Esistono ancora, al mondo, luoghi che emanano un'atmosfera magica: il Tibet è uno di questi. Sicuramente la lettura dei racconti dei primi esploratori occidentali stimolò in me il desiderio di visitare questa terra così lontana. In particolare sognavo il Grande Tibet storico: l'Amdo e il Kham, oggi incorporati nelle province cinesi del Qinghai, del Sinchuan, del Gansu e dello Yunnan. Ero affascinata dai suoi spazi aperti, dalle immense praterie e dalle sue genti dallo spirito libero e ribelle.
Conoscevo il Tibet orientale: avevo già attraversato i suoi paesaggi da western e conosciuti i suoi fieri abitanti. Per ben due volte, su sgangherati ed ansimanti bus di linea, stracolmi di tibetani stipati tra sacchi maleodoranti di lana di pecora e burro di yak rancido, avevo attraversato alcune delle strade più impervie e spettacolari al mondo. Stregata dalla bellezza fantasmagorica di questa landa, racchiusa da aspre catene montuose alternate a verdi praterie e solcata da irruenti fiumi come il Salween, il Mekong, lo Yangtze, il fiume Giallo, lo Yalong, a distanza di un anno decisi di ritornarvi in compagnia di un amico, utilizzando come mezzo di trasporto la bicicletta. L'affollata e turbolenta città industriale di Lanzhou ci ospita prima della partenza. In questa città cantiere, adagiata lungo le rive del fiume Giallo, non rimane ormai più alcun segno del suo glorioso passato di importante guarnigione lungo la Via della Seta. Ed è proprio qui che inizia il nostro ambizioso programma di percorrere la carrozzabile che collega Lanzhou alla città di Chengdu, nella provincia cinese del Sinchuan.UNO STUPEFACENTE MISCUGLIO ETNICO
Prima di entrare nella Prefettura Autonoma tibetana del Gansu, chiamata dai cinesi Gannan, oltrepassiamo una serie di montagne ricoperte da "loess", il fertile terreno argilloso formato dalle piene del fiume e dal vento. Il contrasto con il paesaggio maestosamente nudo che circonda i villaggi diventa spettacolare. Da un lato il verde abbagliante delle coltivazioni, dall'altro il giallo delle aride montagne. Sui ripidi pendii a terrazze, le coltivazioni di cereali, verdure varie, enormi girasoli e frutteti carichi di pesche, albicocche, susine, mele e arance, animano il paesaggio. Sita sul
fondovalle intravediamo la cittadina musulmana di Linxia, un tempo importante arteria commerciale d'Oriente. A Linxia, tutto parla d'Islam: i veli di pizzo delle donne, i copricapi bianchi e la barbetta degli uomini, le centinaia di moschee e le cupole di legno dei minareti arricchite da delicati intarsi che si ergono come sentinelle al di sopra della fervida cittadina. Ovunque si diffondono le preghiere dei muezzin (sacerdoti). Il ritmo della vita è scandito dalla moltitudine di botteghe schierate lungo le strade. Lasciamo quest'isola arabo-musulmana nel cuore della grande Cina. La miscela etnica che incontriamo lungo il nostro tragitto è stupefacente. Accanto ai numerosi cinesi Han affluiti per il volere del governo di "cinesizzare" il territorio tibetano, vivono in comunità compatte cospicue minoranze: Hui, musulmani di Cina dalle origini turche; Sala, tribù in esilio da Samarcanda; Tu, discendenti dei soldati mongoli; Kazakhi; Baoan; Dongxiang; Quingin; cosacchi; mongoli; e naturalmente i tibetani, che oggi costituiscono una minoranza sulla propria terra.
Per la vastità del territorio tibetano non c'è da stupirsi di alcune differenze, di tipo etnico, linguistico e per il costume, fra gli stessi tibetani. Quelli che vivono nella regione orientale sono suddivisi in diversi gruppi: tra i più importanti troviamo a nord gli Amdo-wa, mentre a sud i Kham-pa. Tribù ritenute selvagge dai tibetani stessi e dedite un tempo al brigantaggio, dove furti, omicidi, razzie e sparatorie erano all'ordine del giorno. Formidabili guerrieri, legati al mitico personaggio di Gesar, cavaliere eroe che la leggenda vuole conquistatore di tutta l'Asia Centrale, non si sono mai piegati alle mire espansionistiche dei cinesi, tenendo una certa indipendenza sia da Lhasa che da Pechino. Negli anni '50 hanno ferocemente combattuto contro gli invasori cinesi ed hanno avuto un ruolo determinante anche nella fuga del Dalai Lama. Oggi che le scorrerie sono terminate, la loro fama di guerrieri sopravvive nella memoria, nelle leggende, nei racconti degli anziani, e il loro aspetto selvaggio non incute più timore. Tibetani dalla carnagione scura, dall'alta statura, dai lineamenti affilati che esibiscono i loro canini in oro dietro ad intriganti sorrisi, ricordano gli abitanti del selvaggio West americano. Uomini e donne amano mettere in mostra tutto il loro patrimonio: collane di turchesi, coralli ed ambre; bracciali, anelli ed orecchini d'argento tempestati di pietre semipreziose. Bizzarre sono le acconciature degli uomini Kham-pa che arrotolano, assieme alle lunghe trecce di capelli ingarbugliati, fasce di fili di lana rossa, arancione o nera, applicandovi sopra grossi anelli d'avorio e monili d'argento finemente intarsiato. E quasi a voler evocare legami con il West americano tutti portano uno o più cappelli in feltro, stile cow-boys. Le donne dividono la loro capigliatura in 108 treccine fissandole sul fondo con una striscia di stoffa alta circa 10 cm, adornata da centinaia di coralli e turchesi; oppure applicano sulla testa lunghe strisce di stoffa, ornate con grosse ambre.
