MEMORIE DEL TEMPO
Presentazione di Michele Vacchiano
Era a casa della nonna quella vecchia bilancia a due piatti, e nei buchi c’erano tutti quei pesetti di piombo, alcuni talmente piccoli che sembravano fatti per la casa delle bambole, ed era divertente metterli sui piatti e vedere come questi si alzavano e si abbassavano, anche se il nonno non voleva perché “si rovina”, ma non ho mai capito cosa ci fosse di così delicato lì dentro che un bambino di cinque anni potesse rovinare.
E così continuavo a giocare e giocando imparavo la magia delle misure e dei loro multipli.
Così il nonno dopo un po’ si rassegnava, anche perché sotto quella sua scorza di valdostano burbero e taciturno mi voleva un bene dell’anima; si accendeva la pipa (sì, fumava in casa davanti a un bambino di cinque anni, ma per fortuna non esistevano leggi talebane che glielo impedissero, e quell’aroma di trinciato forte tagliato col Nazionale resta uno dei ricordi più belli della mia infanzia) e andava a sedersi sul vecchio divano, accendendo quella sua radio monumentale dalla voce calda e pastosa come non se ne trovano più, adesso che i transistor hanno sostituito le valvole.
Non c’era altro programma se non Radio Due, che a mezzogiorno e venti trasmetteva il notiziario regionale.
Solo la sera ci si permetteva qualche digressione, e allora si giocava con le onde lunghe per captare qualche lontana stazione francese: una lingua che il nonno capiva perfettamente, da buon valdostano, e che usava anche per comunicare con me, ed è grazie a lui (che non aveva finito la terza elementare ma parlava correntemente quattro lingue) che quando vado in Francia nessuno sospetta che io non sia francese.
C’era anche una sedia, a casa dei nonni, una di quelle vecchie sedie in legno, coi braccioli scolpiti, scomodissime e monumentali. Mi ci sedevo con uno strofinaccio da cucina legato al collo a mo’ di mantello e giocavo a fare il principe.
Tutti ricordi sepolti da cinquant’anni di vita, di lavoro, di grandi gioie e laceranti dolori.
Ricordi che a volte ritornano in sogno, ma faticosi da guardare e in bianco e nero, come una stampa fotografica con la grana grossa, di quelle che si facevano con la Tri-X tirata a millesei.
Ma ieri sera, molto dopo la mezzanotte, ho aperto la posta elettronica e vi ho trovato una lettera di Rino Giardiello, che mi chiedeva di scrivere la presentazione per una sua mostra di foto “un po’ particolari” (così le definiva).
Incuriosito ho guardato le immagini che Rino aveva allegato al suo messaggio ed è stato (non so se per l’ora tarda o per l’aroma inebriante del Dunhil Nightcap che stavo fumando, così diverso dal trinciato del nonno) come staccarsi di colpo dalla realtà e piombare in uno dei miei sogni, quelli in bianco e nero a grana grossa, perché lì c’era la bilancia dei nonni, così come la vedevo io a cinque anni, gigantesca e ravvicinata, e c’era la radio e il pavimento di mattonelle, e anche i libri di quando papà era giovane e che aveva messo in cantina, e io andavo a curiosare e quanti spunti vi trovavo per i miei temi di liceale!
E tutto era esattamente come nei miei sogni a grana grossa, dove spesso vedo con nitidezza un solo particolare mentre il resto intorno è sfocato, come quando si fotografa troppo da vicino con un diaframma aperto.
E questi oggetti, queste inquadrature inusuali, questi angoli di mondo e di casa che Rino ha fissato nei sali d’argento sono per me un pezzo di vita, una realtà perduta dove ormai non posso entrare se non in un sogno sgranato.
Michele Vacchiano © 06/2012
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