LA FOTOGRAFIA IN MONTAGNA AI TEMPI DEL DIGITALE
Michele Vacchiano, novembre 2011

Questione di preposizioni. Fotografia "in" montagna o fotografia "di" montagna?
La differenza c'è, eccome.

A pensarci bene, l’espressione “fotografia di montagna” evoca essenzialmente grandiosi panorami, territori (in apparenza) selvaggi, vette e ghiacciai ripresi nella loro immobile solennità da fotografi specializzati.
L’espressione “fotografia in montagna”, invece, ci riporta a un’attività più complessa, più sfaccettata ed anche più difficile da affrontare.
Chi fotografa “in” montagna, infatti, non è necessariamente specializzato nella ripresa del paesaggio alpino ma è – più spesso – un fotografo chiamato a gestire e risolvere diverse situazioni di ripresa e diversi generi fotografici che non si limitano alla ripresa dell’ambiente naturale ma spaziano dall’architettura alla fotografia di ambiente umano, dal ritratto alla fotografia naturalistica…
Un “identikit” che si attaglia non soltanto al professionista che lavora per l’editoria e che si rivolge a una clientela specializzata rappresentata da testate giornalistiche, studi pubblicitari o agenzie di stock, ma anche al fotoamatore che – beato lui! – può permettersi di fotografare ciò che vuole dove vuole, anche (ma non esclusivamente) in ambiente alpino.

Un pregiudizio diffuso.
Intanto sfatiamo subito un pregiudizio molto diffuso, e non solo tra i principianti.
Generalmente i fotografi (professionisti compresi, a volte) sono ossessionati dalla necessità di eliminare dall’inquadratura tutto ciò che ricorda l’esistenza dell’uomo e il suo lavoro, alla ricerca di una wilderness che di fatto, alle nostre latitudini, costituisce più una velleità (tanto romantica quanto anacronistica) che un dato reale.
La presenza di un cavo elettrico, di un palo telefonico o di una costruzione è considerata alla stregua di un abominio inguardabile, senza considerare, invece, che persino un elemento “tecnologico” può rivelarsi compositivamente utile!
Del resto, chi fotografa le Alpi sa bene che anche in territori apparentemente “selvaggi” la presenza umana (antica di migliaia di anni) è sempre avvertibile, pur se discreta.
Nel sentiero, nei muretti a secco, nel bosco stesso e nel pascolo non c’è nulla di “naturale”: fino al limite dei ghiacciai perenni, e a volte anche oltre, il paesaggio alpino appare letteralmente forgiato dall’uomo, che ovunque diffonde i segni della sua vita e del suo lavoro.
Ora, è proprio entrando in rapporto con questa vita e con questo lavoro che noi compiamo un passo importante, un passaggio irrinunciabile capace di trasformare dei dilettanti della domenica in cerca di un improbabile (e introvabile) “selvaggio” in veri e consapevoli fotografi d’ambiente.
Di più, ricordiamo che la cultura dell’uomo è anche fatta di usanze, costumi, cucina e vini: conoscere un territorio vuol dire saper approfondire questi aspetti, che a noi uomini tecnologici possono apparire marginali, o tutt’al più relegati nell’ambito del folclore, ma che rappresentano elementi fondanti del vivere civile e dell’appartenenza ad una comunità per chi vive in modo autentico e non virtuale.
Insomma, conoscere un territorio vuol dire viverlo, annusarlo, assaggiarlo, interiorizzarne lo spirito (il genius loci di cui parlavano i latini), con una disposizione d’animo ben diversa da quella che muove il fotografo-turista, il quale spesso scende dall’auto, inquadra e scatta senza nemmeno preoccuparsi di conoscere il nome delle vette o del villaggio che ha appena immortalato con la sua compatta.
La conoscenza del territorio, il saper entrare in contatto con la sua “anima” e con la sua cultura, costituiscono presupposti irrinunciabili per chi voglia raccontare per immagini e non soltanto fotografare.
Questa è, essenzialmente, la differenza tra la fotografia creativa e le cartoline “saluti da” in vendita dal tabaccaio.

