Uno scrittore ed un fotografo in viaggio alla scoperta della "terrestrità" del paesaggio che ci circonda, sulle tracce di grandi poeti e pittori del passato. Che lo si chiami libro illustrato o diario di viaggio, poco importa: ciò che conta è la sua innegabile delicatezza, l'ottima sinergia tra fotografie e testo, la ricchezza di suggestioni letterarie e pittoriche, la profondità meditativa. Un libro che è un invito a riscoprire il semplice incanto dell'essere nel mondo.
«Prima ancora che un lavoro 'artistico', la nostra ricerca la intendevamo come terapia, un modo per esercitarsi a non perdere la sensibilità a ciò che ci era attorno, e provare ad accorgersi ancora del vento, della pioggia, delle pietre e delle nuvole, dei cani, degli uomini». Difficile definire questo lavoro più profondamente di quanto non faccia già questa semplice frase; impossibile confinarlo in un genere. Saggio?, diario?, racconto illustrato? Ma andiamo con ordine. Ci sono due uomini - uno scrittore e un fotografo -, che si mettono in cammino alla scoperta di quel "paesaggio terrestre" che tutti noi abbiamo di fronte agli occhi ogni giorno, ma che di rado, e perlopiù distrattamente, ci fermiamo realmente a considerare, ad assaporare nella sua "terrestrità", appunto. Due uomini guidati dall'intima necessità di riscoprire e farsi testimoni della persistenza di un paesaggio che sia non tanto - o non solo - a misura d'uomo, quanto piuttosto "a misura d'anima"; se è vero, come scrisse Brodskij (citato nel testo), che «se il tempo avesse una penna e decidesse di scrivere una poesia, i suoi versi parlerebbero di foglie, erba, terra, vento, pecore, cavalli, mucche, api. Ma non di noi. Al massimo delle nostre anime». Due uomini intenti alla riscoperta dei tempi lunghi, abitabili e buoni, del racconto; della divagazione e del vagabondaggio, siano essi fisici o interiori.
Uno sguardo errante, il loro - in ambedue i sensi letterario e fotografico -, che giustifica l'accostamento che di questo libro è stato fatto al celebre racconto La Passeggiata di Robert Walser: vi si riscopre la stessa disponibilità ad abbandonarsi agli incontri e alle suggestioni più casuali e inaspettate, senza però quello slancio vagamente visionario e a tratti amaramente ironico che caratterizza il testo dello scrittore svizzero; qui l'innamoramento nei confronti del mondo emerge sì con convinzione, ma con maggiore pacatezza; non è un mondo che va trasfigurandosi in visioni, quello perlustrato dai Nostri, ma piuttosto un mondo "semplicemente" inteso nel suo essere aria, terra, acqua, fenomeni atmosferici. Non meno poetico per questo, non meno prodigo di meraviglie per chi si disponga all'ascolto e all'intima partecipazione. Parole e immagini si chiamano e si rispondono, nelle pagine di questo libro, in un rimbalzo di echi che fa perdere le tracce del richiamo originale: testo e fotografie rinunciano alle loro rispettive e riconoscibili identità, per fondersi in un continuum di sensazioni lievi, siano esse malinconiche o liete. Merito anche dell'impaginazione, certo, che vede le foto intrufolarsi tra i paragrafi - o viceversa? -, così che la coda dell'occhio riesca sempre a raggiungere, nel corso della lettura, almeno un lembo di mondo ritratto: sia esso un interno dimesso ma inspiegabilmente accogliente, un antro scuro scavato nella roccia, un orizzonte a perdita d'occhio, un ramo al vento, un edificio in rovina. E menomale che possiamo contare su quel noema della fotografia a suo tempo individuato da Barthes, quell'incontrovertibile "è stato" che non ci permette di aver dubbi riguardo al fatto che il reale fotografato si sia certamente trovato là, in quel momento preciso, tangibilmente di fronte all'obiettivo del fotografo; altrimenti, verrebbe quasi da credere che queste immagini sorgano dalla sostanza stessa del testo, come evocate per incanto, tanta è l'armonia creatasi tra le due espressioni: tutte e due aderenti alla vita come stoffa bagnata, con la stessa spontanea, delicatissima analiticità.
