La storia di Doina Matei ha avuto, nei mesi scorsi, un altro momento difficile. Come molti ricordano, nell'aprile del 2001, questa signora rumena – all'epoca di anni 21 con due figli e un vissuto di abbandoni e prostituzione – uccise la 23enne Vanessa Russo, a Roma, al termine di una lite nella metropolitana, infilandole la punta di un ombrello in un occhio; fu condannata a 16 anni per omicidio preterintenzionale aggravato. Reclusa nel carcere di Venezia, aveva ottenuto la possibilità di lavorare all'esterno, come cameriera, rientrando la sera nella casa di reclusione, e ciò dopo aver scontato ben 9 anni di reclusione.
Alla fine del mese di aprile, un giornalista aveva rintracciato un profilo Facebook della Matei, nel quale erano postate delle foto eseguite all'esterno (a Venezia) e nelle quali la predetta si era fatta ritrarre con lo sfondo di Venezia (e del Lido, in estate, in costume), mentre sorrideva.
Il fatto aveva scatenato moltissime proteste, in particolare dei familiari della giovane uccisa, ed una campagna di stampa, a dir poco giustizialista. Il Giudice di Sorveglianza di Venezia aveva sospeso la semilibertà alla Matei, soprattutto in quanto vi era un divieto di comunicazione a terzi, se non a specifiche persone.
Successivamente il Tribunale di Sorveglianza aveva ripristinato la semilibertà, in quanto – seppur considerando la pubblicazione su Facebook come inopportuna – non vi erano veri motivi per interrompere un percorso di riabilitazione sociale che fino a quel momento aveva avuto riscontri positivi.
Ma nel provvedimento del Tribunale di Venezia vi è un passaggio (proprio riferito a Facebook e, in particolare, al contenuto delle fotografie lì postate) che lascia perplessi.
Ed esattamente "…le trasgressioni poste in essere dalla Matei e ad attribuire loro la natura di deviazioni, sicuramente inopportune per le conseguenze di un rinnovato, acuto dolore, che hanno rinnovato nelle persone offese dal reato (le cui sofferenze non potranno essere lenite da qualunque decisione di questo Tribunale, che certamente comprende tutto lo sgomento, e finanche l'incredulità dei congiunti della giovane vittima a fronte della diffusione via Internet delle foto della condannata, ancora in esecuzione penale, che sorride felice, quasi incurante dell'eterno dolore cagionato)… "
Credo che questi Giudici qualche domanda (estranea al diritto), se la sarebbero dovuta fare, prima di scrivere, ma sembra proprio che non sia stato così. E cosi tutti coloro che hanno visto in quelle fotografie ( e in quel sorriso ), un'offesa incancellabile alla vittima e ai suoi familiari.
Perché, il problema di fondo, è tutto qui: si è trattato di un nuovo caso di giustizialismo fondato non tanto sulla fotografia di una persona sorridente (come afferma Michele Smargiassi, su Fotocrazia), quanto su un equivoco, su un media anch'esso equivoco e che utilizza la fotografia con una modalità particolare.
Siamo sicuri che postare una foto su Facebook sia davvero una comunicazione univoca ed unidirezionale, come rilevato da tanti ed anche dal provvedimento? O, piuttosto, che Facebook sia utilizzato come una grande vetrina, con contenuti estremamente ambigui, e, alla fine, con fini esclusivamente narcisistici, dove le foto non sono indirizzate agli altri, nel loro senso, ma piuttosto a sé stessi, come una sorta di conferma del proprio essere e del proprio esistere?
Alcune settimane fa, Linda Ferrari (una giovane studiosa milanese), in una serata al Circolo Fotografico La Gondola (potete vedere il video qui) rivelava alcuni meccanismi non noti del funzionamento di Facebook, ponendo anche l'accento sulla natura di semplice sostitutivo della "parola" nelle fotografie postate su Facebook.
La fotografia di sé stessi nel gesto di mangiare un pezzo di pizza ha più livelli di verbalizzazione ma, nell'intenzione di chi ha pubblicato l'immagine, è e resta una semplice comunicazione verbale della propria esperienza momentanea, un suo sostitutivo.
Ma, in sintesi, sembra prevalere la conclusione di un Facebook come antidoto alla propria solitudine, più che un media per relazionarsi con gli altri, per comunicare qualche cosa di particolare a chi guarda (o, piuttosto, a chi è indirizzata la foto postata). Una sorta di urlo, nel quale si sentono sullo sfondo delle parole indistinte, nulla di più o di diverso.
Se "posto", lo faccio soprattutto per me: quanti sono gli autoritratti (pardon, i selfie!!) su Facebook?
Penso che questo sia il senso con cui la sig.ra Matei abbia postato dapprima una ingenua fotografia su Facebook e poi altre nella medesima situazione (un mite sorriso): un suo ritorno alla vita, ad una normalità negata per tanti anni, ad una nuova affermazione di sé, dopo 9 anni di galera.
Ma, mutiamo prospettiva: la foto della spiaggia (che risale a molti mesi fa, davanti al mare: nessuno ha notato che adesso siamo in primavera e non vi è contemporaneità tra lo scatto e la pubblicazione) fosse stata scattata da un reporter e diffusa su un giornale, si sarebbe scatenato l'inferno mediatico nei confronti della sig.ra Matei?
Non voglio dare risposte certe: i soliti giustizialisti si sarebbero infuriati ma, alla fine la responsabilità sarebbe stata attribuita al povero reporter che ha forzato un'immagine per uno scoop.
E se la sig.ra Matei avesse postato una sua foto in lacrime davanti alla tomba della vittima, si sarebbe invocata – come fatto da qualcuno – la pena di morte (ecco l'assassina che prega ma non è certo pentita…)?
Ci vuole veramente poco a strumentalizzare Facebook – tramite la fotografia postata – da parte di alcuni, nel senso che l'istantaneità della condivisione porta con sé la messa in scena di un'immediatezza sconsiderata in una risposta anch'essa sconsiderata, soprattutto se non ci si ferma a riflettere sul significato di quello che si vede, sul mezzo e su quello che si vuol dire o far dire.
E, allora, quale significato finale? Solo un'equazione lombrosiana: sorriso = colpevole? Anche in un provvedimento giudiziario?
Massimo Stefanutti © 06/2016
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