Una riflessione sulle "brutte fotografie" della Arbus, con qualche inevitabile sconfinamento, intorno alla radicale interpretazione fattane da Pino Bertelli nel suo saggio "Della fotografia trasgressiva. Dall'estetica dei freaks all'etica della ribellione".
Diane Arbus
fotografata da Stephen Frank al Rhode Island School of
Design, nel 1970.
Diane Arbus, Lauro Morales,
nano messicano,
nella sua stanza d'hotel a N.Y.C., 1970
La Fotografia, nell'interpretazione che ne ha fatto la Arbus, si è fatta strumento di emancipazione, di libertà, di ribellione.
Emancipazione dall'opprimente american way of life degli anni Cinquanta, in cui una donna di buona famiglia era
tenuta a sognare una casa con giardino fuori città, un cane
e
un nuovo figlio, a sentirsi a proprio agio nella morsa di
vestiti castigati, metafora di una società altrettanto
rigida e non incline a "sbottonamenti" reali o metaforici
(o, almeno, particolarmente dura col cattivo gusto di chi
osava trasgredire alla luce del Sole, senza prendersi la
briga di occultarsi ben bene dietro la spessa e
misericordiosa cortina
dell'ipocrisia).
A chi le chiese il perché si fosse dedicata seriamente alla
fotografia solo a partire dai suoi 38 anni, ella rispose,
con un sarcasmo cristallino: "Perché una donna passa la
prima parte della sua vita a cercare un marito, a imparare
ad essere una moglie e una madre, e a tentare di svolgere
questi ruoli nel modo migliore. Non le resta il tempo di
fare altro."
Fotografia come strenua affermazione del proprio essere
deforme: del proprio esistere, in quanto individuo/entità
autonoma, al di là di ogni forma prestabilita e imposta.
E proprio la categoria del 'deforme', infatti - nella sua
accezione etimologicamente neutra, e quindi sgombra da
qualsiasi intento di giudizio -, fu il campo prescelto da
questa fotografa americana per cercarsi, e riconoscersi, nel
mondo che la circondava. Dai più classici "fenomeni da
baraccone" agli individui affetti da deformità fisiche o
psichiche, o più semplicemente considerati dalla società
dispregiativamente "diversi" per certi loro comportamenti e
attitudini (casistica che viene solitamente riassunta dal
termine 'freaks', con cui ci si riferisce a persone
che siano fisicamente abnormi o, più in generale, a
individui considerati negativamente inusuali a causa del
loro modo di agire).
Talvolta la deformità si fa più segreta, nascondendosi nelle
pieghe ben stirate di una quotidianità borghese che si
vorrebbe impeccabile. Ma, dice la Arbus: "c'è sempre una
differenza tra quel che vogliamo si sappia di noi e quello
che non possiamo evitare si sappia di noi; è la distanza tra
l'intenzione e l'effetto"; è in queste foto che il senso
di inquietudine si fa più forte, proprio quando la
sensibilità della Arbus si infiltra in questo stretto spazio
incontrollabile, svelando storture segrete in volti e corpi
all'apparenza perfettamente normali.
Diane Arbus, Ermafrodito con cane, 1970
Diane Arbus, Giovane coppia di Brooklin in partenza per una gita domenicale. Il loro bambino si chiama Dawn. Loro figlio è ritardato, 1970 (da notare come la Arbus passi dai numerosi 'Senza titolo' a vere e proprie didascalie che condensano in poche righe storie ed esistenze intere).
Una sua celebre affermazione recita: "La Fotografia
è un segreto intorno ad un segreto: quanto più ti dice,
tanto meno riesci a capire".
La Fotografia mistifica, aumenta il caos invece di
dissolverlo, perché intacca la superficie uniforme della
presunta "realtà oggettiva", frantumandola in una miriade di
tasselli minuscoli, di sguardi unici. Laddove
non c'era niente, ora c'è una foto, e ciò che sarebbe
passato senza lasciar traccia di sé, ora imprime col
peso della memoria un supporto materiale potenzialmente
eterno (grazie alla sola spinta emotiva che ha portato
il fotografo a scattare proprio lì, proprio in
quell'istante).
