ESPOSIZIONE ED ESPOSIMETRI: UN APPROCCIO DIVERSO
Michele Vacchiano, settembre 2008

Esposizione. Per molti principianti è una parola ambigua, quando non del tutto sconosciuta.

Otturatore a tendina (in alto) e otturatore centrale (in basso). Il primo tipo è anche detto "otturatore sul piano focale" in quanto posizionato all'interno del corpo macchina, in prossimità del piano focale. E' usato prevalentemente nelle reflex di piccolo formato analogiche e digitali, oltre che in alcune reflex di medio formato. Il tempo di otturazione è in realtà determinato dalla larghezza della fessura che si determina tra le due tendine (in tela gommata o metalliche). L'otturatore centrale è invece posizionato fra le lenti dell'obiettivo (che in questo modo diventa più costoso). E' adottato in molte reflex di medio formato, in tutti gli obiettivi destinati agli apparecchi a corpi mobili e nelle fotocamere a ottica non intercambiabile.

Istogramma di un'immagine fortemente sbilanciata verso l'area delle alte luci. La riga nera all'estrema destra che si innalza fino a toccare la parte superiore del grafico indica una "bruciatura" delle alte luci che hanno saturato il sensore.

Istogramma "equilibrato", caratterizzato da una buona gamma e privo di aree illegibili.

Il sole nell'inquadratura costituisce una fonte di luce violenta che tende a saturare il sensore (e la pellicola). Normalmente è accettato che il sole (così come la luce di un lampione) appaia come luce bianca non strutturata. In questo caso la "riga bianca" a destra dell'istogramma non è da considerarsi un errore.

Gossen Sixtino, "glorioso" quanto minuscolo esposimetro al selenio. Consente la lettura in luce continua (non flash) sia riflessa che incidente. La cellula al selenio lo rende adatto all'uso in condizioni ambientali "disperate", là dove il freddo eccessivo rischierebbe di rendere inutilizzabili le batterie, o dove la distanza dalla "civiltà" potrebbe renderne impossibile l'acquisto. Lo svantaggio delle cellule al selenio sta nella loro non eccessiva longevità: dopo alcuni anni (anche se non utilizzate) tendono ad esaurirsi, fornendo risultati inattendibili.

Esposimetro digitale Sekonic. Misura luce incidente (grazie alla cupolina bianca) e riflessa in modalità spot (un grado); luce continua e flash singolo e multiplo. Adatto anche alla misurazione della luce in modalità Cine. Resistente all'acqua e alle intemperie è oggi il modello di punta della casa produttrice.

Esposimetro spot. Consente unicamente la lettura della luce riflessa continua (non flash) in modalità spot. Molto preciso ed affidabile, permette la misurazione a priorità dei tempi, a priorità dei diaframmi e in valori EV.

Schema di misurazione integrata con prevalenza della zona centrale.

Schema di esposimetro a lettura multizona.

Un'immagine come questa richiede invece un'attenta misurazione delle diverse aree dell'inquadratura. Le foglie di sfondo illuminate controluce, la grossa foglia in primo piano il cui centro (lasciato volutamente in ombra) evoca una voragine, le goccioline di rugiada che brillano al sole sono frutto di un attento bilanciamento in fase di ripresa. L'immagine è stata realizzata su pellicola piana invertibile 4x5"/10x12cm.

In alto, fotografia realizzata attraverso una finestra aperta. L'esposizione è stata calcolata sullo sfondo (il mausoleo), mantenendo nell'area del grigio medio l'erba illuminata dal sole. In basso, la stessa inquadratura realizzata mantenendo l'identica esposizione per lo sfondo ma illuminando l'interno della finestra con il flash.

Torino. l'arco olimpico e la passerella del Lingotto in notturna. Fotografare di notte rende necessario calcolare attentamente l'esposizione per evitare che le alte luci provenienti dagli apparati di illuminazione ingannino l'esposimetro provocando la sottoesposizione di particolari importanti.

