotografie in bicromia
368 pagine, Euro 72,30
FOTOGIORNALISMO E VERITA'?
Smith scrisse: "Bisogna rendersi conto che la fotografia è la più grande bugiarda che ci sia, complice la convinzione che essa ci mostri la realtà così com'è". E scrisse anche: "Il fotogiornalismo, a causa dell'enorme pubblico a cui arrivano le pubblicazioni che se ne servono, influenza le idee e l'opinione pubblica più di ogni altro ramo della fotografia, per cui il fotografo-giornalista deve avere (oltre all'indispensabile padronanza dei mezzi) un forte senso dell'onestà e l'intelligenza per capire e presentare il suo soggetto opportunamente". Dall'atteggiamento di fondo che queste due frasi sottendono si capisce perché, spesso e volentieri, Smith avesse costruito le sue immagini, disponendo i soggetti in un certo modo, o arrivando alle stampe finali con robusti interventi di camera oscura, esponendo insieme negativi diversi, mascherando e bruciando fino all'eccesso, continuamente reinquadrando e tagliando i negativi. Rifiutando in toto l'idea che una fotografia potesse costituire una oggettiva e autentica rappresentazione del reale, Smith ambiva a rappresentare invece la verità nella sua essenza, come lui (artista) la percepiva: "bisogna osservare e sentire ciò che ci circonda e interpretarlo, traducendolo in un lavoro finito". E dunque, se necessario aggiustava "la realtà per farla aderire meglio alla verità". Le immagini risultanti sono magnifiche e probabilmente più rappresentative: dunque lo scopo finale è raggiunto, e poco importa sapere che, nella realtà, quel carretto di buoi o quel contadino erano stati disposti in quel modo dal Smith stesso. Egli aveva "visto" un'immagine che ci raccontava un villaggio spagnolo o una comunità di minatori gallesi, e l'aveva realizzata: una splendida immagine, formalmente eccelsa e di elevato potere documentativo. Obiettivo dunque raggiunto, tutto il resto è contorno evanescente che svanisce dopo poco; le foto di W.E. Smith, invece, restano.