Laddove c'era un vuoto di senso, ora c'è
l'interpretazione che di quel vuoto ha fatto una singola
persona. Ogni foto, per questo, è un segreto elevato a
potenza.
E Diane Arbus, come molti altri grandi fotografi, lo
sapeva bene, che fotografare non significa ritrarre la
realtà, come in un semplice riflesso di specchio. Nel momento in cui si scatta, le apparenze del
reale sono già state istantaneamente sottoposte ad un
"filtraggio" e ad una trasfigurazione attraverso la
propria interiorità (che le ha scelte, che le ha in
qualche modo "riconosciute").
Dopo quell'attimo, quella
realtà non è più la realtà "di tutti"; è come dire
"Ecco:
questa è la mia realtà. Questa sono io". Scattare, in
questo senso, diventa una presa di coscienza del proprio
sé prima ancora di ciò che è fuori da noi (e, come
scrive Bertelli nel suo saggio: "prendere coscienza di
sé abolisce ogni soggezione"). Fotografare diventa
così gesto estremo di libertà, di autonomia, di
consapevolezza; un ratificare la propria esistenza in
questo mondo - giusta o sbagliata che sia -, un calcarne
i contorni quando questi sembrano sfumare
nell'indistinto. Come una sorta di "vedo (e scatto):
dunque sono" che scaccia momentaneamente la paura,
che afferma con forza il nostro diritto ad esistere al
di là di ogni presunta conformità obbligata.
Le fotografie della Arbus propongono, essenzialmente,
modi diversi e "altri" di stare al mondo. Non tanto però
- o non solo - per fare della Fotografia sociale; quanto
nella speranza che, all'interno di questa sconfinata
varietà, anche il suo modo possa trovare spazio.
Nei suoi
scatti non c'è traccia di patetismo, morbosità o auspici di
riscatto: il diverso e lampante "esserci" dei protagonisti è
già di per sé l'unico, vero riscatto possibile, ben più
dignitoso e concreto di qualsiasi accettazione "concessa"
dal resto del mondo, invischiato in un concetto di
solidarietà che il più delle volte nasce esclusivamente da
un potentissimo senso di sostanziale estraneità nei
confronti di queste realtà marginalizzate.
L'unico sentimento presente è la partecipazione: una
partecipazione che non potrebbe essere così forte se chi
scatta non si sentisse intimamente lacerata per il suo
considerarsi "sbagliata", impaurita dalla potenza devastante
del pregiudizio.
La Arbus bussa rispettosamente alle precarie porte delle
esistenze che immortala, chiede di essere accolta e
soprattutto - in forza di un capovolgimento di ruoli - di
essere accettata: quasi chiedesse un'elemosina di coraggio a
quegli individui così "strani", ma nonostante tutto
perfettamente in grado di esistere (facoltà, questa, che
cesserà di assisterla nel 1971, conducendola al suicidio
dopo un lungo periodo di depressione); educatamente, non
entra mai prima che le venga detto "prego, avanti".
E' anche questo sentimento di necessità disperata che,
mettendo al riparo le sue foto da ogni documentarismo, rende la sua opera così profonda agli occhi
dell'osservatore.
Ogni sua foto è coltivata attraverso un rapporto diretto con
il soggetto, in cerca di una reciproca fiducia, di una
comprensione: le sue immagini non sono mai rubate, non si
affidano all'abile arte dello spiare che fa la posta al
fantomatico "momento decisivo"; i soggetti sono quasi sempre
in posa frontale, consapevoli nel loro essere investiti
dalla spietata carica indagatrice dell'onnipresente flash.