In alto, uno scatto flessibile meccanico; in basso un cavo di scatto elettronico per reflex Canon prodotto da un fabbricante indipendente.
Quando le reflex erano meccaniche lo scatto flessibile aveva una filettatura universale, che si adattava tanto agli alloggiamenti delle compatte di piccolo formato quanto agli otturatori degli obiettivi per grande formato. la scelta era vastissima, non solo tra modelli di diversa lunghezza, ma anche tra differenti fasce di prezzo. Il costo poteva essere elevato, come per il pregevole e sofisticato flessibile della Horseman qui riprodotto, oppure molto contenuto se ci si accontentava di un modello base il quale, in ogni caso, il suo lavoro lo faceva benissimo. L'avvento del controllo elettronico degli otturatori ha di fatto sconvolto quello che era uno standard diffuso a livello mondiale ed ha introdotto - per evidenti ragioni di mercato - una moltitudine di attacchi diversi, al punto che ogni casa (o quasi) ha il suo attacco per il flessibile, ovviamente incompatibile con le reflex della concorrenza. In questo modo il consumatore è costretto a rivolgersi ad un unico modello (quello realizzato per la sua reflex dallo stesso fabbricante), ovviamente venduto a un prezzo non certo contenuto (tanto c'è solo quello). Da non molti anni alcuni fabbricanti indipendenti (soprattutto cinesi) propongono cavi di scatto flessibile economici, realizzati in modo da adattarsi alle più diffuse reflex in commercio.

Fotografare la neve richiede di calcolare l'esposizione in modo attento. da un lato è necessario evitare che l'esposimetro, ingannato da tutto quel bianco, "chiuda" l'esposizione rendendo la neve grigia e il paesaggio illeggibile perché troppo scuro; dall'altro occorre lasciare che la texture del manto nevoso rimanga leggibile, per non trasformare tutto in una macchia bianca indistinta.

Un ritratto controluce realizzato con la tecnica del fill-in. Il flash, usato in modalità ridotta, ha rispettato la luce ambiente senza sopravanzarla e nello stesso tempo ha schiarito le ombre sul lato del viso non esposto alla luce naturale.

Tanto ci pensa la macchina. Si vede un bel paesaggio, si scende dall'auto, si scatta. La foto è venuta, più o meno, non si capisce nemmeno perché quelle nuvole nel cielo lampeggiano, una volta osservate sul display della compatta digitale. Va bene così, tranne poi ritirare la stampa formato cartolina e dimenticarla per sempre in un cassetto perché neppure lontanamente simile a quello che avevamo visto quel giorno, e certamente non in grado di suscitare emozioni e neppure ricordi. Questa è la desolante realtà che lunghi decenni di automatizzazione delle procedure (automatizzazione ben precedente l'avvento del digitale) hanno trascinato con sé. Per la stragrande maggioranza, coloro che usano la macchina fotografica non hanno la più pallida idea di che cosa sia un diaframma, di come il tempo di otturazione influisca sull'immagine, tranne poi stupirsi del fatto che la foto è venuta mossa perché c'era poca luce e la macchina, che fa tutto da sola, ha impostato un tempo lungo. Ma come è possibile, una macchina che fa tutto da sola non serve proprio a non sbagliare? In questo panorama decadente vale forse la pena di rinfrescare alcuni concetti relativi all'esposizione, nella speranza che anche i lettori di Nadir – i quali certamente fotografano a livelli ben diversi da quelli appena delineati – possano gradire un breve "ripasso".

Che cos'è l'esposizione
"Esposizione" è la quantità di luce che - riflessa dal soggetto e rifratta dalle lenti dell'obiettivo - giunge a colpire il piano focale su cui giace l'elemento sensibile (pellicola, sensore o carta).
L'esposizione è determinata dal tempo durante il quale la luce colpisce l'area di acquisizione e contemporaneamente dal diametro del foro attraverso cui passa la luce rifratta dalle lenti.
Il primo parametro (il tempo) è determinato dall'otturatore, il secondo dal diaframma, la cui regolazione definisce l'apertura relativa. Il diaframma governa anche un altro importante parametro: la profondità di campo apparente, argomento che esula dalla presente trattazione e per il cui approfondimento rimandiamo ad altri articoli (circolo di confusione; profondità di campo; iperfocale e profondità di campo).

