ESPOSIZIONI MULTIPLE E MONTAGGI NELLA STORIA DELLA FOTOGRAFIA
Michele Vacchiano, settembre 2003

C'è chi pensa che la fotografia debba essere una riproduzione della realtà. Ma la fotografia, bidimensionale e spesso in bianco e nero, ha ben poco a che vedere con un mondo fenomenico tridimensionale e colorato.

La fotografia è piuttosto una "traduzione" della realtà, un insieme di segni, ordinati secondo un codice, che "significano" qualcosa. E questo qualcosa non è il soggetto, ma il rapporto che il fotografo ha saputo instaurare con esso, lo stile con cui ha affrontato e risolto il problema fotografico che quel soggetto poneva in essere, le modalità con cui ha saputo trasformare un pezzo di realtà esterna (di per se stesso privo di significato) in un messaggio.

1. Camille Silvy: Scena presso il fiume (1858). Stampa all'albumina ottenuta da due lastre al collodio.

2. Henry Peach Robinson: Agonia (1858). Stampa all'albumina da cinque diversi negativi.

3. Henry Peach Robinson: La signora di Shalott (1861). Stampa all'albumina da tre negativi.

4. Jeff Wall: La donna e il suo dottore (1981).

5. Oscar Gustave Rejlander: Le due strade della vita (1857). Stampa alla gelatina.

6. Julia Margaret Cameron: L'eco (1868)

7. David Hamilton: Twen (1969)

8. Peter Henry Emerson: A stiff pull, East Anglia (1880)

9. Michele Vacchiano: Rothorn e Testa Grigia da Mandriou (2000). Doppia esposizione su lastra invertibile 4x5 pollici.

10. Michele Vacchiano: La luna sulle Levanne (1985). Due diapositive 35 mm duplicate "a sandwich".

11 e 12. Due immagini "astratte" del fotografo naturalista Lonnie Brock.

Nella storia della fotografia sono stati molti i tentativi di superare i limiti posti dal mezzo tecnico e dalla sua oggettività per renderlo capace di raccontare ed esprimere ciò che il fotografo aveva nell'animo; di trasmettere allo spettatore non tanto l'immagine di un soggetto reale quanto piuttosto l'immagine mentale, a volte onirica, che il fotografo aveva visualizzato.
E come sempre avviene nella storia delle arti, ci furono polemiche, esagerazioni, tentativi ed errori.

La disputa tra fotografia considerata come "riproduzione" della realtà e fotografia considerata come "interpretazione" della realtà è antica quanto la fotografia stessa.
La prima rovente polemica sorse fra i dagherrotipisti e i calotipisti. I primi preferivano la nitidezza e la definizione tipiche del dagherrotipo (con le ovvie limitazioni dovute agli obiettivi dell'epoca), i secondi la delicata evanescenza della stampa al sale.



Gli atelier, spuntati come funghi nella grandi città d'Europa e d'America, servivano soprattutto a solleticare la vanità dei ricchi borghesi, disposti a pagare fino a 40 dollari per un dagherrotipo a lastra intera. Mediocri ritrattisti abbandonarono i pennelli e si trasformarono in mediocri fotografi; l'unica differenza rispetto a prima era che il tempo per realizzare una fotografia risultava minore di quello necessario a un dipinto e che di conseguenza il numero dei clienti aumentava, insieme al profitto.


Come afferma Roberto Maggiori: “con la scoperta della tecnica del collodio umido, una tecnica che offriva una maggiore qualità, economicità e facilità d'uso (figura 1), l'immagine fotografica iniziò quel processo di massificazione che la contraddistinguerà fino ai giorni nostri. La riproduzione aveva però poco a vedere con la realtà, la pura referenzialità era infatti spesso "corrotta" nel ritratto commerciale (al di fuori degli atelier, peraltro diffusi capillarmente, la fotografia era ancora appannaggio di pochi facoltosi dilettanti), dove si tendeva a ricostruire un'immagine del cliente in termini adulatori: un'immagine confacente alle sue aspettative. Il fotografo più noto in questo genere di operazioni (...) fu il francese di origine italiana André-Adolphe Disdéri (1819-1890).