...o asfaltate! Molto meglio lo sterrato, perché appena il sole raggiunge lo zenit l'asfalto si scioglie e la strada diventa estremamente appiccicosa, perciò l'asfalto si attacca alle ruote (sassolini compresi) rallentando la velocità.
SI', MA LE FOTO?
Magari pensate che sono un po' matta: non lascio a casa niente del mio materiale fotografico! Semmai peso i vestiti prendendo i più leggeri, oppure taglio lo spazzolino da denti, tolgo le etichette dei vestiti, ecc... Il materiale fotografico che porto con me durante i viaggi è il seguente: due corpi macchina Canon EOS 1N, un grandangolo 20-35 mm, un obiettivo 85 mmm (non sempre), un obiettivo 200mm, un duplicatore 1.4x, il flash (che non utilizzo praticamente mai), un cavalletto in carbonio (grande, stabile ma molto leggero...), e tanta pellicola (calcolo un rullino al giorno). Una volta usavo il Kodachrome ISO 25/64/200, ora sono passata alla Ektacrome 100 VS o 200. Porto inoltre tante batterie perché l'umidità, l'altitudine e i tanti scatti le scaricano velocemente. Il tutto viene posto all'interno di un mini zaino della Lowepro perfettamente adatto al portapacchi della bici. I rullini soitamente li metto nella borsa laterale, in fondo e all'interno, per proteggerli dal sole e dal caldo. Una reflex con un obiettivo la tengo nella borsa sul manubrio, così da poterla utilizzare velocemente; sconsiglio di pedalare con l'apparecchio al collo, è scomodo e pericoloso in caso di caduta. Un piccolo consiglio: viaggiare in bici consente di vedere più profondamente il paesaggio e la gente che ci vive, purtroppo a volte per la stanchezza o perché non si fa in tempo a prendere la macchina fotografica molti scatti vanno persi... ma non bisogna scoraggiarsi, perché in ogni caso le immagini e i vissuti resteranno nel vostro cuore per sempre!
LABRANG: L'INGRESSO AL MONDO BUDDHISTA
Violente e vorticose tempeste di polvere preannunciano l'arrivo della pioggia. Un timido raggio di sole riesce ad aprirsi un varco nella fitta coltre di nuvole infiammando i tetti della città monastica. Il monastero di Labrang Tashkyl appartiene alla setta dei Gelukpa, quella dei beretti gialli, votata al celibato e ligia alle tradizioni. Quello di Labrang oltre ad essere il monastero più grande dell'Amdo è anche una delle sei strutture religiose più importanti del Tibet insieme a Ganden Sera, Drepung, Tashilhumpo e Ta'er.
Ogni giorno, alle prime luci dell'alba, la città si risveglia. Da tutte le direzioni affluiscono frotte di pellegrini, che cominciano a camminare in senso orario lungo il periplo del monastero assorti in una litania di preghiere. La religione è il motore che regola ogni attività ed ogni istante della vita quotidiana. Le koras, ovvero i giri che un devoto compie intorno a un luogo sacro, sono impressionanti. Anziani e giovani fanno scorrere tra le dita il rosario di 108 grani, usato sia per accompagnare le preghiere che per contare il numero di koras fatte; oppure ruotano il chökor, la piccola ruota di preghiera contenente i mantra, formule di invocazione trascritte su carta pergamena. Altri ancora per acquistare più meriti e accrescere il proprio karma ad ogni passo si inginocchiano e si sdraiano con il ventre a terra, poi si rialzano, fanno un altro passo e si genuflettono nuovamente.
Sul tetto dell'edificio principale appaiono due monaci che portano alla bocca lunghe trombe telescopiche. Un suono profondo si diffonde annunciando l'inizio della cerimonia religiosa. I monaci, attraverso danze e rituali accuratamente codificati nelle sacre scritture, insegnano le tradizioni e i valori del buddhismo tibetano. Per l'occasione, indossano sfarzosi costumi di broccato intessuti d'oro e portano appariscenti maschere di legno intagliato; le quali, nella forma più terrificante, interpretano le deità che combattono i demoni.
L'orchestra monastica, formata dai suoni dei cembali, dei tamburi, delle trombe e dei corni telescopici, accompagna le danze sacre (chaam). Le devastanti vicende politiche hanno spogliato il paese dalle sue ricchezze, ma non sono riuscite a toccare l'anima dei tibetani.
