Caccia fotografica, foto naturalistica, fotografia di animali: possono sembrare sinonimi e vengono adoperati indifferentemente dagli appassionati di fotografia, ma una riflessione più approfondita si impone.
Per caccia fotografica si intende la fotografia agli animali selvatici in libertà. L'origine del termine risale agli inizi degli anni '70, quando veniva proposta per la prima volta un'alternativa incruenta all'attività venatoria, allora forma imperante di interazione "ricreativa" tra uomo e animali, in un mondo che già poteva ben farne a meno. Il termine "caccia fotografica" era adeguato, immediatamente adatto a incarnarne l'alterità, a mettere al centro del mirino (è il caso di dire) in modo chiaro di cosa si trattasse.
Dalla caccia, effettivamente, la fotografia di animali mutua diversi aspetti, visto che i "soggetti" sono gli stessi. Simili sono l'abbigliamento, gli ambienti, le tecniche di appostamento o avvicinamento, gli accessori e soprattutto le smargiassate tra amici. Simili le lunghe attese con i sensi all'erta, quell'armamentario di suggestioni riconducibile a un più o meno atavico e giustificabile istinto predatorio; simile la gioia di muoversi in libertà nella natura. Simile è il pathos dell'istante in cui, prendendo la mira (inquadrando), si finalizzano ore di sforzi (spesso giorni o settimane, nel caso del fotografo). Similitudini solo apparenti: atteggiamento e spirito sono in realtà diversi; di più: non potrebbero essere più diametralmente opposti.
Il gheppio caccia per vivere: a differenza dell'uomo non può scegliere.
Fotografare la natura, anche quando siano necessari tempismo e riflessi, è prima di tutto osservazione, contemplazione e infine compassione, dal latino cum passionem, cioè condivisione di sentimenti. Laddove il cacciatore afferma con tempra virile (avete mai visto donne cacciatrici? Quantomeno nei paesi latini, perché in quelli nordici sono la norma) la propria superiorità e il proprio dominio sulla Natura, il fotografo è invece appagato dal sentirsene parte integrante, uno tra i molti, aprendosi agli altri esseri viventi e gratificandoli di pari dignità. Straordinario, in questo senso, che nel terzo millennio un cacciatore detenga ancora più diritti e libertà di movimento di un fotografo per il solo fatto di imbracciare un fucile anziché una fotocamera (sarò sincero: la sola immagine di un uomo armato mi crea fastidio fisico, in questi tempi oscuri di guerre e intolleranza).
Una volpe rossa con le prede di giornata (giovani lepri artiche) e una cucciolata da sfamare.
È nell'atto conclusivo, tuttavia, che le già tenui e superficiali affinità cessano del tutto di esistere; e bruscamente. Le due attività prendono anzi vie opposte, antitetiche. La caccia implica una fine cruenta, è ne più ne meno l'eliminazione fisica di un altro essere vivente a fini di svago; detto così suona grottesco, ma è esattamente quello che accade.
Nella differenza che passa tra un grilletto e un pulsante di scatto, tra la violenza di uno sparo e il soffice frullare di un otturatore: qui sta l'abisso tra la morte data per vanità e la bellezza celebrata per immagini, l'esaltazione gioiosa della vita. La distanza tra i due atteggiamenti non potrebbe essere più grande.
Proprio un capriolo coi baffi! Un capriolo, tipica specie cacciabile e abbondantemente cacciata, ripreso nella vita naturale, intento a mangiare licheni.
Il fotografo cerca il contatto con l'animale perché è affamato di vita, e lo fa condividendo quest'emozione con gli altri, nel momento in cui la sua foto è offerta allo sguardo di altri osservatori; prende la bellezza e ne fa regalo a tutti. Niente a che vedere con un atto egoistico di morte. Il fotografo scatta un'immagine con la consapevolezza che il suo "bersaglio" continua a vivere, anzi lo vede vivere ancora; non interrompe, non distrugge, non elimina. Nessuna esplosione di piume, nessun volo elegante che, in un turbine di penne, si spezza in uno sgraziato e tragico precipitare al suono di uno sparo. Nessuna fuga disperata e sanguinante, con le viscere esposte, in attesa di essere straziato dai cani. Pensate all'effetto di una rosa di piombini su un passeriforme di pochi grammi, del quale non resta integro nemmeno quel tanto che basti a sostenere l'ipocrita bugia di una qualche esigenza alimentare. Immagini crude, ma uccidere non è mai un gesto pulito. Di questo si tratta, questa è la premessa, lo scopo e l'epilogo di una caccia, il suo senso ultimo: dare una morte cruenta. Anche il fotografo più ambizioso, grossolano, vanesio o ignorante nel peggiore degli scenari possibili non si avvicina nemmeno a tanto (e ce ne sono, non dubitate: tutti quelli che interpretano la foto di natura come competizione con gli animali o con gli altri fotografi).
E' più facile abbattere un uccello a fucilate oppure ritrarlo in tutta la sua gloria esattamente contro il disco del sole, come questa gru cenerina? Vi piace vincere facile?
Non mi azzardo a lanciare l'ennesima crociata per l'abolizione della caccia; sarebbe velleitario ora come ora. Posso solo sperare che in un'epoca a venire sarà un ricordo del passato, come lo ius primae noctis, l'ordalia, lo schiavismo o qualsiasi altra assurdità sopravvissuta nei secoli per soddisfare gli interessi di qualche casta, e poi giustamente estinta; di quelle cui si guarda ora con un misto di raccapriccio e di vergogna, come per schernirsi e dire che oggi l'uomo è meglio, è altra cosa (non lo è, o almeno non ancora).
Per restare nel mio campo, tuttavia, qualcosa si può fare e subito: aboliamo la definizione "caccia fotografica". Troviamo una formula differente: ciò che andava bene 35 anni fa può non essere adatto adesso. Molte cose sono cambiate da allora, anche grazie alla fotografia naturalistica. Gli anglosassoni usano il termine wildlife photography, cioè fotografia della vita selvatica, i francesi parlano semplicemente di photo animalier. "Fotografo di animali"? "Fotografo della vita animale"? Una formula vale l'altra, se si tratta di prendere le distanze da una cultura di morte. Non parliamo solamente di un vezzo politically correct, ma di un modo opposto di porsi di fronte ad un soggetto che è la vita naturale stessa. Questa non è un'altra discussione sul nulla: tutto, in questo mondo di comunicazione globale, si gioca sui termini e quello che essi contengono. Le parole sono strumenti di potere, chi le controlla in genere comanda. Le parole sono pietre, le parole possono fare male, a volte possono uccidere, come la fucilata che riecheggiano. "Caccia" è una di queste.
Vitantonio Dell'Orto © 03/2016
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Galli forcelli. Il triste contrasto tra l'uccello che resta in aria solo perché appeso dopo essere stato ucciso e quello sospeso nell'attimo in cui agisce come ogni uccello dovrebbe essere libero di fare in tranquillità: volare.