FOTOGRAFIA DELLA NATURA E MISTIFICAZIONE DELLA FOTOGRAFIA
Michele Vacchiano, dicembre 2000

Fotografare la natura. Per alcuni è soltanto un mestiere, per altri un hobby, per altri ancora un sostituto della caccia. Conquistare l'immagine come si conquista una preda. L'immagine in luogo dell'oggetto, in base a uno spostamento semantico tipico di chi, della fotografia, non ha capito la reale valenza, la dirompente e originale capacità comunicativa.

Gli anni Novanta da poco conclusi hanno visto delinearsi un'interessante inversione di tendenza, grazie alla quale la consapevolezza del comunicare si è andata a poco a poco sostituendo alla semplice smania dell'"inseguire e catturare la preda" (come affermava spavaldamente Egidio Gavazzi in un suo libro edito nel 1985). Non è stato un cammino facile né breve e nemmeno privo di pericolosi rigurgiti, se è vero che un noto mensile italiano di fotografia, accanto agli ammaestramenti su come fabbricarsi un portaobiettivo con la scatola delle salviette detergenti (!), pubblicava nel settembre 1996 un articolo dall'illuminante titolo Cip cip? Clic! su come fotografare gli uccelli. Niente di nuovo, è ovvio, compresi gli ormai consueti giochi di parole dettati da un giornalismo di quart'ordine ("Foto mia fatti capanno"), fino all'incontro - inatteso, a dire il vero - con dichiarazioni sconvolgenti: "...gli uccelli possono essere fotografati durante il periodo della cova e della nutrizione dei piccoli [...] Molte volte, per esempio, è necessario legare quei rami che si frappongono tra il nido e l'obiettivo..." Vale a dire, come trasformare un articolo banale e noioso in una coltellata. Avvicinarsi al nido? Legare i rami!? Ma persino i bambini sanno che spostare i rami può esporre i nidiacei ai raggi (mortali) del sole e che, una volta avvertita la presenza dell'uomo, gli adulti di molte specie fuggono abbandonando per sempre i pulcini! Persino i dilettanti sanno che nei Paesi civili (in Gran Bretagna, ad esempio) fotografare gli uccelli nel periodo della nidificazione espone il fotografo a sanzioni da levare il respiro (Wildlife and Countyside Act, 1981)! Penso con raccapriccio a quanti, ammaestrati da questo articolo irresponsabile, si saranno recati nei boschi a spostar fronde, a piazzare flash, a legare rami che ostacolassero la ripresa.

Personalmente credo (e ho sempre insegnato e scritto) che ci sono principi che vanno al di là dell'immagine a tutti i costi (così come per l'alpinista esistono imperativi morali che trascendono la pura e semplice conquista della vetta), regole non scritte che devono far parte del bagaglio culturale di chi comunica attraverso l'immagine: soprattutto non disturbare, non interferire. In caso contrario ci trasformeremmo in volgari paparazzi della natura. Se la fotografia che stiamo per fare implica un pericolo per l'animale, se esiste il rischio di separare i cuccioli dai genitori, se solo sospettiamo che il soggetto possa essere spaventato e messo in fuga la foto non si fa, punto e basta. Piantiamola una buona volta di accostarci alla fotografia della natura con l'atteggiamento dei cacciatori, di considerare l'obiettivo nient'altro che la sublimazione del fucile ("La fotografia è l'istinto della caccia che riappare in forma nuova" dichiarò un giorno Douglas Faulkner, perdendo così un'ottima occasione per stare zitto), di "conquistare le immagini" (espressione quanto mai sintomatica) vantandoci dei lunghi appostamenti, millantando perigliosi avvicinamenti e notti all'addiaccio, con una spacconaggine tipicamente venatoria inappropriata per chi comunica attraverso le immagini e oltretutto fuori luogo, perché l'immagine si giudica (e soprattutto si vende) in base ai suoi contenuti, non in base ai rischi che il fotografo ha corso per ottenerla. Voglio vedere quale agenzia vi compra una foto tecnicamente approssimativa o insignificante soltanto perché l'avete scattata faticando!

Comunicare significa innanzitutto sapersi mettere in relazione con il soggetto, un soggetto che non va "conquistato" (chi conquista di fatto disprezza, si ritiene superiore, e per ciò stesso non si sforza di capire), ma conosciuto e interiorizzato. L'ansia del predatore a caccia di immagini non si addice al fotografo della natura, che si muove in silenzio, con rispetto, senza troppo disturbare, con la sua ingombrante presenza, i sussurri degli alberi e delle montagne, i colloqui misteriosi degli abitatori dei boschi, i riti del piccolo popolo alato che vive nascosto tra i fiori.

Lasciarsi penetrare dall'incanto della vita selvaggia, dal rimpianto per il paradiso perduto. Entrare in comunione con la bellezza. Mettersi in ascolto, con umiltà, saper aspettare, saper cogliere tra le fronde e le rocce (con gli occhi di chi cerca per conoscere, non con lo sguardo avido del predatore) i parchi e rarefatti segni della presenza animale. E infine porsi di fronte al soggetto (sia esso uno stambecco o una farfalla, una montagna o un fiore) con rispetto e gratitudine, chiedendo perdono per la nostra profanazione.

Soltanto così sarà possibile instaurare quel colloquio senza inutili parole, quello stato dell'animo affine alla meditazione che sottende alla vera creatività fotografica e che ci consentirà di comunicare ai nostri spettatori non tanto l'immagine di un animale o di un paesaggio, quanto il nostro amore per la realtà che ci circonda, la nostra visione del mondo, il nostro - personale e irripetibile - stile.

Tutto il resto è mistificazione.

Michele Vacchiano © 12/2000
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