Un ambiente “difficile”.
Come abbiamo già detto, fotografare in montagna significa saper affrontare diversi generi fotografici, tutti però accomunati da un ambiente particolare e spesso ostile.
Che ci si dedichi al paesaggio, al ritratto o alla fotografia di fiori e insetti, le condizioni in cui si opera costringono a dedicare un’attenzione speciale ad aspetti che – in condizioni “normali” – apparirebbero marginali e del tutto trascurabili.
Queste attenzioni sono tanto più importanti quanto più si considera il fatto che si stanno usando apparecchi elettronici, generalmente delicati e in ogni caso sensibili alle condizioni di utilizzo.

Il freddo.
Il freddo è il primo dei problemi, soprattutto in alta quota, durante tre stagioni su quattro, il che non è poco. Del resto chi frequenta la montagna conosce bene il proverbio: “nove mesi di freddo e tre mesi d’inverno”. L’unica soluzione è mantenere, per quanto possibile, la reflex al caldo ed estrarla solo al momento dello scatto. “Al caldo” può significare, ad esempio, appesa al collo sotto la giacca a vento, oppure nello zaino, ma in posizione prossima alla schiena. Poiché sono le batterie l’elemento più sensibile alle basse temperature, si rivela spesso conveniente tenerle in una tasca interna (magari nel taschino della camicia, sotto almeno due strati di indumenti, come ad esempio maglione e giacca a vento) e inserirle nella macchina solo al momento dell’uso. Una perdita di tempo, è vero, ma forse è meglio perdere il primo scatto piuttosto che tutti i successivi. Portare con sé un secondo set di batterie, anch’esso riparato dal freddo, permette di far fronte a improvvise défaillance del sistema.

Il caldo.
Se il freddo costituisce un ostacolo, il caldo non è da meno. Poggiare la reflex su una pietra o sull’erba durante una sosta sotto il sole è il regalo peggiore che potremmo fare alla nostra attrezzatura. Anche se la temperatura ambientale non è elevata, il corpo nero della macchina e degli obiettivi assorbe le radiazioni solari, provocando all’interno degli apparecchi un surriscaldamento che può diventare critico: ho visto più di un obiettivo reso inutilizzabile dal lubrificante liquefatto dal sole e colato tra le lenti. Il caldo è dannoso anche perché dilata i componenti in plastica e metallo, altera le tolleranze meccaniche e – soprattutto – genera condensa, cioè umidità, che è la peggiore nemica dell’elettronica e della meccanica di precisione.

Il bagnato.
E se l’umidità è la peggior nemica dell’elettronica, figuriamoci l’acqua diretta! Fotografare sulla neve, o magari proprio durante una nevicata. Fotografare in grotta, con le gocce che stillano dal soffitto e un livello di umidità che sfiora il cento per cento. Fotografare vicino a una cascata, o facendo rafting, o praticando il torrentismo… Condizioni di utilizzo estreme che rischiano di mettere fuori uso (definitivamente, tra l’altro!) le nostre costose attrezzature. Ovvio, poche gocce non sono un dramma: basta asciugare al più presto le parti che si sono bagnate.
Se lo sgocciolio è intenso si può fare ricorso alle apposite custodie antipioggia.
Se invece la fotocamera cade nell’acqua c’è ben poco da fare, se non portarla al più presto (ma proprio presto!) al più vicino centro di assistenza dove – con molta probabilità – ci diranno che non c’è più alcun rimedio. Se poi l’acqua fosse salmastra o – peggio – salata, cerchiamo almeno di recuperare la scheda di memoria, perché il resto sarebbe irrimediabilmente perduto.
L’utilizzo di macchine “tropicalizzate” è consigliabile se non si vuole rischiare la salute della propria reflex quando si lavora in presenza di polvere, sabbia o umidità in sospensione nell’aria. Le guarnizioni di tenuta funzionano, ma oltre un certo limite è consigliabile essere prudenti: ci si può avvicinare per breve tempo a una cascata, ma in caso di pioggia vera è meglio fornire all’attrezzatura una protezione di sicura efficacia.

Il nemico più insidioso.
Ma è la fa fatica l’insidia più subdola, perché quando ci piomba addosso è già troppo tardi. L’unico approccio davvero “professionale” al problema consiste nello scegliere con attenzione che cosa portare e che cosa lasciare a casa, nel non sovraccaricarsi inutilmente di attrezzature che poi non verranno usate, nel decidere che cosa utilizzare in base al tema fotografico che si vorrà affrontare. Dedicare il giusto tempo a queste attenzioni può costituire la differenza – letteralmente – tra la vita e la morte.