Disdéri (avviatosi come pittore era poi approdato alla fotografia) inscenava e riprendeva, nelle sue Cartes de visite gli stereotipi sociali della sua epoca, utilizzando un trattamento che potremmo definire teatrale e quindi con risultati irreali. La costruzione dell'immagine dipendeva soprattuto dal "profilmico", cioè da ciò che veniva allestito di fronte all'obbiettivo; il contrario praticamente di quanto avverrà col pittorialismo, soprattutto quello di scuola francese. [1]

Nel frattempo molti altri fotografi, soprattutto appassionati, cercarono di dare alla fotografia quella dignità "artistica" che sembrava esserle negata perché, continua Maggiori, la fotografia era “discriminata per il suo automatismo meccanico in un periodo in cui l’artigianalità svolgeva ancora un ruolo determinante nelle Belle Arti. A peggiorare la situazione c'era poi la condizione di neo media che riguardava la fotografia; condizione che, per quel processo che McLuhan definisce "Narciso-narcosi", tendeva a squalificare la pratica fotografica. Per McLuhan infatti la massa: diffida dei nuovi media materiali appena introdotti, li avverte come un insidia proveniente dall'esterno; oppure li accetta, ma per i benefici contingenti riportabili in sede pratica, senza peraltro sentirsi obbligata a rivedere l'intero assetto della propria superficie mediale, delle proprie facoltà estetico intellettive. Di qui il prodursi di una frattura tra mezzi strutturali [tecnologici] e mezzi sovrastrutturali [culturali]: i primi accettati a livello pratico, di lavoro quotidiano, ma inseriti in un sistema di concezioni sovrastrutturali ereditate da altri cicli tecnologici, e non più rispondenti alle condizioni rese possibili dai mutamenti intervenuti: una situazione di radicale falsa coscienza.

(...) «l’invenzione meravigliosa» volse dunque lo sguardo alla pittura in una sorta di «involuzione» che attestasse un intervento manuale. Ma rifarsi ad un tipo di pittura naturalista non avrebbe comportato nessun tipo di intervento da parte dell’operatore, vista l’automaticità riproduttiva del mezzo in questo senso; così la fotografia che ambiva a un riconoscimento artistico, prese le mosse in Inghilterra da un movimento pittorico antimoderno provvidenzialmente nato in quei tempi: il movimento preraffaellita. (...) la confraternita preraffaellita si prodigava per un’arte libera, non condizionata dall’accademismo meccanico. Un’arte esplicabile attraverso la ripresa di temi, soggetti e trattamenti “primitivi”, congeniali a proporre una bellezza ideale, un ritorno all’innocenza dei tempi antichi in cui l’umanità e la natura non erano ancora corrotti dalla prepotenza moderna.

(...) Ritornano allora caratteristiche antinaturaliste come la posa melodrammatica, il chiarore metafisico che si impone sull’oscurità terrena, il tratto lineare su quello sfumato, l’a-plat sulla profondità prospettica, la molteplicità del dettaglio sull’unità visiva e così via. La fotografia si impegna dunque su un fronte antitetico alle sue intrinseche, specifiche si dirà di lì a poco, possibilità riproduttive ed è proprio nello sforzo dell’operatore, atto a piegare il mezzo verso traguardi non congeniali che si vide un recupero di manualità e quindi d’artisticità.

Su queste premesse, si fonda a Londra nel 1892 il circolo fotografico Linked Ring Brotherhood, ad opera di Alfred Maskell e Henry Peach Robinson. Al motto di: «liberty loyalty», il gruppo si fece promotore di importanti avvenimenti come il Photographic Salon internazionale del 1893, al quale partecipò l’elite pittorialista del tempo (Robert Demachy, Alvin Langdon Coburn, Guido Rey, Alfred Stieglitz) [2] .”

