Scomodo è scomodo, nulla da dire. Pesante? Quasi sempre, e ha la curiosa caratteristica di diventarlo sempre di più, man mano che trascorrono le ore in sua compagnia. Per quale motivo allora portarselo appresso? La sua utilità diretta, direi meccanica, è intuitiva, ed è quasi banale ricordarla: elimina la possibilità di foto viziate dal mosso della fotocamera (per quello del soggetto, purtroppo, non c'è nulla da fare), quando si fotografa con tempi lunghi (per convenzione sopra a 1/30 di secondo). È imprescindibile anche nella fotografia a distanza ravvicinata (fiori, insetti), situazione in cui la messa a fuoco si fa particolarmente critica, e movimenti di millimetri possono sconvolgere l'equilibrio di un'inquadratura.
Nella caccia fotografica poi, con teleobiettivi luminosi e potenti, pesanti di conseguenza, è praticamente obbligatorio, visto che le lunghezze focali in gioco aumentano sensibilmente il rischio di mosso (il percorso dei raggi luminosi nella lente è lungo in proporzione); le moderne tecnologie di stabilizzazione dell'immagine non sono in questo caso di particolare aiuto, dal momento che in genere non possono essere usate proprio laddove il tele sia montato sul cavalletto (riducendone così il tasso di utilità dove sarebbero più importanti). Il treppiede, è appena ovvio, permette di scattare quando la luce è intrinsecamente scarsa, al crepuscolo, di notte e così via.
Esiste però un'utilità meno palese, sottotraccia, in genere scarsamente considerata ma altrettanto importante. Il treppiede, fungendo come una sorta di zavorra contro le tentazioni della fretta ed gli eccessi del dinamismo, impone un approccio meditato, obbliga a fermarsi a pensare, a prendersi del tempo: è uno strumento di riflessione su quello che abbiamo intorno. Forza il fotografo ad un metodo attento, ragionato e consapevole, liberandolo dalla frenesia dello scatto a mano libera; affranca dal gravame della fotocamera che ci spinge allo scatto sbrigativo, e ci induce a rallentare. E quando siamo lenti ci appare un mondo di possibilità e di dettagli che prima ci era precluso. Ci porta dentro il paesaggio, dentro l'ambiente, dentro l'inquadratura: provate a percorrere un tratto di sterrato in auto, e rifatelo poi a piedi: capirete cosa intendo dire.
Negli scatti con tempi lunghi il treppiede è un accessorio indispensabile.
Il treppiede ci chiede tempo e fatica per portarlo e azionarlo, ma ci dà in cambio il controllo totale dell'inquadratura, la possibilità di soffermarci, guardarci intorno e scegliere, con tutta probabilità, una composizione più originale, un punto di ripresa migliore o quantomeno alternativo. Ci deve essere una qualche morale edificante in questo contrappasso. Più prosaicamente ci permette, scelta un'inquadratura, di tenerla congelata mentre ci guardiamo attorno e lavoriamo di fantasia; per usare una metafora informatica ci garantisce una copia di sicurezza dell'ultima versione.
Ed ecco che, dato un ambiente naturale minimamente adeguato, si possono trovare infiniti spunti di scatto se solo ci diamo tempo e opportunità; allora il treppiede diventa come la bacchetta del rabdomante, se mi passate il paragone. Laddove esso si ferma, lì di certo si troverà una fonte di ispirazione, una sorgente per le nostre immagini: il treppiede è uno stato mentale.
Ma come dovrebbe essere il treppiede, in particolare quello per l'outdoor? Comincerei con lo scartare i grandi cavalletti in legno, belli a vedersi e solidi, ma poco eclettici nell'uso in natura. Il treppiede ideale è uno strumento in alluminio di dimensioni medie, che arriva in estensione all'altezza degli occhi, ma che al tempo stesso permette di abbassarsi molto, meglio se fino al livello del terreno. Dovrebbe avere una colonna centrale sganciabile e orientabile, per agevolare le riprese dal basso (pratica peraltro scomodissima); in sua assenza un morsetto fissato ad una gamba permetterà di tenere la fotocamera a livello terra anche a treppiede "alto", ma questo al prezzo di ulteriore peso da portarsi appresso. Non potrà essere troppo leggero, perché deve mantenere una buona stabilità con obiettivi pesanti, ma non potrà nemmeno essere eccessivamente pesante: finiremmo per non usarlo, sul campo.
In verità il treppiede ideale
sono due, uno per ognuna delle due divergenti esigenze, ed è questa la soluzione che personalmente ho scelto: un treppiede di dimensioni importanti, senza compromessi per quanto riguarda peso e solidità. È il treppiede da paesaggio, e per gli appostamenti con i lunghi tele (in quest'ultimo caso equipaggiato con una testa video), quello che io definisco da geometra, perché ogni volta che lo apro arriva qualche contadino a chiedermi se sto facendo dei rilievi. In alternativa un treppiede compatto nelle dimensioni, con colonna inesistente e apertura indipendente delle gambe sino a 90°, in modo da scendere fino a terra; è adatto alla macrofotografia e ideale per le escursioni, leggero ma abbastanza solido da sostenere senza problemi una focale da 300 millimetri. I treppiedi in carbonio, leggerissimi e rigidi, oltre ad essere costosi, sono viziati dalla fragilità intrinseca del materiale: fissando alle gambe dei morsetti, sempre così utili per accessori come flash o comandi a distanza, si rischia di spezzarle in modo sorprendentemente facile.
Torniamo al nostro identikit: il treppiede non dovrebbe avere parti sganciabili o accessori volanti, che hanno la fastidiosa tendenza a perdersi nell'ambiente. Per il blocco delle gambe preferisco il sistema a ghiera filettata alla classica levetta di bloccaggio, perché non occorre applicarvi una forza laterale, bensì coassiale; in tal modo non si rischia di compromettere l'equilibrio dell'insieme. Leveraggi troppo sporgenti, inoltre, tendono inevitabilmente a agganciarsi ad ogni ramo o cespuglio che incontriamo sul nostro cammino. Per gli stessi motivi, e per la loro rapidità d'azione, meglio usare sul nostro treppiede delle teste a sfera, anziché le tradizionali teste a tre movimenti, afflitte spesso da lunghi pomoli sporgenti.
Vitantonio Dell'Orto © 09/2005
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Pubblicato nel numero di novembre 2004 della rivista Oasis