Digitale: che cosa e’ cambiato?
Chi scrive è nato alla fotografia lungo i sentieri delle Alpi. Dapprima con una Lubitel 2 (a sedici anni, una vita fa!), poi con apparecchi a telemetro, poi con reflex di piccolo e medio formato e infine (già adulto) con apparecchi a corpi mobili, conquistato dal fascino del grande formato e incurante delle fatiche necessarie a trasportare un banco ottico nello zaino.
Poi è cambiato il mondo e oggi la fotografia digitale è l’unico tramite con cui il professionista può dialogare con i suoi clienti. Che si tratti di una lastra 10´12 trasformata in pixel sotto lo scanner o di un RAW generato direttamente dal sensore poco importa: il lavoro che il fotografo consegna è un file di immagine, una nuvola impalpabile, intangibile e virtuale di informazioni che ha sostituito la concretezza della pellicola.
A partire dagli ultimi anni del Novecento, infatti, la fotografia ha vissuto una rivoluzione non dissimile da quella che decretò la fine del dagherrotipo (in copia unica) e la nascita del procedimento negativo-positivo, che permetteva di trarre più copie da una stessa matrice.
Ma se in quel caso la novità coinvolgeva essenzialmente la chimica dell’emulsione e il procedimento di sviluppo, oggi il cambiamento coinvolge – ben più profondamente – i supporti di acquisizione e la formazione stessa dell’immagine, che diviene di natura fisica e non più chimica.
Differenze? Molte, da tutti i punti di vista, a cominciare dal momento della ripresa.
Lavorare (seriamente) in digitale significa riappropriarsi di ciò che la pellicola a colori ci aveva fatto dimenticare: la possibilità di curare in prima persona tutte le fasi della formazione dell’immagine, dalla progettazione alla stampa.

La capacità di progettare.
Contrariamente al principiante, che scatta a raffica senza curare composizione, esposizione e inquadratura, “tanto poi le aggiusto con Photoshop e quelle sbagliate le cancello”, il fotografo attento sa che una buona immagine nasce al momento della ripresa, ed anzi ancora prima, nel momento in cui egli si chiede se la realtà che si trova di fronte meriti di diventare il soggetto di una fotografia.
Questo implica la necessità di prevedere e progettare – prima dello scatto! – quale sarà la destinazione finale dell’immagine e a quale tipo di trattamento la dovremo sottoporre per tradurre sulla carta da stampa l’immagine mentale che ci eravamo fatti del soggetto. Sarà questa capacità progettuale a determinare le modalità e i parametri da utilizzare in ripresa.
E’ pertanto indispensabile acquisire la capacità di curare professionalmente l’inquadratura, l’esposizione e la gestione della nitidezza, dimenticando l’approssimazione propria del principiante per dedicare tempo, intelligenza ed energie allo studio attento della composizione e della luce.

La gestione dell’esposizione.
Prima di parlare della gestione dell’esposizione è necessario rifarsi al concetto di “scala zonale”. Benché lo zone system, teorizzato da Ansel Adams, sia nato pensando al trattamento delle pellicole piane in bianco e nero, vedremo come in realtà sia non solo possibile, ma anche necessario, applicarlo alla fotografia digitale.
Quando sente parlare di sistema zonale, spesso il principiante pensa trattarsi di roba quasi esoterica, e comunque riservata a quei folli che fotografano su lastra con apparecchi pesanti quanto un’incudine e ingombranti quanto un SUV sul marciapiede.
In realtà non c’è nulla di esoterico. Il sistema zonale non è che un metodo rigoroso e – se vogliamo – “scientifico” per ottenere una stampa in bianco e nero esattamente corrispondente all’immagine che il fotografo aveva “previsualizzato” prima della ripresa.