Sempre secondo Maggiori, “Henry Peach Robinson (1830-1901) fu sicuramente la figura più importante del pittorialismo; in virtù se non altro delle pubblicazioni con le quali tentò la qualificazione artistica della fotografia. Ciò poteva avvenire, come afferma in: Pictorial Eeffect in Photography, del 1869, solo attraverso un recupero della manualità che diventava la principale cifra stilistica dell’autore. Questa, al contrario di quanto si è portati a credere solitamente, non doveva però trasparire prepotentemente dal manufatto, bensì occultarsi al fine di rendere naturale una realtà ipernitida, iperrealista (figure 2 e 3). Nonostante la messa in posa dei soggetti (tra l’altro obbligata, vista la lunga esposizione ancora necessaria per impressionare la lastra) e la tecnica usata da Robinson (le sue composizioni nascevano da un disegno cui venivano applicate, con la tecnica del fotomontaggio, le relative immagini concretizzate dal mezzo fotografico) siano d’evidente matrice pittorica, tanto da farlo finire in tribunale nel 1856 accusato d’aver plagiato un dipinto del preraffaelita Henry Wallis, emerge comunque nelle sue immagini una fotograficità realistica. Coerente infatti con le concezioni promulgate dal critico John Ruskin, Robinson poteva, grazie all’uso del fotomontaggio che eliminava il flou dovuto alla scarsa profondità di campo delle ottiche dell’epoca [3] , aderire pienamente a quella che lo stesso Ruskin definì la «fedeltà prosaica»; la riproduzione maniacale del dettaglio, atta a riprodurre la perfezione della natura intesa come diretta emanazione del divino.

E’ interessante notare come il modo di operare di Robinson abbia forti analogie con la tecnica usata da un’artista delle ultime generazioni come Jeff Wall (figura 4). Ovviamente alla colla, alle forbici e ai mascherini si è sostituito il Photoshop, ma più di una sottile linea di riconduzione lega il pittorialismo di Robinson all’arte contemporanea, come afferma lo stesso Wall: io posso tornare sulla mia immagine e, come un pittore, alterare quel che non sta a posto o aggiungere qualcosa per costruire un’unità di tempo e azione partendo da elementi disparati. In qualche modo ciò ravvicina la fotografia a certi caratteri della pittura figurativa. (in A. Pieroni 1999).

Tornando all’Ottocento, con una tecnica affine a quella di Robinson, seppur raggiungendo risultati più eclettici, si affermò il più anziano e all’epoca più famoso Oscar Gustave Rejlander (1813-1875). Come il collega appena citato, anche Rejlander deve la sua fama alle fotografie composite e ipernitide che realizzava nel suo studio e soprattutto alla notoria fotocomposizione allegorica del 1857, Le due strade della vita (figura 5). Questo fotomontaggio che ben rappresenta l’ambiguità fotografica, fu composto con trenta diversi fototipi riuniti in un foglio di 41 x 79 cm. E nonostante il formato e i soggetti (anche nudi) siano d’inflazionata matrice pittorica, l’opera scandalizzò per l’indiscutibile realisticità fenomenica, che solo il nuovo medium poteva vantare. Ma oltre alle fotocomposite, la produzione di Rejlander spaziò diversi generi. Passò da atmosfere oniriche, ottenute con sovraimpressioni che precorreranno quelle delle avanguardie storiche, a quelle che potremmo definire delle proto istantanee, quando, attraverso vere e proprie performances, simulò e fotografò per Darwin le transitorie “espressioni del sentimento”, fermate in alcuni autoritratti.

Su un versante più propriamente poetico, debitrice più della Weltanshauung di D. G. Rossetti piuttosto che delle idee di Ruskin, troviamo invece Julia Margaret Cameron (1815-1879). Come nell’opera di Rossetti, anche in quella della Cameron prevale su tutto la figura femminile (tanto pervasa di carnalità nei dipinti dell’uno, quanto intrisa di purezza nelle fotografie dell’altra). In entrambi, la donna viene idealizzata attraverso l’enfasi della posa e il trattamento delle lunghe chiome (...) A differenza di Rossetti, la Cameron eviterà però la prosaica nitidezza, trovando più congeniale alle proprie rappresentazioni fantastiche uno sfumato colmabile dall’immaginazione dello spettatore. [4] ” (figura 6).

