L'OMBRA CREATIVA
Michele Vacchiano, febbraio 2007
Fotografare. Disegnare con la luce. Eppure la luce non può fare a meno dell'ombra. Che cos'è l'ombra in fotografia? Come gestirla per non esserne sopraffatti? E - soprattutto - qual è il suo significato compositivo?
Francia. Alta Savoia. Da Chamonix-Mont-Blanc l'Aiguille de Midi eil Glacier des Bossons. In alta quota c'era tormenta e il nevischio ghiacciato impediva la percezione nitida dei piani lontani. A quattromila metri è difficile trovare bel tempo, soprattutto d'estate. Volevo concentrare l'attenzione sul ghiacciaio e sulla montagna, fino a condurre lo sguardo dello spettatore verso quell'incredibile squarcio di azzurro nel cielo in tempesta. Ho ignorato le indicazioni dell'esposimetro e ho sottoesposto in modo da lasciare in ombra la parte bassa dell'immagine: i costoni rocciosi e boscosi che fanno da base alla montagna e che di fatto sarebbero risultati inutili alla comprensione del messaggio, che doveva riguardare la parte alta dell'immagine. I ghiacciai, le vette e le nuvole sembrano scaturire così dall'oscurità.
Valle d'Ayas. Da Estoul tramonto tra il Mont Glacier e la Tersiva. L'uso del teleobiettivo ha isolato le due vette all'interno della catena montuosa. Mi interessava il puro effetto grafico della linea di cresta interrotta da quell'unico punto di luce costituito dal sole al tramonto. La lettura dei particolari del paesaggio (boschi, ghiacciai e rocce) avrebbe posto l'accento sul paesaggio, trasformando il sole in un accessorio secondario. In questo modo invece il tramonto è l'unico soggetto della composizione.
Gruppo del Monte Rosa. Il sole del mezzogiorno sulla Testa Grigia e il Pinter. Una voluta e decisa sottoesposizione ha fatto risaltare le nuvole trasformando in semplice silhouette gli alberi a sinistra e il profilo delle cime.
Sole e neve. Appena percettibili i particolari presenti nella zona d'ombra, per evitare che l'attenzione dello spettatore fosse distolta dall'effetto di luce sulla destra, vero soggetto della composizione.
Il lago di Villa (Valle d'Ayas) in inverno. Gli arbusti in ombra in primo piano creano una quinta naturale che allontana il soggetto e da alla scena la giusta profondità.
Il villaggio alpino era in ombra, i tetti di lose appena sfiorati da una debole luce radente. Poco più alto dei tetti, l'albero dalle foglie dorate era ancora investito da un ultimo raggio di sole. Non mi sono curato delle indicazioni dell'esposimetro e ho lavorato in manuale, come faccio quasi sempre anche in digitale. L'obiettivo zoom ha causato un leggero flare nella parte bassa, più visibile - ovviamente - nel file originale che in questa sua riduzione per il web. Per contro, nel file originale anche i particolari in ombra appaiono molto più apprezzabili. Da un punto di vista compositivo ho volutamente evitato di eliminare i fili elettrici. Esistono, fanno parte del villaggio come i comignoli fumanti e i tetti, non vedo motivo per negarne l'esistenza come se si trattasse di elementi estranei al paesaggio umano. Anzi, proprio la contrapposizione tra quest'ultimo (fatto anche di fili della luce) e la natura sarebbe stato un elemento importante della composizione.
"Dice la verità chi dice ombra", afferma il poeta Paul Celan. E nel celebre dialogo fra il viandante e la sua ombra, il filosofo Friederich Nietzsche fa dire a quest'ultima: "Quando l'uomo fugge la luce, noi fuggiamo l'uomo".
Che è come dire che l'ombra non può fare a meno della luce. E viceversa.
Può esistere luce senza ombra?
In natura no. In fotografia sì.
Il fotografo, signore della luce, può, volendo, circondare di luce il suo soggetto, eliminare ogni scarto di tonalità, uniformare in un piatto e monotono indivenire ogni linea, ogni figura, ma in questo modo finirebbe di fatto per negare l'essenza stessa del creare per immagini. Che senso avrebbe un'immagine in cui tutto appare delineato, chiaro, definito in ogni suo particolare? Quale soggetto chiederebbe di essere fotografato così? Giusto una dentiera o un circuito stampato, la pagina di un manoscritto (ma solo se non si voglia dare corporeità al supporto cartaceo, che è tutto fuorché bidimensionale).
In realtà non c'è genere fotografico che si avvantaggi della mancanza d'ombra. Quando iniziai a fotografare gli insetti mostrai le mie prime diapositive a Paolo Fioratti. All'epoca utilizzavo un solo flash frontale, o al massimo due, posti a quarantacinque gradi rispetto al soggetto. Una luce ideale per fotografare originali piani, ma assolutamente inadatta a soggetti tridimensionali. Fioratti mi fece notare la mancanza di ombre sul soggetto, e al contrario l'eccesso di ombra sullo sfondo, sempre nero in quanto non esposto. Quel giorno Fioratti mi insegnò due cose. La prima fu che lo sfondo nero ha senso solo quando si fotografano insetti notturni (e in pochissimi altri casi); la seconda che il lampeggiatore deve essere usato, ma lo spettatore non deve vedere che è stato usato. "Tu devi adoperare cinque flash" mi disse, "ma io devo credere che hai usato la luce naturale."