Attraversamento del fiume con una speciale imbarcazione costruita con pelli.
RITMI ANTICHI PER UNA VITA SEMPLICE
La strada che conduce da Labrang alla cittadina monastica di Langmusi si snoda per circa 300 km, arrampicandosi lungo una collina dopo l'altra e valicando innumerevoli passi. Nel punto più elevato del percorso l'ago dell'altimetro indica 3700m di altitudine. Il sole splende, lontano si intravedono grandi nuvoloni neri carichi di pioggia o neve correre come impazziti nel cielo blu intenso. La leggera brezza può d'un tratto scatenarsi in una tempesta, freddo e caldo si alternano di continuo. Qui, in una sola giornata si avvicendano tutte le stagioni. Il paesaggio è brullo, di una drammaticità che invita al silenzio. Solo il nostro respiro affaticato e l'attrito dei pneumatici rompono la quiete di questa landa sconfinata. Ed è qui in questo
desolato deserto d'erba che abbiamo i primi incontri con i nomadi tibetani (drok-pa). Vivono essenzialmente di pastorizia portando le loro greggi di pecore, capre e yak attraverso gli alti pascoli e conducendo una vita vagabonda sotto la tenda. Dalla pastorizia traggono quasi tutto il necessario per la loro sussistenza e hanno una stretta interdipendenza con la popolazione sedentaria (rong-pa). L'economia si basa sull'autarchia, la gente trova i mezzi di sostentamento soltanto nel proprio territorio. Parte dei prodotti ricavati dalla pastorizia (latte, burro, yoghurt, pelli) vengono scambiati, in natura, con prodotti irreperibile come sale, té, fucili, munizioni, seta, argento, oro e pietre. La loro casa viene collocata dove si trova un buon pascolo; dalla pastorizia traggono quasi tutto il necessario per la loro sussistenza. Al contrario, i rong-pa hanno adottato un sistema di vita noto come transumanza: solo alcuni pastori salgono con il bestiame ai pascoli estivi, mentre la maggior parte della popolazione rimane nei villaggi per dedicarsi all'agricoltura.
LA FINE DI UN SOGNO
Il mare d'erba che si estende ad una ventina di chilometri da Langmusi mise a dura prova anche l'esercito dell'Armata Rossa durante la Lunga Marcia. La realtà selvatica di questa terra paludosa, la pioggia intermittente e il gelido vento freddo sfinirono e decimarono molti uomini. Il panorama è poco diverso da quello che videro i primi esploratori giunti fin qui. Nei loro diari vengono descritte le stesse distese erbose spazzate dai venti dove l'unica presenza umana è quella dei pastori nomadi. La sconfinata prateria è interotta solo da una striscia sterrata e tortuosa. Pedaliamo in un paesaggio avvolto da una nebbia spessa, dove è difficile individuare il confine netto tra terra e cielo, sotto una pioggia torrenziale, in uno scenario vuoto,
impressionante e senz'anima viva. L'impressionante massa di gelida acqua, la morsa implacabile del fango e le forti raffiche di vento che schiaffeggiano senza interruzione questo remoto luogo non ci danno tregua.
Dopo una settantina di chilometri di desolazione, allineate lungo la carreggiabile, intravediamo migliaia di tende nere che incombono sul deserto erboso come sinistre ombre. E' proprio qui che inizia la minaccia più grande del nostro itinerario. Veniamo assaliti da cani robusti e dall'aspetto malsano, addestrati per proteggere gli accampamenti dagli intrusi e tenere lontani i lupi. Veniamo rincorsi e accerchiati più volte. Pedalare in queste condizioni è difficoltoso, siamo ben contenti di essere accolti all'interno di una tenda dove troviamo gradevole ospitalità. Un ragazzino ci induce ad accomodarci su due zolle d'erba. Poi, con la massima disinvoltura si toglie le scarpe per calzare un paio di pantofole quadrettate. Il tepore di una vecchia stufa di ferro, alimentata da piccoli pezzi di legno e sterco, ci consente di riscaldarci ed asciugare i nostri vestiti e le scarpe, ormai completamente inzuppate d'acqua. Il codice d'ospitalità dei nomadi è molto radicato, ci viene offerta una bollente tazza di tè che beviamo con gusto.
Raggiunta Zoige, squallida cittadina cinese, per non mettere a repentaglio le nostre vite decidiamo di non continuare il nostro viaggio verso Chengdu e di far ritorno a Lanzhou. Approffitiamo della breve tregua della pioggia. Inforchiamo nuovamente le nostre mtb per assaporare la fine della giornata e della nostra avventura. L'immobilità e il silenzio di cui l'incantevole scenario è impregnato conquistano la nostra anima. Questa calma apparente in realtà nasconde una meditazione profonda, che qui si trasforma in stato naturale dell'uomo. In lontananza scorgiamo la sagoma di una carovana scomparire nell'infinito deserto d'erba. Con tristezza ci chiediamo per quanto tempo questa gente, fiera e libera, potrà ancora errare nelle sconfinate praterie del Tibet orientale.
Alessandra Meniconzi © 02/2005
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