SOVRAESPORRE E SOTTOESPORRE (TIRARE) UNA PELLICOLA (2)
Anche se i termini sovra- e sottoesposizione sono entrati nell'uso comune e servono adeguatamente allo scopo di indicare che la pellicola ha ricevuto più luce (o meno luce) di un certo valore di riferimento, il significato di questo valore non è sempre ben compreso. Il termine di riferimento è la quantità di luce appena sufficiente per riprodurre sul negativo il dettaglio nelle ombre più scure. Una pellicola viene generalmente "sottoesposta" se, per una qualche ragione, si va al di sotto di questa quantità di luce, cercando di recuperare in parte il dettaglio perduto mediante sovrasviluppo (push) o, al limite, rinunciandovi completamente. L'invenzione è dovuta alla scarsa reperibilità, un tempo, di pellicole ad alta sensibilità (basta vedere le macchine degli anni '60, con esposimetri tarabili fino a 320 ASA). Caso tipico di applicazione della sottoesposizione: una foto in interni con scarsa illuminazione. Piuttosto che rischiare una foto mossa si "fa finta" che la pellicola abbia una sensibilità più alta: le ombre più scure risulteranno inevitabilmente nere e senza dettaglio interno. Una pellicola viene "sovraesposta" se si aumenta l'esposizione al di là del minimo necessario; quindi si "fa finta" che la pellicola sia meno sensibile. La sovraesposizione è una pratica che dovrebbe diventare abituale, sempre che sia contenuta entro limiti ragionevoli, e ad essa dovrebbe corrispondere un sotto sviluppo, allo scopo di contenere le luci entro i limiti di stampabilità. "Esponi per le ombre e sviluppa per le luci" non è un proverbio, ma un metodo seguito dalla maggior parte dei fotografi. Questo uso della sovraesposizione consente di ottenere plasticità nelle immagini e grande distribuzione delle tonalità di grigio. Per ulteriori dettagli ed esaurienti spiegazioni è bene consultare attentamente "Il Negativo" di Ansel Adams, Ed. Zanichelli, L. 78.000. È lì che si troveranno le più efficaci ed esaurienti risposte alle domande sull'esposizione.
COSA SONO IL CONTRASTO E LA GAMMA TONALE?
Nel percorso dalla realtà alla stampa il fotografo ha a che fare con il contrasto in diverse forme:
Il problema fotografico relativo al contrasto consiste nel trasporre il contrasto della scena in quello dell'immagine, sia questa in forma di dia, di stampa a colori o di stampa BN, e si pone in due termini limite:
1) Il contrasto della scena è troppo grande per essere riprodotto interamente nell'immagine, con conseguente perdita di dettaglio nelle luci o nelle ombre.
2) Il caso contrario, quando il contrasto della scena è più basso di quello che l'immagine potrebbe riprodurre, può conferire un aspetto piatto all'immagine (qui subentrano anche dei fattori estetici personali).
In questa sede prescinderemo totalmente dai fattori estetici. Ricordiamo invece che:
In virtù di queste differenze continueremo la discussione del contrasto nel BN. Il primo passo consiste, o meglio dovrebbe consistere, nel produrre un negativo nel quale il contrasto della scena sia compresso o espanso in modo che il contrasto del negativo si sposi con quello della carta. Per chi non sviluppa i negativi uno per uno come si usa fare nel grande formato questo è naturalmente impossibile, anche se non è da escludere la possibilità di trattare separatamente pellicole, o spezzoni di pellicola, dedicati a riprese particolarmente esigenti. In generale si cerca però un compromesso, favorito in buona parte dalle caratteristiche intrinseche delle pellicole, e mediante l'uso di carte da stampa di diversa gradazione. Ed è la gradazione che introduce il concetto di scala tonale, perché due carte dello stesso tipo ma di gradazione diversa avranno lo stesso contrasto, definito più sopra come differenza tra il nero più nero ed il bianco più bianco, ma "ci arriveranno" in maniera diversa. Ad un estremo poniamo una gradazione che riproduca due densità del negativo molto vicine tra loro rispettivamente come bianco e nero; all'altra poniamo una gradazione che riproduca le parti trasparenti del negativo come nero, quelle più dense come bianco. È evidente che la prima è incapace di differenziare tra le diverse tonalità di grigio comprese tra i suoi estremi bianco e nero, cosa che invece la seconda fa benissimo. Diremo che queste carte hanno rispettivamente una scala tonale corta ed una scala tonale lunga. Lo stesso è vero per il negativo, per il quale occorre però una premessa. Abbiamo detto, ma era solo per intenderci, che il contrasto del negativo deve sposarsi con quello della carta. Ora mentre la carta ha dei limiti di densità (il bianco e il nero) ben precisi, la densità massima del negativo può eccedere di gran lunga il limite accettabile dalla carta, e quindi non ha senso parlare di contrasto del negativo in assoluto. Quello che veramente ci interessa è la differenza tra le parti trasparenti del negativo ed il limite di densità utile per la stampa, valore che, con la presunzione che ci distingue, ci permetteremo di battezzare Dlim. Il negativo può passare dalla densità di velo (zone trasparenti) alla Dlim molto rapidamente o attraverso una lunga serie di densità intermedie. Rieccoci alla scala tonale, del negativo stavolta.
