I miei incontri con l'alce non sono stati mai frequenti; il più memorabile, dal punto di vista emotivo, avvenne nella circostanza meno "naturale", ma anche più frequente nel mondo scandinavo, dove gli scontri con questi cervidi sono la prima causa di incidente: guidando lungo una statale.
Era un crepuscolo primaverile, quel momento in cui le cose diventano profili; fu una perfetta silhouette quella che apparve in fondo ad una salita, stagliandosi contro il cielo indaco come fosse un grande sagoma di cartone, alla maniera dei tori lungo le strade spagnole. Un profilo possente dalle grandi corna, spalle muscolose, la strana forma tozza a sfilare verso eleganti e lunghe zampe da equino. Si ingrandiva mentre procedevo, immobile, irreale: tutt'altra cosa da quelle furtive visioni di terga in fuga che mi erano state riservate sino ad allora. D'un tratto la straordinaria presenza si mosse, spezzando la sensazione di incantesimo, scartò su un lato verso un'ampia radura, dove si voltò a guardarmi: i nostri sguardi si incrociarono per un attimo.
Una donna Sami una volta mi disse: "L'Alce è furbo; quando sei nella foresta puoi averlo a pochi metri, e non vederlo; ma stai certo che lui ti vede". Aveva ragione: a dispetto della mole imponente (al garrese può superare i due metri), l'alce dissimula la sua presenza contando solo sull'immobilità assoluta. Suo marito sarebbe partito per una settimana di caccia, come avviene laggiù ogni mese di settembre, il che spiega ampiamente tanta circospezione. Il carattere schivo lo rende difficile da incontrare nei boschi svedesi, dove peraltro é molto diffuso. A testimonianza di questo i suoi escrementi popolano il sottobosco e le aree antistanti i laghi in cui ama nutrirsi, e spesso sono queste tracce l'unico modo per intuirne la presenza. Strano destino quello delle feci in genere, così poco popolari ma importanti per gli studiosi (e per la natura in generale: senza di esse il ciclo della vita non esisterebbe); "siamo quello che mangiamo" è una frase che va estesa al mondo animale, e parafrasando un verso del compianto De Andrè, è dal letame che nasce molta della conoscenza sugli animali più schivi. Gli escrementi hanno una forma caratteristica, sono costituiti da materia vegetale compressa e assolutamente inodori e persino accattivanti nella forma, al punto da campeggiare sugli scaffali degli shop turistici, una volta debitamente inscatolati. In questo caso è nata anche una foto: camminavo in un'area rocciosa tra bosco e lago quando notai un lastrone obliquo sul quale, in tutta evidenza, un alce si era soffermato.
Il prodotto di questo momento di riflessione, per così dire, era rotolato lungo la roccia: alcuni elementi si erano fermati nelle incavature del piano inclinato. In genere si fotografano escrementi per un fatto didattico, per mostrare come riconoscerli; in quel caso era proprio il loro aspetto che mi intrigava. Vi lascio immaginare i commenti ironici di mia moglie, giocati sulle affinità tra il soggetto e le mie qualità fotografiche. Già nel mirino, tuttavia, "sentivo" profondamente l'immagine: quelle rare volte che accade so già che lo scatto sarà valido. Il colore della pietra, le sue venature, il contrasto tra le forme arrotondate e l'aspetto aspro del suolo mi spingevano a cercare uno scatto molto grafico. Non mi fermai a considerare se il soggetto fosse o meno degno: questo potete giudicarlo voi stessi. "Vuoi scommettere che questa finirò per pubblicarla, un giorno?", replicai divertito. Ora posso passare all'incasso.
Vitantonio Dell'Orto © 03/2011
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