Da quel giorno imparai ad usare il flash, che oggi considero un accessorio irrinunciabile, un mio piccolo ma potente sole portatile che mi permette di giocare a piacimento con le luci e con le ombre, ammorbidendo queste ultime e dosando le prime in modo che non prevarichino e non "urlino".
Quando fotografo fiori o insetti nel loro ambiente naturale uso tre, a volte quattro lampeggiatori: due laterali, di diversa potenza, per fornire luce principale e luce secondaria; uno (con pannello diffusore) sulla slitta a contatto caldo, per ammorbidire i contrasti e illuminare lo sfondo (che voglio sfocato e sottoesposto, ma non completamente nero); un quarto flash da dietro per l'effetto di controluce (luce d'accento). Talvolta utilizzo un flash anulare come luce di riempimento. Il risultato è una fotografia che appare scattata in luce naturale, senza le ombre "tappate" e i forti contrasti tipici del flash "sparato".
Per il resto, rifuggo da tutto ciò che impietosamente svela e scopre, mette a nudo e scortica, esponendo il soggetto al ludibrio della visione assoluta dove tutto è perfettamente e banalmente leggibile.
Come la televisione del gossip e delle veline, come le manze ammiccanti dai calendari anatomici che ogni autunno ci affliggono con puntuale monotonia, reiterando la liturgia puberale del calendarietto del barbiere che tra ragazzini ci si scambiava come in un rito iniziatico, la fotografia che tutto rivela diventa paradigma dell'ovvio e del banale e subito sazia e nausea.
La luce piatta e avvolgente elimina le imperfezioni del volto delle modelle rendendole simili alla Barbie. Donne efebiche e lontane che non parlano, non dicono, non eccitano, asettiche illustrazioni per riviste di moda, svuotate da qualsivoglia connotazione sessuale e ridotte a icone di una bellezza cartacea e rarefatta che bellezza non è più, almeno agli occhi di un maschio adulto in buona salute fisica e mentale. Ma questo è ciò che chiede un mercato ormai più standardizzato e insipido di un pranzo da McDonald's.
Per questo non sarò mai un buon fotografo di moda. Perché le stangone anoressiche illuminate da due bank frontali che rivelano le pieghe dell'abito non riescono a stimolarmi fotograficamente. Quando io fotografo una donna voglio una donna vera, di quelle con cui si beve il caffè alla mattina, quelle che ti volti per strada a guardarle, quelle con cui parli e litighi, vai in vacanza e fai l'amore.
La luce piena e frontale ammazza il paesaggio, lo inonda di azzurro e di foschia, lo appiattisce contro un cielo innaturalmente e insopportabilmente azzurro. Così piace agli editori di poster e cartoline, come quello che anni or sono rifiutò le mie immagini in quanto troppo "drammatiche" e poco gradite a un pubblico che chiedeva il fiorellino in primo piano, la casetta sul piano intermedio e la montagna innevata sullo sfondo, "ma mi raccomando, cielo azzurro e senza nuvole che mettono ansia!".
L'ombra, al contrario, crea un rapporto dialettico all'interno della composizione, da un senso e un significato all'immagine, si rapporta con la luce e la trasforma in parola.
Non esiste musica senza silenzio ed anzi è proprio grazie alle pause che la composizione acquista il giusto respiro. Del resto che cosa è il ritmo (il più primitivo e fondante elemento della musica) se non uno scandirsi regolare di pieni e di vuoti?
Così anche l'immagine respira e canta quando i toni di grigio si alternano e il soggetto emerge dall'oscurità.
Generato dal buio come avviene di ogni cosa vivente il soggetto principale sboccia alla luce e trionfa delle sue forme e dei suoi volumi.
L'ombra incornicia e allontana, scolpisce e modella, ci costringe a percepire come tridimensionale un oggetto che l'esperienza e il ragionamento ci dicono piatto, gioca con lo spazio euclideo e inganna le nostre sensazioni che - del resto - chiedono con prepotenza di essere ingannate.
Non può esistere trompe-l'oeil senza un gioco sapiente di ombra e di luce.
E nella misura in cui sapremo essere avari con la luce, le forme e i colori sembreranno paradossalmente risplendere, esaltati dal confronto con l'oscurità.
Eppure l'ombra è per molti fotografi un ostacolo, un inciampo, un evento da evitare. E quando si verifica bisogna illuminarla, schiarirla, renderne leggibili tutti i particolari, come se si fotografasse una protesi chirurgica anziché un paesaggio, un preparato anatomico in luogo di una modella.