Il processo fotografico consiste nello sposare LA SCALA TONALE del negativo con quella della carta, e poiché quando ci si sposa bisogna adattarsi da entrambe le parti ecco che prima si cerca di produrre un buon negativo, poi si raggiunge il compromesso finale scegliendo la carta giusta. I fabbricanti danno come misura della scala tonale del negativo l'indice di contrasto, concettualmente il "gamma" dei tempi andati, che altro non è se non la pendenza della curva lungo la quale la densità del negativo va dal valore di velo al valore Dlim.
Naturalmente vi sono molti fattori che influenzano la scala tonale del negativo, non ultimo l'obiettivo. Un obiettivo molto contrastato tenderà ad accorciarla a svantaggio quindi delle sfumature. Un obiettivo poco contrastato creerà un ammasso confuso di grigi. Lo sviluppo gioca un ruolo fondamentale, molto rilevante nel caso delle pellicole di bassa sensibilità, che possono raggiungere indici di contrasto molto elevati; quelle di alta sensibilità sono meno suscettibili a questo effetto, per cui tentare di ottenere alti indici di contrasto da queste pellicole significa forzare lo sviluppo con conseguente accentuazione della grana. In questo labirinto di variabili la regola che fa miracoli, la famosa "ricetta della nonnina", è di sovraesporre e sottosviluppare o, se si preferisce, esporre per le ombre e sviluppare per le luci. Funziona con tutte le pellicole, comunque un buon equilibrio grana/scala tonale è quello delle pellicole da 100 ISO.
A QUANDO SI PUO' DATARE LA NASCITA DELLA FOTOGRAFIA A COLORI, E QUANDO HA INIZIATO AD AVERE UNA DIFFUSIONE SIGNIFICATIVA?
La prima immagine a colori (che nasce a colori, non che lo diventa grazie a ritocchi o coloriture) è stato un dagherrotipo raffigurante lo spettro solare realizzato da Becquerel. Per quanto riguarda i dagherrotipi esiste un libro: "Il dagherrotipo a colori" di M. Jacob. Ducos du Hauron nel 1869 realizza le prime stampe a colori a partire da tre negativi filtrati rosso, verde e blu. Le immagini venivano poi stampate rispettivamente su carta al bicromato colorata gialla, ciano e magenta. Le emulsioni poi venivano scollate e rimontate a registro creando una immagine a colori (eccezionalmente stabile, tra l'altro). Per una diffusione un poco più ampia dobbiamo aspettare gli autochromes (inizi '900), creazione di quegli stessi fratelli Lumière a cui si deve l'invenzione del cinema. Il museo Albert Kahn di Parigi ne conserva di eccezionali! Questo procedimento fotografico che produce immagini diapositive è realizzato a partire da grani di fecola di patate! Ma la grande diffusione della fotografia a colori avviene dal 1935: la Kodak deposita il brevetto del Kodachrome e successivamente nel 1939 (cent'anni dopo la presentazione pubblica del dagherrotipo) l'Agfa introduce sul mercato la prima pellicola negativa a colori. Gli anni di massima diffusione della pellicola colore iniziano comunque dal 1970, anni nei quali avviene il "sorpasso" del vecchio, caro e sostanzialmente più stabile bianco e nero.