Il flou sarà poi reinterpretato e piegato a nuove esigenze stilistiche da diversi fotografi, primo fra tutti il celebre David Hamilton, cantore della purezza, profondamente permeata di sensualità, delle fanciulle adolescenti (figura 7).



Una voce contraria al pittorialismo fu Peter Henry Emerson (1856-1936), un lontano cugino del poeta Ralph Waldo Emerson. Nacque a Cuba e trascorse l'infanzia negli Stati Uniti prima di recarsi in Inghilterra per compiere i suoi studi. Lavorò col pittore e fotografo Thomas Frederick Goodall. In polemica con Robinson e i suoi elaborati fotomontaggi, Emerson ritiene che l'approccio del fotografo alla natura debba essere più diretto e spontaneo. Allo stesso modo egli contesta la ricerca dell'assoluta nitidezza propria di Robinson: secondo Emerson l'unico punto davvero a fuoco deve essere il principale punto di interesse, conformemente a quanto avviene nella visione umana. Egli chiamò questa tecnica "differential focus" (figura 8). In accesa polemica con i pittorialisti e con le tecniche di stampa "artistiche", si scagliò con particolare ferocia contro la stampa alla gomma bicromatata, che



...distrugge i toni, la texture, e con questa i valori e l'atmosfera di una fotografia; rende il risultato sgradevole e falso e assomiglia alla ripresa fotografica di un quadro. Si tratta di un lavoro manuale, non di una fotografia. 


L'uso del grande formato, oggi come allora, si presta in modo particolare alle doppie esposizioni, ai montaggi e alla costruzione di immagini oniriche, capaci di riprodurre non tanto il mondo fenomenico quanto piuttosto il mondo interiore del fotografo. Come afferma anche Ansel Adams nel suo libro "Il negativo":



"E' importante rendersi conto che tanto la fotografia espressiva (detta anche "creativa") quanto quella di documentazione non sono in rapporto diretto con quello che noi chiamiamo realtà. (...) Molti ritengono che le mie immagini rientrino nella categoria delle "foto realistiche", mentre di fatto quanto offrono di reale risiede solo nella precisione dell'immagine ottica; i loro valori sono invece decisamente distaccati dalla realtà. L'osservatore può accettarli come realistici in quanto l'effetto visivo può essere plausibile, ma se fosse possibile metterli direttamente a confronto con i soggetti reali le differenze risulterebbero sorprendenti. (...) La visualizzazione è il processo di formazione dell'immagine fotografica finale nella mente del fotografo, prima ancora che questi compia i primi passi per l'effettiva realizzazione della fotografia. Molta della creatività della fotografia risiede nell'infinita gamma di risultati che il fotografo può ottenere, a partire da una rappresentazione pressoché esatta del soggetto fino alla sua interpretazione più libera, attraverso un "distacco dalla realtà" assolutamente soggettivo."



Un distacco dalla realtà che può generare immagini del tutto plausibili, come un paesaggio alpino con la luna (figura 9), oppure immagini irreali, dove la luna assume dimensioni inquietanti (figura 10), fino alle composizioni sognanti e addirittura astratte di Lonnie Brock (figure 11 e 12).

Michele Vacchiano © 09/2003 e 02/2011
Si ringrazia l'amico Roberto Maggiori, direttore di Around Photography, per la sua disponibilità e l'ampia documentazione fornita (vedi note).


[3] E’ infatti vero che l'obiettivo di Petzval, il primo obiettivo ad essere progettato matematicamente (1840), forniva una notevole apertura (f/6,3) unita a una nitidezza fino ad allora sconosciuta, ma si trattava pur sempre di una nitidezza limitata al centro del campo, che rendeva questo obiettivo ideale per il ritratto ma poco performante nelle riprese di insieme [ndr].