In un trafiletto di 7 righe, relegato a fondo pagina, "Il Messaggero" dell'8 febbraio 2000 avverte che il Garante per la privacy ha precisato che il calendario dei processi, le udienze e le sentenze "sono pubblici e conoscibili da chiunque vi abbia interesse".
Nulla da eccepire, naturalmente, salvo che si tratta della ripetizione in copia conforme di un principio già ampiamente affermato, prima che anche in Italia si scoprisse il diritto alla riservatezza della persona, secondo la legge 675/96. I calendari dei processi e le sentenze sono pubblici, d'accordo. E anche le udienze stesse. Lo abbiamo visto in numerose trasmissioni televisive che hanno preso in considerazione processi nei vari gradi di giudizio. Ora su questo ultimo aspetto vorrei avanzare delle considerazioni sul rapporto immagine-dignità della persona. È stato consentito agli accusati di non offrire il proprio volto, se non lo vogliono, alle riprese. L'aula del Tribunale può essere considerata un luogo aperto e come tale accessibile a tutti.
Ma non è detto che la persona "comune" - mi sia consentito questo brutto termine - si alzi la mattina dicendo: oggi non vado a lavorare, a fare footing, in piscina, a scuola... Investo la mia giornata in un'aula di tribunale. Questo per dire che di norma il pubblico che segue i processi è principalmente la parte interessata alla vicenda processuale stessa o chi è tenuto a farlo per professione (dicasi giornalisti, agenti e ufficiali di polizia giudiziaria, avvocati, praticanti, o studenti di giurisprudenza ecc.).
Così l'aula, luogo aperto al pubblico o pubblico che dir si voglia, viene ad assumere, in questo senso, una connotazione atipica. Per questo sono contrario alle telecamere e alle fotocamere che a sentenza pronunciata dirigono i loro zoom sui parenti stretti del condannato per offrire alla platea degli spettatori televisivi e dei media in generale lo spettacolo della sofferenza altrui, il pianto, la disperazione, lo sconforto, e ciò, spesso, anche in presenza di condanne di primo grado.
No, non sono d'accordo.
Possono esserci altri modi per dare resoconti visivi dei processi, senza intaccare la dignità umana e senza affondare il bisturi nei sentimenti più profondi delle persone a solo vantaggio della spettacolarizzazione della notizia. E non sono d'accordo ancora su un altro aspetto. Per la mia attività consulto annualmente centinaia di sentenze e riporto alcune di queste nelle mie pubblicazioni.
Orbene, io penso che al lettore interessi la norma (o le norme) in esse contenute e il criterio applicativo da parte del magistrato per verificarne l'aderenza alla realtà dei comportamenti e al dinamismo insito nella valutazione dei singoli casi in rapporto all'evoluzione della società. Che sia stato condannato il Signor Rossi o sia stato assolto il Signor Verdi questo, credo, non dovrebbe interessare, come si suol dire, "più di tanto". Nel mio lavoro non mi avvalgo della facoltà di riportare i loro nomi proprio per questi motivi.
Ma c'è di più.
Penso anche che, una volta pubblicati i nomi in un testo divulgativo (non mi riferisco ovviamente ai testi per addetti ai lavori come massimari, riviste scientifiche ecc.) questi sopravvivono anche alla eventuale sopravvenuta riabilitazione dei "rei". Istituto che, proprio con il riabilitare, fa cessare le incapacità personali derivate da una sentenza di condanna. Che senso ha ciò se, come mi è capitato recentemente, nel consultare un libro su una bancarella leggo: "Corte di Appello di (...) 1984. Imputato (nome e cognome) Imputazione (i soli numeri degli articoli del codice penale) Conferma la sentenza del Tribunale di................con cui ................(l'imputato, ndr) venne condannato alla pena di anni 2 e mesi 3 di reclusione e L. 1.500.000 di multa".
Ora questa segnalazione che sopravvive da ben 16 anni ed è lì, insieme a tante altre, alla portata di tutti, di per sé non dice nulla perché non spiega all'uomo "comune" di quale reato si sia reso colpevole il soggetto ma richiede un'analisi specifica dei reati contestati in base alle leggi soltanto indicate e la consultazione di un codice possibilmente coevo e mi rifiuto di credere che l'uomo "comune" si sottoponga a questa trafila. Quindi quella sentenza così riportata non può dire nulla a chi non sia addentro alla materia. Una sola cosa può dire con certezza.
Se il Signor Reo, chiamiamolo così, regolarmente riabilitato, reinserito nella società, qualificato professionalmente e socialmente, sarà riconosciuto da chi legge, vedrà vanificarsi ogni impegno e determinazione posti nell'iter del suo ravvedimento. Processo, questo, né breve, né facile. Lo ripeto, sia chiaro. Nessun riferimento al merito della legge. Soltanto al buon senso e al rispetto della dignità umana in presenza dei diritti tanto "soggettivi" quanto elementari delle persone.
Gianfranco Arciero © 02/2000
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