Giuseppe Iammarrone, per gli amici Peppino, rispetto agli aggressivi fotografi d'oggi, ha fotografato questi riti con discrezione, quasi nascondendo la macchina fotografica, integrandosi con l'evento pur restando un osservatore distaccato: un atteggiamento difficile e contradditorio che sfocia poi nelle sue foto così semplici e intense, un documento - più che un reportage - di un mondo tradizionale e popolare di cui da decenni i detrattori celebrano la morte.
E' con una certa tristezza che mi accingo a scrivere la recensione di questo libro realizzato con le belle immagini dell'amico e collega Giuseppe Iammarrone, recentemente scomparso.
Paolo, il figlio, mi ha portato in redazione il libro come "un regalo di papà" ed ammetto di essermi commosso nel ritrovare le immagini di Peppino - così lo chiamavano gli amici - già viste dal vivo tante volte e sulle quali avevamo più volte discusso in camera oscura sul come renderle al meglio, disquisendo in maniera che rasentava il maniacale (ma era solo la grande passione per la fotografia al di là dell'averla trasformata in professione) sulla resa delle diverse carte o dei loro abbinamenti coi diversi prodotti chimici.
Peppino era, come me, un patito della camera oscura e ci teneva a stampare da solo le proprie immagini: un fotografo di vecchia scuola, ma anche un artista ed uno stampatore coi fiocchi. Andavamo d'accordo in questo, come nel modo di vedere la fotografia: un modo onesto che coniugava l'istinto con la preparazione tecnica ed una buona dose di pignolaggine.
Dalla camera oscura al bar, davanti ad un cappuccino e un cornetto, a due chiacchiere la sera dopo che l'ultimo cliente aveva lasciato lo studio, il mio o il suo indifferentemente.
Scrive Lia Giancristofaro nell'introduzione al libro: Come non sentirsi in sintonia con questo residuale Abruzzo del folklore tradizionale, se l'alternativa sono le scomposte, temporanee, secolarissime e globalizzate manifestazioni di recente istituzione (vedansi sagre e parate storiche)? E stato un piacere coniugare, in questo volume, il mio modesto sapere all'arte di Peppino Iammarone: una etnofotografia che, prima e più d'ogni altra, ha elevato a simbolo culturale di un'intera regione i riti propiziatori, interpretandoli e rappresentandoli come la straordinaria permanenza delle forme più arcaiche di cultura, magia e religione, le quali erano strettamente connesse alla natura e regolate secondo un'interpretazione primitiva dei fenomeni che interessavano le comunità rurali. E per questo che in Abruzzo, regione che rispetto ad altre ha subito con un certo ritardo l'impatto omologante di consumismo e industrializzazione, le feste tradizionali che segnano lo scorrere dell'anno ancora assumono la connotazione funzionale di eliminare elementi negativi (come l'anno vecchio, la malattia, la sofferenza, la miseria) e di propiziare le condizioni di prosperità individuale e collettiva. Assieme a questi riti, anche altri, forse meno noti ma altrettanto interessanti, avrebbero trovato una legittimazione estetica e antropologica nell'obiettivo del nostro fotografo. L'intento, però, era quello di operare una selezione dei riti in base alla loro emergenza nel passaggio stagionale secondo un criterio descrittivo dei vari temi della vita del territorio regionale, dunque senza pretese d'omnicomprensività.
