Per un amante della natura (e se state leggendo quasi certamente lo siete) pensare che sia cosa buona e giusta frequentarla e proteggerla è scontato, un riflesso istintivo. Tanto che c'è persino il rischio che si esaurisca in un rituale meccanico, una fruizione ricreativa, in cui perdere di vista i motivi profondi per cui la natura è importante in sé, e andrebbe vissuta più consapevolmente di quanto molti la vivano: un rifugio dal caos, un viaggio trendy, magari visto su una rivista patinata. La Natura è il fondamento stesso su cui si basa la vita, l'architettura in cui tutto è inscritto, incluso il nostro quotidiano. Abituati a considerarci affrancati dai meccanismi che regolano il pianeta, incapsulati in ambienti artificiali che ci proteggono da eventi esterni, abbiamo maturato una presuntuosa e autoreferenziale sensazione di indipendenza. Eppure tutto discende dal pianeta, da una natura che ha leggi e ritmi propri, immutabili e non sovvertibili, ai quali non siamo più estranei di quanto non lo sia un lichene, anche se non più costretti a cacciare le nostre prede, a camminare per spostarci o a dormire all’addiaccio (ma non scordiamo che per milioni di persone ciò è ancora quotidianità).
Autunno a Kvikkjokk (Lapponia Svedese)
Tanto più essenziale laddove incontaminata, incorrotta: wilderness, esempio residuo di ambiente su cui l'uomo non estende la sua influenza. Un monumento al creato, fondamentale per il fatto stesso di esistere (ancora). Il confronto con dimensioni che non ci appartengono, con situazioni che non governiamo; i grandi fenomeni naturali, le presenze mozzafiato (montagne, aurore boreali, tramonti, oceani); tutto ciò che è incommensurabile e incontrollabile riporta alle corrette proporzioni il modo in cui concepiamo noi stessi, ci restituisce una giusta prospettiva sul nostro ruolo (e visto come van le cose direi che ce n’è bisogno).
In foto: Cimon della Pala (Dolomiti)
Il paesaggio diventa momento di conoscenza interiore, punto di vista alternativo su noi stessi. Il suo valore sta esattamente in quel senso di ignoto, di inconosciuto che la wilderness si porta appresso, l'inquietudine sottile del non essere in pieno controllo. Ne abbiamo bisogno per riassaporare una sana sensazione di spaesamento, da attori non protagonisti nella recita universale. Fotografare, stare nella Natura, per me come per molti, è un'inconsapevole ricerca di questa dimensione, in realtà un viaggio introspettivo.
L'ignoto,
l'inesplorato mi attirano, anche solo intellettualmente. Non tanto per
rivelarli, non per “conquistarli” e dominarli conoscendoli; non sono
interessato a rassicurazioni sul mio ruolo di presunta specie padrona. Casomai,
esattamente il contrario: mi gratificano di un sentimento d'appartenenza ed
armonia, la percezione di essere una minuscola rotella dell’ingranaggio (quale
che esso sia).
Conosciuto,
sconosciuto; Natura, civiltà: il nostro mondo è pieno di dualismi, per certi
versi si fonda su essi. La vita è diversità, multilateralità. È necessario
un lato per definire e conoscere l'altro: bene e male, paura e coraggio,
successo e insuccesso.
Ci serve il dolore per capire il piacere; la conseguenza,
per comprendere l'errore; la morte, per apprezzare la vita. Abbiamo bisogno del
diverso per capire cosa è “normale”. Allo stesso modo occorre una Natura
non controllata, non controllabile, per capire chi siamo. Il confronto con la
natura selvaggia traccia i contorni della nostra umanità; per differenza
definisce ciò che siamo.
Wilderness
significa anche “magia”, ciò che i nostri antenati provavano verso le
grandi montagne e i fenomeni che non potevano spiegare (quasi tutti, in tempi
antichi). Ne derivavano un senso di reverenza e l’esigenza di inquadrarli
attraverso categorie superiori: dei, forze magiche. Ecco l’animismo, il
politeismo o il panteismo: ad ogni manifestazione naturale era assegnata una
specifica divinità. La magia portava alla venerazione, e questa al rispetto.
Credo che occorra rivalutare l'importanza di ciò che non sappiamo. Il senso di
mistero ci è prezioso, e la conoscenza a volte sminuisce la sacralità di ciò
che si svela. E meno rispetto significa pericolo. Perché l'animo umano ha sì
un genuino interesse per la conoscenza (è il modo in cui funziona il cervello,
irresistibilmente); spesso, però, ciò trascende in qualcosa di diverso, forse
perché lo sconosciuto, l'ingestibile, spaventano. La brama di conoscenza
diventa allora conquista, violazione compiaciuta. Lasciamo al nostro animo
qualche vetta inviolata. Croci sulle cime, bandiere piantate, omini di pietra, o
semplici incisioni sui tronchi. Piccoli segni di autoaffermazione, per
esorcizzare la paura: “Sono stato qui, ce l'ho fatta, posso dominarlo”. E se
non lo si conquista, se non lo si capisce, lo si distrugge; l'ignoto fa paura,
il diverso è visto come un'anomalia, quasi una patologia che è scontato vada
omologata o eradicata. Capire l'importanza della wilderness, e difenderla, si
traduce in sostanza nell'apprezzare il diverso, ciò che è “altro”.
Estendiamo queste considerazioni al rapporto tra culture umane e tra i singoli,
e verificheremo, una volta di più, quale patrimonio di insegnamenti la Natura
ha in serbo.
Raccontate tutto
questo, la prossima volta che vi accuseranno di preoccuparvi più degli animali
che degli uomini.
Vitantonio Dell'Orto © 11/2011
Riproduzione Riservata
Il
monte
Áhkká nel parco nazionale Stora Sjöfallet è una cima sacra per il
popolo Sami (Lapponia Svedese)