Due uomini, dicevamo. Ambedue eccezionali interpreti e continuatori di quella poetica "dello stupore" o, per dirla altrimenti, del "niente di antico sotto il Sole", caratteristica dell'opera di un nome fondamentale nella storia della fotografia italiana come quello - si sarà forse già intuito - di Luigi Ghirri. Giorgio Messori, lo scrittore (il cui penultimo lavoro, Nella città del pane e dei postini, è stato oggetto di una generale ammirazione), tra le altre cose, ideò con l'amico Ghirri il progetto Atelier Morandi (Palomar, 1992: una perlustrazione fotografica dei luoghi del pittore bolognese Giorgio Morandi), per poi redigere il testo che ne accompagnava le foto all'interno del volume-catalogo Il senso delle cose (Diabasis, 2005), restando fatalmente avvinto dalla limpidezza innata dello sguardo ghirriano, capace di penetrare "il senso delle cose", appunto, con infinito rispetto e senza alcun artificio, come le vedesse, ogni volta, per la prima volta.
Vittore Fossati, il fotografo, si inserisce invece a buon diritto tra gli esponenti di quella "scuola del paesaggio" che, negli anni Ottanta - e precisamente dal 1984, con il progetto Viaggio in Italia, ideato da Ghirri, a cui Fossati partecipò insieme a numerosi altri "grandi" -, mutò fattezze al volto della fotografia di paesaggio, e della fotografia italiana tout court (a chi volesse soffermarsi sull'argomento, consiglio la lettura di questo articolo). Immagini accoglienti, quelle di Fossati: che non spiegano, non affermano né giudicano, venendoci incontro senza presunzioni di sorta. L'abilità di un fotografo spesso dimora proprio nella capacità di creare immagini in cui la mediazione intrinseca all'atto fotografico si mimetizzi a tal punto da scomparire quasi, così che non resti altro che il mondo, che, semplicemente, si dà. Non è da tutti il riuscire a farsi interpreti del mistero del mondo senza finire, egocentricamente, per sostituirsi fatalmente ad esso; e i due autori ci riescono senza sforzo apparente, fuggendo inopportune enfasi o sensazionalismi, dimostrando un rispetto nei confronti della Natura e delle "cose" che sfiora a tratti la devozione: umile, incondizionata e predisposta alla contemplazione estatica, come si conviene essa sia.
Due sguardi dalla sensibilità affine che, nell'arco di cinque anni, compiono una serie di viaggi che li condurranno ad «abitare la materialità delle cose, essere nella pesantezza del mondo», rinvigorendo in loro la capacità, che fu già di tanti artisti del passato, di saper riconoscere ed accogliere quella corrispondenza emotivo-sensoriale che può stabilirsi tra l'uomo e gli elementi del paesaggio, a patto che vi sia la totale disponibilità a farsene carico; una recuperata sintonia fatta di sensazioni elementari lasciate finalmente libere di riemergere: l'indolenza che ci comunica l'acqua stagnante di un lago, l'irruenza carica d'energia di un torrente, la saggezza del quieto, perpetuo movimento delle nuvole. Le parole di Messori sfiorano i luoghi, svelandone ora il lato quasi fiabesco e irreale, ora invece lasciando trasparire una sottile inquietudine (ribadita di frequente nelle foto di Fossati), come un misterioso e vago presagio; i due autori si rivelano maestri nell'arte dell'ascolto, e, in silenzio, raccolgono con pazienza l'intima confessione dei più vari elementi del paesaggio.
