Avete letto bene, non si tratta di un refuso. "Captivo" in italiano sta per "catturato". Parliamo qui di fotografia in cattività, o, per usare un eufemismo politicamente corretto, in "condizioni controllate". Esistono aree dove gli animali sono tenuti in ampi recinti naturalizzati, in cui i fotografi riprendono specie difficilmente avvicinabili in natura. Le più gettonate in Europa sono il lupo, la lince e l'orso; praticamente ogni immagine di questi popolari mammiferi che appare nelle riviste è scattata in uno stato di cattività più o meno attenuata. Non intendo disquisire in questa sede sulla loro validità scientifica, o sull'eticità del fotografare in cattività.
Alcune di queste strutture operano in modo serio per la riproduzione controllata di animali rari, finanziando la ricerca su di essi con i proventi dei biglietti, mentre altre sono mesti zoo interpretati in chiave appena più moderna. Una significativa quota delle foto usate nella divulgazione naturalistica è realizzata in questo modo; anche i documentari si alimentano - forse in misura maggiore - di situazioni "ricreate". In un mondo ideale forse non ci sarebbero specie in via di estinzione (quantomeno non a causa dell'homo tecnologicus), e non si dovrebbe lottare contro l'eco-analfabetismo, ma va da sé che il nostro non è un mondo ideale. Basta guardare fuori da una finestra per rendersene conto.
Ciò che mi urta è che la foto in cattività non venga esplicitata, quasi mai indicata come tale nelle didascalie o nei titoli di coda. C'è una sorta di pudore, come fosse un peccato; credo che molti fotografi lo vivano come tale, in fondo.
Un fotografo in un'area faunistica dedicata al lupo.
Lupi in corsa. In condizioni controllate si dovrebbero tentare immagini diverse dall'usuale.
Una concessione alla personale esigenza di contatto con animali altrimenti inavvicinabili, o una via per arricchire il proprio archivio. In questo modo, tuttavia, si alimenta una disinformazione strisciante. Omettere equivale a indurre in errore, perché il lettore dà viceversa per scontato, se non diversamente edotto, che l'animale che vede sia selvatico.
La prima conseguenza è che i pochi che spendono tempo e fatica per riprendere gli stessi soggetti in natura non vedono apprezzato in modo corretto il loro sforzo. La seconda è che assimiliamo come tale una natura che non è vera, ma solo verosimile. Non voglio qui affermare la superiorità della foto "selvaggia" sempre e comunque. Il mio è un discorso sull'onestà intellettuale, non vuole attribuire giudizi di merito: una brutta foto resta una brutta foto, tra l'altro, e non sarà certo la fatica con cui è ottenuta a farla apparire migliore.
Al contrario, propongo di dare visibilità e dignità anche alla foto in condizioni controllate. In queste circostanze "facilitate", inoltre, il fotografo dovrebbe chiedere a se stesso (e dovrebbe essergli chiesto) il massimo in termini di qualità e originalità: si alza la soglia, e di conseguenza la difficoltà. Non è scontato ottenere immagini davvero valide.
Ben venga allora la foto in cattività, ma ben vengano anche chiarezza ed ecologia dell'informazione, senza ipocrisie o falsi pudori. Auspico che il movimento dell'immagine naturalistica, a partire dai fotografi e dalle redazioni (cominciando da Oasis) avvii una stagione di "etichettatura" equa, indicando sempre le foto scattate in aree faunistiche. Il pubblico avrà un quadro più corretto, chi ha fotografato gli stessi animali in natura vedrà riconosciuto il suo impegno, e chi fotografa nei recinti lo farà con più consapevolezza: il suo vero peccato, a quel punto, sarà produrre immagini sciatte e ordinarie.
Vitantonio Dell'Orto © 10/2006
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Pubblicato su OASIS nella rubrica "L'Arzigogolo"