CHE COS'È L'ACUTANZA?
Durante l'esposizione nell'emulsione della pellicola si hanno fenomeni di rifrazione e diffusione dei raggi luminosi che colpiscono i granuli di alogenuro d'argento. Questo causa un alone che è particolarmente evidente nelle zone di passaggio molto netto tra bianchi e neri, alone che peggiora l'aspetto di nitidezza delle immagini. Più pronunciato è questo effetto, minore è l'acutanza dell'immagine. Questa dipende, oltre che dalle caratteristiche proprie della pellicola, dall'esposizione (che non deve essere eccessiva) e dal procedimento di sviluppo. Vi sono varie tecniche di sviluppo che aumentano l'acutanza di una pellicola, una delle più facili è quella che sfrutta il cosiddetto effetto adiacenza. Come funziona? Sviluppo molto diluito, agitazione ridotta al minimo indispensabile (una volta ogni 3-4 minuti) ed eventualmente aggiunta di potassio ioduro alla soluzione di sviluppo.
PROFONDITA' DI CAMPO E DISTANZA IPERFOCALE
La profondità di campo (PC) è definita da due distanze misurate a partire dalla fotocamera. Tutti i dettagli compresi entro queste due distanze appaiono a fuoco sull'immagine. La PC diminuisce con la lunghezza focale dell'obiettivo ed aumenta con la chiusura del diaframma e con la distanza del soggetto principale. In altre parole ci sono tante profondità di campo quante combinazioni ci sono di questi tre fattori. Il controllo della PC si effettua essenzialmente con il diaframma, ma si può scegliere di non mettere a fuoco esattamente sul soggetto principale, modificando così l'estensione e la posizione della zona a fuoco. Esempio: il soggetto principale è a 4m; ad f/8-11 saranno a fuoco, con un 75mm, tutti i dettagli tra 3m e 6m; supponiamo di non essere interessati ai dettagli oltre i 4m ma di volere a fuoco quelli fino a 2.5m; mettiamo a fuoco su 3m, e saranno a fuoco tutti dettagli tra 2.5m e 4m, senza toccare il diaframma. Fra i problemi di PC più frequenti c'e quello di avere a fuoco contemporaneamente l'infinito e dei dettagli molto vicini. In maniera del tutto simile si sposta il simbolo di infinito al limite superiore della zona di nitidezza, e come conseguenza si riportano all'interno di essa dei dettagli che prima ne cadevano fuori. Esempio: ad f/11 e fotocamera a fuoco su infinito saranno a fuoco tutti i punti tra questo e 10m. Se spostiamo il simbolo di infinito al limite superiore della zona di nitidezza saranno a fuoco tutti i dettagli tra infinito e 5m. Rimane aperta la questione "Come facciamo a sapere quali sono i limiti della zona di nitidezza? Per le fotocamere con una scala delle distanze ed una scala della profondità di campo è la cosa più semplice del mondo. La scala delle profondità di campo consiste in una doppia serie di aperture del diaframma disposte in posizione simmetrica rispetto alla tacca di messa a fuoco.
11 8 5.6 4 2.8 | | | 2.8 4 5.6 8 11 | |
INF | ...............10 | m | |
INF................ | 10 | .................5 | m |
Le due linee successive sotto questa doppia serie illustrano l'esempio. Da notare come la distanza di messa a fuoco nel secondo caso (10m) è doppia della distanza minima che limita la profondità di campo, ed è quella che si chiama distanza iperfocale. Per chi opera con queste scale essa è poco più di una curiosità. Le cose cambiano per chi non ha la scala di profondità di campo. I suoi limiti in funzione della lunghezza focale e del diaframma si possono ottenere per mezzo di tabelle o calcolare per mezzo di apposito software, è però impossibile piazzare il simbolo di infinito al punto giusto. Basta allora moltiplicare per due la distanza minima ottenuta dalle tabelle o dai calcoli. Si otterrà così la distanza iperfocale. Regolata la distanza su questo valore si avranno automaticamente a fuoco tutti i dettagli compresi tra infinito ed il limite minimo della PC. Chi non ha neanche una scala delle distanze deve stimare ad occhio la distanza iperfocale e mettere a fuoco su quel punto.