Sistema zonale e fotografia digitale.
Ma che cosa c’entra il sistema zonale, nato pensando alla pellicola in bianco e nero (anzi, alle lastre in bianco e nero!) con la fotografia digitale? E’ un’utopia o un matrimonio possibile?
Secondo alcuni, lavorando in digitale tutto questo non ha ragione di essere: il sistema zonale magari andava bene ai tempi di Adams, ma quando alla pellicola piana si sostituisce un sensore, la cosa non ha più senso.
In realtà il sistema zonale va considerato – più che un semplice sistema di sviluppo e stampa – come una “filosofia” del fotografare. Nella sua prima parte, quella della ripresa, esso conserva tutta la sua validità anche quando si lavora con un sensore digitale. La scelta del soggetto, dell’illuminazione e dell’esposizione corretta è già sistema zonale, e merita un’attenzione ben più approfondita di quella che normalmente il fotografo (anche esperto, purtroppo) le dedica.
Di più, consideriamo il fatto che l’immagine digitale è un file singolo, e che di conseguenza può essere trattato singolarmente, proprio come una pellicola piana. Non dimentichiamo poi che il sensore è un dispositivo in bianco e nero: l’immagine a colori è prodotta a posteriori, grazie ad un filtro a colori capace di bloccare tutti i colori tranne quello associato ad ogni singolo pixel.
Lavorare in digitale significa quindi ragionare come se si stesse fotografando in bianco e nero. Come vedremo, questo porta con sé conseguenze importanti ai fini della postproduzione.
E tutto questo, di fatto, è sistema zonale.
Certo, è possibile effettuare una frettolosa misurazione esposimetrica attraverso l’obiettivo, ma questo approccio è approssimativo e genera immagini in qualche modo riuscite ma certamente non corrispondenti a ciò che il fotografo si aspettava (quante volte si sente dire “la mia foto è bella, ma non è quello che avevo in mente”!). Il primo sistema porta alla cartolina illustrata, il secondo è un metodo di lavoro in grado di trasferire un’idea su un supporto sensibile, comunicando il mondo interiore del fotografo e l’intimo rapporto che esso ha saputo instaurare con il soggetto.

Quando il contrasto è forte.
L’attenta valutazione dell’esposizione, unitamente all’applicazione del sistema zonale (così come lo abbiamo considerato) ai fini della postproduzione, risolve un problema spesso lamentato da chi inizia a fotografare in montagna: la compensazione dei contrasti.
La latitudine di posa dei sensori comunemente usati nelle DSLR non è eccezionale (la si può paragonare a quella di una buona pellicola invertibile) e registrare in modo ottimale le ombre e le alte luci può apparire come un’impresa impossibile.

Le soluzioni sono molteplici.

Esporre a destra.
Prima di tutto può essere conveniente adottare la tecnica divulgata da Michael Reichmann sul suo sito Luminous landscape (www.luminous-landscape.com) e chiamata “expose to the right” (ETTR).
Esporre “a destra” significa sovraesporre in fase di ripresa, cioè fare in modo che la curva dell’istogramma appaia spostata verso la zona delle alte luci, dove viene registrata la maggior parte delle informazioni.
Poi, in fase di trattamento, si decrementa l’esposizione, riportando così l’istogramma verso il centro. In questo modo viene ottimizzato il rapporto segnale/disturbo.
Benché alcuni autori contestino le affermazioni di Reichmann, in base ad argomentazioni squisitamente tecniche impossibili da approfondire in questa sede, va detto che nella pratica il sistema funziona e contribuisce a tenere sotto controllo il rumore elettronico.
Il “trucco” (che ha anch’esso solidi fondamenti fisico-matematici) applica alla fotografia digitale concetti ben noti a chi fotografa, sviluppa e stampa in bianco e nero applicando il sistema zonale (sempre lui).
Il risultato sarà un’ottimale separazione delle alte luci unita ad una buona leggibilità delle ombre, anche nel controluce.