"Non mi piace la Velvia perché tappa le ombre", è l'affermazione tranchante di amatori e professionisti. Vera, peraltro, ma solo per chi non ha saputo capire fino in fondo il comportamento di questa splendida - anche se difficile - emulsione. Prendete una Velvia, sottoesponetela di un terzo di stop come i manuali per dilettanti ci hanno insegnato a fare quando si lavora con le diapositive, e otterrete immagini inguardabili e soprattutto instampabili. Decidere se saturare oppure no in fase di ripresa non è un processo automatico, ma funzione del soggetto e delle sue caratteristiche. Insegnare che con le diapositive o con il digitale si lavora in sottoesposizione per evitare di bruciare le alte luci è una sciocchezza, se presa in senso assoluto e prescrittivo.
Prima di prendere una decisione del genere (prima di prendere qualunque decisione) bisogna considerare il soggetto (o meglio la scena inquadrata) e valutarne i rapporti tonali. Capire in che zona cadranno le ombre se si decide di porre il grigio medio in corrispondenza di questo o quell'elemento, misurare (col cervello, prima che con l'esposimetro) ogni singola area e imparare a coglierne le differenze in termini di luminanza. Anche nell'epoca del digitale e di Photoshop, che permette di correggere a posteriori l'esposizione, una buona fotografia nasce prima di tutto in fase di ripresa, e l'applicazione del sistema zonale rappresenta lo strumento più sicuro per ottenere un'immagine che - nei suoi rapporti tonali - coincida senza incertezze con l'immagine vista, progettata e "pensata" (cioè previsualizzata).
Inusuale nella fotografia di moda, un rapporto di illuminazione piuttosto elevato ha accentuato il contrasto tra la parte destra e la parte sinistra del volto. In questo modo il soggetto acquista una spiccata tridimensionalità che lo stacca con prepotenza dall'ombra dello sfondo.
Natura morta autunnale. Fotografia scattata con banco ottico su pellicola in rullo nel formato 6x9cm. Illuminazione ottenuta con la tecnica dell'open flash: tanti piccoli colpi di flash tutt'intorno al soggetto e sapientemente dosati per dare il giusto rilievo. Il fondo di velluto nero non riflette la luce e quindi scompare, isolando la composizione in un suo spazio sospeso.
illaggio, che si intuisce ma non si legge nella sua completezza. Questo concentra l'attenzione sul soggetto principale creando, al contempo, una cornice naturale che scandisce i diversi piani dell'immagine. Solo allora si deciderà se vale la pena rendere perfettamente leggibili tutti i particolari in ombra o se non sia meglio consentire alla luce di dialogare con la non-luce, lasciando che lo spettatore immagini ciò che non può vedere, e colga il segreto respiro della composizione dal suo alternarsi di pieni e di vuoti, di musica e di silenzio.
L'ombra in fotografia non è solo oscurità, ma è anche differenza di toni fra aree diverse. Mi riferisco soprattutto al fenomeno della vignettatura, quell'oscuramento delle aree marginali del fotogramma tanto aborrito e temuto dai fotografi, al punto che l'utilità di correzione della vignettatura è una delle più richieste da chi utilizza software per l'elaborazione del RAW.
Eppure i migliori stampatori insegnano che quando si lavora in camera oscura è buona norma concludere il processo di stampa mascherando leggermente i bordi, in modo da "chiudere" l'immagine e concentrare l'attenzione sulla sua parte centrale. Questo incornicia la scena ed evita che questa "scappi" oltre i bordi. Perché allora non usare anche la vignettatura come elemento creativo?
Quando lavoro con apparecchi a corpi mobili uso spesso il decentramento verticale del corpo anteriore per avvicinarmi al limite del cerchio di copertura e ottenere così una vignettatura in corrispondenza del cielo, rendendolo scuro e saturo (con effetto digradante), meglio di quanto accadrebbe con un filtro polarizzatore. Con la differenza che il mio sistema non richiede l'applicazione del fattore-filtro e funziona - contrariamente al polarizzatore - in tutte le condizioni di luce.
Le fotografie che illustrano questo articolo, raggruppate nella colonna qui a sinistra, sono state realizzate con i sistemi più diversi: su pellicola e in digitale; in piccolo, medio e grande formato. Ma tutte hanno richiesto una valutazione attenta dei rapporti tra luci ed ombre, una misurazione meticolosa al limite della pignoleria. E infine sono state realizzate pensando non a ciò che in quel momento si aveva davanti agli occhi, ma alle suggestioni e alle emozioni che una realtà trasfigurata sarebbe stata in grado di trasmettere.
"In principio è sempre buio" sussurra l'imperatrice di Fantàsia dopo che Bastian ha varcato le soglie del suo regno distrutto, unico terrestre in grado di rigenerarlo.
E dal buio scaturiscono forme e figure, colori e testure, che col buio si rapportano e si confrontano, traendo da esso luce e vigore comunicativo.
Michele Vacchiano © 02/2007
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