Protagonisti principali di questo libro sono dunque sorgenti e corsi d'acqua, boschi, montagne, frane e baratri, raggiunti ed emotivamente esplorati sotto la guida d'eccezione di numerosi poeti e pittori che elessero il paesaggio di volta in volta a loro rifugio, fonte d'ispirazione o sofferta chimera, e dei quali i due autori seguono le tracce: la memoria dello scultore Giacometti ci sommerge col nitore del cielo engadinese, in Svizzera; la tavolozza "umida di terra" di Courbet ci svela le infinite fisionomie delle rocce calcaree del Giura, in Francia, tra querce secolari e pozzanghere oscure; l'indole solitaria e contemplativa del Petrarca ci conduce nella quiete boschiva di Fontaine-de-Vaucluse, da cui potersi affacciare nel più profondo abisso inondato che si conosca al mondo - la sorgente della Sorgue -, o spingersi fin sulla cima del Mont Ventoux, dove neve e nuvole si confondono in un'unica, abbagliante luminosità. La città ideale ed incompiuta di Chaux, con la sua immobilità sospesa, ci riporta invece alla mente le Città invisibili di calviniana memoria, o la misteriosa scomparsa del genere umano narrata nel romanzo Dissipatio H.G. di Guido Morselli (un libro inspiegabilmente sconosciuto ai più, che vale la pena riscoprire); i tortuosi canyon dello Chemin des Ocres (il Sentiero delle Ocre, a mio avviso uno dei passi più suggestivi dell'intero libro), a Roussillon, ci catturano con la surrealtà di un paesaggio fatto di rossi e di gialli, preludio al "colore-materia" di Cézanne, ai suoi pini e alla sua volontà di «scomparire nella sostenza delle cose» (fatta magistralmente propria da Messori e Fossati), fino ad arrivare ai piedi della sua ossessione più grande: la montagna Sainte-Victoire, in Provenza. Poi sarà la volta dei cieli mossi d'Olanda, della pittura vorticosa di Van Gogh, "pittore del vento", e di quella fotografica di Vermeer, che ci introduce nella cittadina portuale di Delft, in cerca di quel "piccolo lembo di muro giallo" contenuto nel suo celebre quadro Veduta di Delft; toccherà invece al romanticismo sublime del pittore Caspar David Friedrich, preso in un incessante dialogo con l'infinito, indicarci la strada in Pomerania, tra maestosi velieri, rovine di monasteri e qualche spiacevole ma prevedibile sorpresa: le ferite letali inferte all'anima dei luoghi dalla superficialità sconsiderata del turismo, e dalla conseguente musealizzazione forzata di ogni suggestione o fantasia residue. Il viaggio si conclude nel Mediterraneo, nell'atmosfera edenica di Capri; relativamente vicino, dunque, a quel paesino sull'Appennino reggiano da cui tutto ha avuto inizio.
Sensibilità
poetica, sguardo fotografico, invito al viaggio e
suggestioni pittoriche e letterarie si avvicendano ed amalgamano in questo
libro con naturalezza estrema, facendone una sorta di canto
d'affezione nei confronti del mondo e degli uomini che,
imperterriti, continuano a cercarlo, fuori e dentro di sé.
Lo si legge d'un fiato, tale è la sua capacità di avvincere
il lettore quanto e più di un romanzo; per quanto mi
riguarda, la vaga nostalgia provata una volta conclusa la
lettura mi parla già di future riletture, così come accade
con i libri di poesia più amati. Infine, un ulteriore punto
fondamentale a suo favore risulta essere la capacità di non
cedere mai alla tentazione banale e menzognera dell'idillio,
ma di mantenere intatto un equilibrio tra dolore e serenità,
rispecchiando così la naturale oscillazione di ogni
esistenza: «L'importante è riconoscere che in fondo il
mondo non avrebbe bisogno di noi, e che però noi possiamo
essere testimoni di una compiutezza che non ci appartiene ma
che a volte si può anche rivelare straordinariamente vicina,
amichevolmente vicina».
Nora Dal Monte © 06/2007
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