High dynamic range.
Quando il contrasto tra ombre e luci è eccessivo, si può ricorrere alla tecnica denominata HDR (high dynamic range), che consiste nell’effettuare più scatti di uno stesso soggetto con esposizioni diverse (macchina sul cavalletto!) per poi unirli in postproduzione.
I metodi sono diversi.
Il più creativo, ma anche il più complesso, consiste nell’utilizzare le maschere di livello, intervenendo poi a mano (con un pennello adeguato) sulle aree da schiarire o scurire. Il metodo consente di ottenere il controllo completo dell’immagine, ma richiede una notevole manualità e un elevato grado di precisione, oltre che molto tempo.
In alternativa ci si può rivolgere ad appositi software o alle funzioni automatizzate dei software di elaborazione e fotoritocco, con il rischio però – se non si sa “domare” il software con sufficiente competenza – di ottenere immagini dall’aspetto “artificiale” e di sicuro non del tutto coincidenti col risultato previsto.

Buon vecchio flash!
Se il soggetto è vicino la compensazione dei contrasti può essere affidata al flash, che – contrariamente a quanto comunemente si crede – non serve soltanto quando c’è poca luce, ma anche e soprattutto quando ce n’è troppa. Il fill-in diurno, cioè la compensazione dei contrasti mediante attenuazione delle ombre, è uno dei vantaggi di cui può godere chi impara ad usare con perizia questo piccolo “sole portatile”.

La luce: non solo un “pennello”.
Rifacendosi all’etimologia del termine “fotografia” (usato per la prima volta dal fisico John Herschel nel suo saggio Note on the art of Photography, or The Application of the Chemical Rays of Light to the Purpose of Pictorial Representation, presentato alla Royal Society il 14 Marzo1839), si è soliti dire che la luce è il “pennello” del fotografo, dal momento che è solo grazie alla luce che le immagini possono essere registrate dalla (e sulla) superficie di acquisizione, chimica o digitale che sia.
Tuttavia, liquidare così in fretta l’argomento sarebbe superficiale e riduttivo.
L’interesse del fotografo per la luce si concentra in realtà su tre aspetti (o parametri) distinti, anche se strettamente interconnessi: l’intensità, la direzione e la qualità.

Quanta ce n’è.
L’intensità della luce è il parametro più evidente e di più immediata comprensione: la quantità di luce emessa dalla fonte è agevolmente misurabile e determina la rapidità con cui la superficie di acquisizione registra l’immagine. La misurazione dell’intensità luminosa mediante l’esposimetro permette al fotografo di scegliere il tempo e il diaframma necessari a garantire l’esposizione che si considera corretta per quel soggetto.

Da dove arriva.
La direzione della luce è un concetto altrettanto intuitivo ma troppo spesso trascurato.
Molti fotografi (non solo principianti) scattano la fotografia senza preoccuparsi di come il soggetto è illuminato. Concentrati su di esso e sulla necessità di “riprodurlo”, tralasciano di considerare che la lettura dell’immagine da parte dello spettatore dipenderà, in modo preponderante, proprio dai giochi di luce e ombra capaci di esaltare o ridurre la tridimensionalità degli oggetti all’interno dell’inquadratura, di scandire gli spazi e di determinare i rapporti tra primo piano e sfondo.
La regola aurea del principiante, tenersi il sole alle spalle, può funzionare (ma non sempre) per le fotografie delle vacanze, ma ben raramente è in grado di raccontare con efficacia il soggetto.
Il fotografo esperto sa attendere, talvolta per ore o giorni, che si verifichino le condizioni di luce ritenute ideali per mettere in risalto le caratteristiche peculiari di un determinato soggetto.
L’illuminazione angolata, o addirittura radente, è in grado di evidenziare in modo drammatico la texture, o struttura superficiale degli oggetti, esaltandone la tridimensionalità e la matericità; mentre il controluce, se usato in modo creativo, ridefinisce – talvolta stravolgendoli – i rapporti tra primo piano e sfondo.
L’uso sapiente del flash in luce diurna è in grado – come si è già detto – di compensare i contrasti in caso di illuminazione fortemente direzionale, di schiarire un soggetto controluce, di ammorbidire le ombre troppo nette.

