Ho odiato il flash per anni. L’ho sempre considerato un artificio demoniaco, in grado di alterare ogni condizione di veridicità, introducendo una variabile dalla connotazione violenta, deturpante, destinata all’ineluttabile appiattimento e depauperamento dell’immagine, in una chiave di diniego onnipotente delle condizioni ambientali...
Come si sa, una volta formulato un pensiero, e, tanto più, una volta scritto e pubblicato, esso si avvinghia alle caviglie del tuo corpo morale e non ti molla più, resistente a qualunque tentativo di controgiudizio critico.
Né tale rivisitazione poteva passare per la fruizione di autori come Bruce Gilden, il cui uso del flash, pur interessante e originale, mi pareva piuttosto la conferma della lontananza dal mio modo di concepire la fotografia, per nulla aggressivo.
Più convincente, semmai, l’uso del flash da parte di un fotografo come Jakob Aue Sobol, decisamente più sintonico col mio mood fotografico. Ma ancora insufficiente a farmi cambiare idea. La revisione di quel mio vecchio precetto non sarebbe mai avvenuta senza l’intervento del caso, il ritrovamento occasionale di un vecchio rullino, saltato fuori da un cassetto di famiglia; conteneva un servizio che alla fine degli anni ‘70, ancora nemmeno maggiorenne, condussi nella Sicilia Occidentale sul sociologo Danilo Dolci. Un rullo di Ilford FP4, ancora in perfette condizioni, impressionato dal Color-Agnar 45/2,8 della mitica Agfa Silette LK Sensor. Foto piane, descrittive, gradevoli, scattate tutte con l’ausilio di un piccolo lampeggiatore montato sulla slitta, con naturale semplicità.
All’epoca neppure mi ponevo il problema dell’irruenza fagocitante della luce artificiale, né attribuivo alcun particolare pregio al concetto di ”available light”. Il flash era quel che serviva per portare a casa la foto, né più e né meno. Quel che mancava ce lo metteva lui. Una forma di autarchia piuttosto rozza, ma efficace. La stessa in fondo, seppur in forme quasi contrapposte, che mi ha portato negli anni a valorizzare i principi del mosso: lì dove la luce richieda tempi di scatto che non garantiscono la fermezza dell’immagine si scatta lo stesso, senza ausili di sorta, senza cavalletto e senza lampi, mosso come viene, perché così vede la fotocamera.
Continuo a essere affezionato a questo principio di autonomia. Oggi, tuttavia, in questo modus operandi vorrei trovare un posto anche per l’uso del flash. Questo strumento, rigettato per decenni, mi si rivela d’un tratto come un vero garante dell’autosufficienza del fotografo, in grado di esaltare in modo perfetto la sua ambizione autarchica, concedendogli di non aver bisogno di alcun supporto esterno, neppure la luce!
A ben vedere, più che di autarchia si tratta di una forma particolare di autismo: il fotografo interrompe qualunque relazione col mondo esterno, o meglio col suo superfluo, l’eccedenza rispetto al puro rapporto intimo col soggetto, per agire una stereotipia affidata alla volontà del mezzo. Una dimensione psicotica, allucinatoria, la piena realizzazione di quell’idea di inconscio fotografico che, mutuata dalle teorie di Franco Vaccari, mi accompagna da tempo e che, me ne rendo conto solo adesso, proprio il flash realizza appieno.
Per riparare a questa ottusa miopia ho investito una decina di euro per l’acquisto di un vecchio flash manuale di media potenza, da accomodare sulla mia fedele Holga, ed ecco serviti i risultati: guizzi di delirio, lampi di follia, la mia via autistica alla fotografia. Non mi separo più dal mio flash. Almeno finché non rinsavisco.
Carlo Riggi © 04/2017
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