In totale controtendenza con il suo nascere fotografa di
moda, la Arbus focalizza costantemente l'attenzione sulle
espressioni e sugli sguardi, mimetizzando al massimo ogni
accessorio, sia esso il vestiario del soggetto o l'ambiente
che lo accoglie.
Scarsissima, quasi assente la ricerca compositiva
dell'immagine ("Detesto l'idea della composizione",
dirà), così come l'importanza riconosciuta al processo di
stampa: "una foto è importante per ciò che rappresenta;
ciò che essa rappresenta è più importante di quello che essa
è".
Elogio della sostanza a discapito della tirannia della
forma/apparenza, quindi; tanto che la Arbus stessa avrà modo
di accennare alle sue "brutte fotografie", impermeabili ad
ogni limatura artistica, ma proprio per questo capaci di
disvelare verità altrimenti invisibili.
Diane Arbus, Donna portoricana con neo, NYC, 1965
Diane Arbus, Bambino in lacrime,
New Jersey, 1967
NOTA BIOGRAFICA su Diane Arbus
Diane Nemerov nasce a New York il 14 marzo 1923 da genitori di origine polacca, benestanti proprietari di una celebre catena di negozi di pellicce. A 18 anni sposa Allan Arbus, commesso in uno dei negozi di famiglia, dal quale avrà due figlie. Dal marito impara il mestiere di fotografa e insieme si dedicano alla fotografia di moda: le loro foto sono pubblicate su riviste quali Vogue e Glamour. Nel 1958 lascia lo Studio Arbus e diventa allieva della fotografa Lisette Model presso la New School. Inizia in questi anni a maturare la sua vocazione personale, la sua attrazione per i freaks e le loro realtà scomode, ai quali si dedicherà in maniera sistematica e pressoché esclusiva a partire dai primi anni Sessanta. La sua fama passa per due fondamentali esposizioni presso il Museum of Modern Art di New York, nel 1965 e nel '67. Le sue foto destano scandalo nell'ambito della società benpensante, che le ritiene offensive e 'brutte'. Non mancano, d'altro canto, appoggi celebri quali quelli che le vengono dai fotografi Richard Avedon e Walker Evans. A partire dal '65 si dedica all'insegnamento in diverse scuole. In seguito a sempre più frequenti crisi depressive, si toglie la vita il 26 luglio 1971.
Copertina del saggio di Pino Bertelli.
La foto, della Arbus, è Bambino con bomba a
mano giocattolo in Central Park, del 1962.
IL LIBRO
Titolo: Della fotografia
trasgressiva. Dall'estetica dei "freaks" all'etica della
ribellione. Saggio su Diane Arbus
Autore: Pino Bertelli (è uno degli esponenti centrali del neosituazionismo italiano, attivo da anni nella critica cinematografica indipendente e fotografo di strada. Tra le sue pubblicazioni, ricordiamo Della fotografia
situazionista - Contro la fotografia della società
dello spettacolo. Critica situazionista del linguaggio
fotografico - Luis Buñuel. Il fascino discreto dell'anarchia)
Editore: NdA Press 2006 (prima edizione nel 1992 per
TraccEdizioni)
125 pagine, 36 foto b/n, prezzo 13 euro
Sommario
- Presentazione di Gianna Ciao Pointer
- Noi e gli altri tra identità e differenza di Alfredo
De Paz
-
Preludio: Miseria della fotografia
Rapporto sulle immagini e le teorie dell'impostura
nell'epoca della falsificazione
1. La scatola magica
2. La decostruzione della comunicazione e il declino del
vero
3. La radicalità dello sguardo o il détournement della
critica situazionista
4. L'insurrezione dei freaks e la fotografia bootleg
5. L'etica dell'osceno
Immagini della cultura suburbana
6. Fotografia della crudeltà
L'oscenità del vero
7. L'angelo nero della fotografia randagia
Commiato da ieri e apologia eversiva dell'eu-topia