La qualità: un fattore imponderabile ma reale.
Il terzo parametro, la qualità della luce, è meno facilmente definibile e sfugge a una descrizione rigorosa e sistematica. Tuttavia non è meno importante, ed anzi è in grado di rappresentare l’aspetto forse più caratterizzante di una fotografia.
Quella che definiamo come “qualità della luce” è in realtà un insieme di fattori, tra i quali possiamo citare la temperatura cromatica (il “colore” della luce), la limpidezza e la trasparenza dell’aria, la maggiore o minore diffusione dovuta alla presenza di nubi o foschia…
Giuseppe Rotunno, uno dei più importanti direttori della fotografia a livello internazionale, invitava ad osservare come ogni regione del mondo sia caratterizzata da una sua luce peculiare ed unica. Egli notava quanto fosse diversa la luce della costa est degli Stati Uniti dalla luce della costa ovest, anche alla stessa ora del giorno e alla stessa latitudine.
In Italia, ad esempio, la luce calda e avvolgente che inonda la campagna toscana a metà mattina si differenzia e quasi si contrappone alla luce più morbida e sfumata, talvolta fredda, che illumina le colline delle Langhe.
Differenze che gli architetti rinascimentali e barocchi conoscevano bene e sapevano mettere in evidenza, utilizzando i caldi colori del cotto in città come Firenze o Siena e tenui colori pastello, quasi filtrati dalla nebbia padana, per decorare le facciate dei palazzi torinesi.
Come i pittori impressionisti, che dipingevano lo stesso soggetto in diverse stagioni e in diverse ore della giornata, ottenendo atmosfere sempre diverse e talvolta contrapposte, anche il fotografo deve saper sfruttare la qualità della luce come elemento costitutivo primario del suo messaggio.

L’importanza del trattamento.
La fotografia digitale ci pone – in modo quasi brutale – di fronte ad una constatazione ovvia, ma ancora adesso mal digerita non solo dai fotografi, ma anche da gran parte dei critici, e cioè che la fotografia non è una “riproduzione” della realtà, ma una sua traduzione, cioè un’interpretazione del reale filtrata attraverso la sensibilità del fotografo e la sua visione del mondo (in una parola, il suo stile).
Questo fa sì che la fase del trattamento – come del resto avviene nella fotografia fine art – acquisti un’importanza non inferiore a quella della ripresa.
Quello che per il cinema è il montaggio (come insegna Ejzenštejn), per la fotografia digitale è la postproduzione.
Una realtà che le diapositive a colori ci avevano fatto dimenticare.
La cura che il fotografo digitale dedica alle sue immagini non è dissimile da quella destinata alla fotografia in bianco e nero, dove ripresa, sviluppo e stampa costituiscono altrettanti anelli di un’unica catena volta ad ottenere un risultato accuratamente previsto e programmato.
Non è questa la sede per trattare compiutamente di tecniche di postproduzione: sull’argomento esiste una manualistica a dir poco imponente, senza contare gli innumerevoli tutorial (non sempre affidabili e professionali) presenti in rete.
Qui insisteremo soltanto sulla vera funzione della postproduzione fotografica, che consiste nell’esaltare e valorizzare quelle caratteristiche dell’immagine che ci avevano spinti ad effettuare la ripresa. Elaborare un’immagine, infatti, non significa aggiungere effetti speciali e colori psichedelici, ma evidenziarne gli aspetti salienti, cioè gli elementi “forti” che andranno a formare la struttura portante del nostro messaggio: “Che cosa voglio comunicare? Come posso metterlo in risalto?”.
Il vantaggio del digitale rispetto alla pellicola è che il sensore registra molte più informazioni, anche quelle che lo schermo del PC (o peggio ancora il display della reflex) non ci fa vedere. Nel file RAW sono presenti tutti i valori di luminanza relativi alle alte luci, alle ombre e ai mezzitoni per ciascuno dei canali RGB. E questo rappresenta una grossa differenza rispetto alla pellicola invertibile!
Ma proprio perché le informazioni ci sono tutte, è necessario che il fotografo sappia usare gli strumenti giusti per evidenziare ed esaltare ciò che davvero aveva “visto” (non solo con gli occhi) al momento della ripresa.
Questo implica lavorare in RAW (vero “negativo digitale”) e impadronirsi dei concetti di base relativi ai procedimenti di formazione e trattamento dell’immagine.
Come amava affermare il musicista inglese Benjamin Britten, “Bisogna avere qualcosa da dire e saperlo dire chiaramente”. Scattare una fotografia equivale a decidere di avere qualcosa da dire; curarne il trattamento in modo adeguato aiuta a dirla chiaramente.

Michele Vacchiano © 11/2011
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