Le feste religiose abruzzesi, infatti - prosegue la Giancristofaro - erano migliaia, fino a cinquant'anni or sono: alcune, che attiravano centinaia di devoti desiderosi di proteggersi dalla negatività e onorare la figura santoriale cui venivano tributate, sono oggi impoverite o addirittura cadute in desuetudine; in altre, le dirette televisive, gli autobus e i trattori hanno sostituito la fatica, l'impegno e la presenza stessa dei pellegrini, creando una sostanziale invasione della modernità nei contenuti più profondi del rito; in altre ancora, le aree sacre vengono soffocate da bancarelle di porchetta e le processioni religiose sminuite dalle esibizioni dei cantanti alla moda. Tuttavia, malgrado la tendenza della globalizzazione a stravolgere quanto resta dell'Abruzzo tradizionale, secondo gli studiosi la rapida mutazione culturale della seconda metà del Novecento non ha finora stravolto i quadri festivi tradizionali, pur modificandone alcuni aspetti. D'altronde le feste, in qualità di cultura di popolo, non andrebbero viste come immemorabili cristallizzazioni liturgiche, perché soggette a continui processi di adattamento. Il più delle volte, la forma muta più lentamente del contenuto: è il caso del rito di Cocullo, dove la negatività delle serpi velenose, un tempo pericolo reale per pastori e contadini, si è caricata oggi di significati simbolici che spaziano dalla guerra alla disoccupazione.
Dal creare cesure col passato, in virtù di un modello festivo originario dal quale ci si starebbe progressivamente allontanando, già nel 986 metteva in guardia Alfonso M. di Nola, valorizzando altresì la perdurante sacralità che, secondo lo studioso, ogni anno continua a trasformare in rito questi eventi popolari, la cui ierofanìa viene magistralmente catturata da lammarone assieme all'accelerarsi del mutamento dei costumi festivi e dell'abbigliamento. Negli anni '60, come nei primi anni '90, il suo drammatico bianco e nero espresse l'anima della comunità locale profondamente coinvolta nella dimensione sacra dell'avvenimento principale del paese: la festa, il simbolo del campanile e delle radici, dunque la rappresentazione di una volontà di eternità da parte di una comunità che, attraverso le sue garanzie culturali, ha sempre preteso di non farsi intaccare dai terremoti, dalle carestie, dalla miseria, dalle violente separazioni fisiche, come la morte e l'emigrazione.
Nel vuoto inquieto dove oggi galleggiano miliardi di esistenze - conclude Lia Giancristofaro - Iammarrone si è fatto interprete del viscerale senso di appartenenza culturale dei paesi abruzzesi e delle loro feste, cogliendo in molte immagini il senso totemico del campanile e l'universalizzazione di ogni agglomerato civico, anche microscopico. Per gli abitanti del paese della festa di volta in volta ritratto, il mondo finiva ai confini del territorio spazio-temporale nel quale essi percepivano la propria operabilità concreta, e nel quale visivamente ed acusticamente il campanile fungeva da faro. Coi rintocchi delle campane, la torre religiosa scandiva, assieme ai ritmi lavorativi e festivi del gruppo, l'intera vita della comunità e degli individui, dalla loro nascita alla loro morte; dunque, il territorio dava sicurezza alla persona rappresentando la continuità nel tempo del proprio essere, elevandolo a parte temporaneamente visibile di un lungo filone transgenerazionale, tanto che solo grazie agli studi dei demologi si è potuto fare chiarezza sull'origine di tante feste patronali, il più delle volte risalenti al Settecento, all'epoca della Riforma o al massimo al tardo Medioevo, quando invece la memoria e la convinzione dei devoti le aveva addirittura ascritte alle epoche pagane e protocristiane, involontariamente retrodatandone la fondazione e assolutizzandole alla categoria dell'eternità.
Peppino, rispetto agli aggressivi fotografi d'oggi, ha fotografato questi riti con discrezione, quasi nascondendo la macchina fotografica, integrandosi con l'evento pur restando un osservatore distaccato: un atteggiamento difficile e contradditorio che sfocia poi nelle sue foto così semplici e intense, un documento - più che un reportage - di un mondo tradizionale e popolare di cui da decenni i detrattori celebrano la morte.
Rino Giardiello © 01/2009
Riproduzione Riservata
Il libro.
Titolo: RITI PROPIZIATORI IN ABRUZZO
Autore: Giuseppe Iammarrone
Formato: 30x30 - 142 pagine con foto in bianconero
Prezzo: 34,50 Euro
Edizioni Textus