A.P. Desole
La fotografia industriale in Italia 1933-1965
Edizioni Quinlan, 2015
ISBN 978-88-99390-02-0
Euro 20,00
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Crediti della foto: Bruno Stefani, Laminatoio riduttore, Dalmine, 1937. © Fondazione Dalmine, g.c.
Prima di addentrarsi nella lettura di un qualsivoglia saggio, è buona norma avere ben chiaro quale sia l'oggetto dell'indagine. Il bel testo di Angelo Pietro Desole, correttamente, affronta sin dalle prime pagine la definizione di fotografia industriale, appunto allo scopo di chiarire al lettore che cosa si è indagato, come e perché. Per Desole una fotografia non si qualifica come industriale solo perché il soggetto fotografato attiene al mondo dell'industria; piuttosto, perché tale qualificazione sussista, occorre che vi sia un rapporto diretto tra l'industria (nel senso: la società, la persona giuridica insomma) ed il fotografo: un rapporto di committenza (o, più raramente, di successiva acquisizione) che stabilisca in maniera inequivocabile che l'opera del fotografo sia stata commissionata dall'azienda e che sia stata realizzata e diffusa in accordo con gli intenti e le aspettative del committente. "La fotografia industriale", scrive Desole, "è prima di tutto una fotografia di scopo, un mezzo comunicativo messo in campo dalle aziende per propagandare all'esterno una ben definita immagine aziendale".
In altri termini, la fotografia industriale non è la fotografia di uno stabilimento o di un impianto. E' invece qualcosa di più ampio e più ristretto allo stesso tempo: una pratica fotografica che attiene al racconto di una realtà industriale in quanto tale, cioè espressione diretta di una delle componenti di base di un sistema capitalistico. In questo senso, non fa fotografia industriale un fotografo che se ne va in giro a fotografare ciminiere e liquami per documentare il degrado ambientale di un'area, né la fa un fotografo che, giocando sulle forme e sulle ombre, crei immagini dal forte impatto compositivo, quasi al limite dell'astratto, intriganti quanto si vuole ma che nulla dicono sulla realtà aziendale che le ha rese fisicamente realizzabili.
Se ci si attesta su quest'ambito di indagine, appare chiaro che per raccontare la storia della fotografia industriale risulta inevitabile inserire la trattazione all'interno del contesto economico, sociale e culturale in cui ogni operazione fotografica si dispiega. Dunque l'analisi non può non tener conto e non intrecciarsi con le vicende storiche e con i mutamenti legati alla cultura (non solo visiva), al costume, al design, al linguaggio della comunicazione pubblicitaria.
E' dunque questa la chiave di lettura che accompagna il lettore lungo le quasi duecento pagine del volume. Ciò vuol dire escludere dall'analisi la fotografia, diciamo così, autoriale, fatta cioè dai fotografi che nel tempo hanno avuto spesso l'industria tra i propri soggetti (uno su tutti: Basilico, tanto per citare un autore nostrano e contemporaneo) senza però quelle condizioni legate alla committenza (ed alle connesse aspettative) di cui si è discusso più sopra. Allo stesso modo l'analisi svolta non affronta, deliberatamente, quel vasto mondo del reportage sociale legato al mondo delle fabbriche – si pensi alle lotte operaie, ai movimenti sindacali, all'immigrazione, ed in generale a tutti quei fenomeni sociali e culturali intimamente connessi, quando non diretta conseguenza, dello sviluppo industriale.
Definito in questi termini l'oggetto dell'indagine, dalla lettura emerge chiaramente che si tratta di un testo dietro al quale c'è stato un accurato lavoro preparatorio di ricerca ed analisi documentale; aldilà delle (numerose) note e della (sostanziosa) bibliografia, infatti, la narrazione procede solidamente ancorata alla cornice storica complessiva da un lato, ed alle specifiche manifestazioni di fotografia industriale (sempre nel senso poc'anzi individuato) dall'altro. Ecco dunque che, lungo quattro capitoli (il periodo dal '33 al '39, la Seconda Guerra Mondiale, e gli ultimi due capitoli dedicati al Dopoguerra ed al c.d. Miracolo Economico), si raccontano e si descrivono i primi passi della fotografia industriale in Italia, le prime committenze, gli Studi Fotografici incaricati che per primi hanno innervato questa tradizione - finendo col delinearne in gran parte canoni e stili -, e le pubblicazioni (prima di tutto le riviste aziendali, gli house organ) sui quali le fotografie hanno poi trovato visibilità.
L'ampiezza dell'arco temporale affrontato, l'accuratezza dell'analisi e la inevitabile multidisciplinarietà che la contraddistinguono (dosata peraltro con sapienza, altrimenti il testo sarebbe stato di 2000 pagine) non devono però spaventare: il linguaggio, pur rigoroso, è scorrevole e non specialistico. L'esito è una lettura interessante e appagante, che oltre a gettare luce in maniera chiara e sistematica su un aspetto della pratica fotografica certamente poco noto al grande pubblico, finisce anche con lo stimolare la curiosità verso uno o più degli indirizzi d'indagine che, per ovvie ragioni di brevità, il saggio affronta solo in superficie, senza dilungarsi. Un lavoro utile, accurato e ben fatto, che conferma il prezioso impegno dell'editrice Quinlan per la diffusione della cultura fotografica a tutto campo.
Agostino Maiello © 04/2016
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