Dal giornalismo ed alle immagini da pubblicare sulle riviste, in bilico tra Diritto di Cronaca e Rispetto della Privacy, al fenomeno dell'abusivismo in campo fotografico.
Se il fenomeno dei "paparazzi" è un fenomeno tutto italiano non ci si deve rifare soltanto alla famosissima fotografia di Tazio Secchiaroli scattata nel 1956 all'improvvisata "spogliarellista" turca Aichè Nana al Rugantino di Roma o alla "Hollywood sul Tevere" degli anni immediatamente successivi ma anche, e soprattutto, al vuoto legislativo vigente all'epoca. Soltanto nel 1974, infatti, sia sotto la spinta delle intemperanze sempre più audaci dei paparazzi (che arrivavano a noleggiare camion dotati di teloni sul cassone all'interno dei quali installavano postazioni per riprendere personaggi nelle abitazioni private attraverso un foro corrispondente a quello dell'obiettivo), che a seguito di intercettazioni telefoniche messe in atto da agenzie di investigazione privata, si giunse alla emanazione della legge n. 98, tuttora in vigore, che contempla la "Tutela della riservatezza e della libertà e segretezza delle comunicazioni".
Apportando adeguate aggiunte al codice penale veniva di fatto sancita, per quanto concerne la fotografia, l'illiceità delle riprese di persone effettuate nei luoghi di privata dimora e nelle loro pertinenze. Questo stava, e sta a significare, in primis che si consuma un reato, in queste ipotesi, per il solo fatto di riprendere la fotografia e non solo nel renderla pubblica. Si tratta di una norma che, di fatto, ha giustamente messo al sicuro la riservatezza della vita delle persone, anche note, quando queste si trovino in situazione di intimità di qualsiasi natura e non "esposti" al pubblico nel qual caso, come è noto, si possono riprendere e pubblicare le loro immagini. Sotto questo aspetto la cosiddetta "legge sulla privacy" (n. 675/96) nulla ha innovato, pur avendo inserito tra i dati personali l'immagine della persona.
Ma può l'immagine di una persona essere considerata un dato personale in senso stretto? Su tale argomento abbiamo già espresso le nostre perplessità. Posso non far conoscere il mio recapito telefonico o l'indirizzo e chiedere, quindi, conto della fonte a chi ne fosse eventualmente in possesso; posso giustamente esigere che non circolino notizie sul mio stato di salute e via dicendo ma non posso certamente evitare che altri prendano visione delle mie fattezze. Del resto, tutta la normativa presa in considerazione del garante per la tutela dei dati personali sulla materia è riconducibile di fatto a norme preesistenti e tuttora in vigore. L'importante è, per quanto concerne il tema di nostro interesse, rispettare l'altrui riservatezza e fotografare senza condizionamenti quando ci troviamo in luogo pubblico e non esistono, sul posto, divieti di altra natura.
DAI ALL'ABUSIVO!
Penso che si riuscirà prima a risolvere il problema della priorità della nascita dell'uovo e della gallina che non quello della linea di demarcazione tra il fotografo professionista e il fotografo abusivo. A scanso di equivoci preciso che, non essendo l'esegeta dell'ultima ora, sono da sempre decisamente dalla parte del professionista e non dell'"abusivo", specie purtroppo abbastanza "vivace" in Italia anche in altri campi. Ma avendo assistito, da quando ho l'età della ragione a crociate bonificatrici più o meno veementi con ripetitività spesso ossessiva, non posso non dire la mia.
Partiamo da un concetto: è da considerare professionista, e tenuto a tutti gli obblighi di legge in continuum, colui il quale esercita una attività, appunto, con continuità e con fine di lucro ovvero colui il quale pone in essere una struttura organizzata tale da configurarsi come vera e propria attività commerciale e professionale. Chi svolge attività fotografica in via del tutto occasionale e per questa percepisce un compenso dovrà, ovviamente, regolarizzare di volta in volta la propria posizione dal punto di vista reddituale e fiscale. E in questo caso non si può, certamente, parlare di abusivismo nella professione. Diverso è il caso - entriamo nella fotografia di cerimonia - in cui nella stessa chiesa, con ripetitività, operi per riprese nuziali un fotografo che non abbia dichiarato la propria attività e, quindi, conseguite le dovute iscrizioni camerali.
È chiaro che queste figure costituiscono un danno economico per la categoria sia dal punto di vista della concorrenza sempre sleale che per il possibile "offuscamento" della professionalità di chi opera regolarmente. Ora rimango abbastanza perplesso nel leggere una nota di un'associazione di categoria che indica come possibili operatori abusivi "l'ufficiale comunale, o il finanziere, o il carabiniere". Premesso che non sembra identificabile una figura di "ufficiale comunale" (comandante dei vigili?, segretario comunale?, ufficiale di stato civile?) il riferimento alle forze dell'ordine sembra abbastanza mirato nel momento in cui si indicano, "finanzieri e carabinieri" mentre si omettono altre categorie parallele (polizia di stato, polizia penitenziaria, polizia provinciale, guardia forestale, e, ad abundantiam,... polizia mortuaria). Se si sono verificati dei casi di abusivismo accertati con la ripetitività della condotta illecita credo che un'associazione di categora avrebbe tutto il dovere di denunciarli ufficialmente. Se invece, si è voluto parlare a titolo di esemplificazione, credo si siano superati dei limiti andando oltre il diritto-dovere di informazione e di cronaca nel puntare l'indice su delle categorie specifiche, offuscandone in modo generalizzato, l'immagine. La qual cosa, francamente, non ci sembra di poter condividere.
Gianfranco Arciero © 06/2000
Riproduzione Riservata