Com'è noto, il rapporto tra apertura relativa (diaframma) e tempo di otturazione è regolato dalla cosiddetta "legge di reciprocità" (o legge di Bunsen e Roscoe). In base a questa legge, la quantità di luce che giunge alla pellicola è il prodotto dell'apertura relativa per il tempo di esposizione alla luce, secondo la formula

e = d x t

dove "e" è l'esposizione (cioè la quantità di luce), "d" l'apertura relativa (diaframma) e "t" il tempo di otturazione. Grazie alle proprietà della moltiplicazione, che conosciamo fin dalle elementari, se uno dei due valori raddoppia e l'altro si dimezza il risultato non cambia. Questo vuol dire che la quantità di luce che giunge alla pellicola a f/8 con 1/125 di secondo sarà la stessa a f/11 con 1/60 di secondo. Purtroppo questa legge vale entro un range ben preciso di valori, che dipende dalle caratteristiche chimico-fisiche della pellicola in uso. Al di sopra di un ben preciso tempo di otturazione (che può essere conosciuto consultando le specifiche tecniche di ogni singola emulsione) la legge di reciprocità non vale più. E' questo il cosiddetto "difetto di reciprocità" (o effetto Schwartzschild), che impone di aumentare il tempo di otturazione rispetto alle indicazioni dell'esposimetro, pena una sottoesposizione sempre più marcata a mano a mano che ci si discosta dal valore-limite e (nel colore) di uno spostamento dell'equilibrio cromatico. A puro titolo di esempio e senza voler fare riferimento a una pellicola in particolare, possiamo dire che quando l'esposimetro indica due secondi occorrerà prolungare l'esposizione a cinque secondi; cinque secondi diventeranno venti, e così via secondo una progressione geometrica. La legge di reciprocità perde la sua validità anche con tempi troppo brevi, quali quelli che si verificano quando si utilizza il lampeggiatore elettronico come unica fonte di illuminazione (in questo caso è la durata del lampo, e non l'otturatore, a determinare il tempo di esposizione). Le case produttrici pubblicano le tabelle per la compensazione del difetto di reciprocità. Queste tabelle si trovano in rete e possono essere richieste in formato cartaceo alle case stesse.

Il concetto di latitudine di esposizione
La pellicola e il sensore non sono in grado di registrare correttamente tutta la gamma tonale percepibile dall'occhio umano. In condizioni di forte contrasto le aree più chiare e le aree più scure non vengono distinte. Le zone estreme della scala tonale risultano illeggibili: nelle ombre non ci sono dettagli mentre le alte luci vengono bruciate nel bianco più bianco. Per bene che vada la capacità di registrare correttamente la gamma tonale non supera i quattro o cinque diaframmi. Perciò esiste un intervallo ben preciso entro il quale l'elemento sensibile è in grado di restituire in modo corretto i rapporti tonali. Questo intervallo, che potremmo anche definire come "margine di errore" è la latitudine di posa. Quanto maggiore sarà la latitudine di posa della pellicola, tanto maggiore sarà la sua capacità di produrre immagini soddisfacenti. Le pellicole negative, sia a colori che in bianco e nero, offrono generalmente una latitudine sufficiente per permettere al fotografo un certo margine di errore. Le diapositive, invece, hanno una latitudine inferiore.

I sensori, in teoria, hanno una latitudine di posa abbastanza simile a quella della pellicola. Tuttavia nel digitale esiste un modo per aumentare la "gamma dinamica" dell'immagine, cioè il rapporto tra la luce più forte e quella più debole catturabile dal supporto fotosensibile. Molti suggeriscono di comportarsi nella fotografia digitale come ci si comporta con le diapositive, cioè sottoesporre leggermente in fase di ripresa per evitare di "bucare" le alte luci. Così facendo, tuttavia, si penalizzano fortemente i dettagli in ombra. Bisogna invece comportarsi come con le pellicole negative, cioè sovresporre leggermente (ovviamente tutto dipende dal tipo di soggetto e sarà solo l'esperienza a suggerirte di quanto sovresporre caso per caso), pur senza andare a saturare le alte luci. Controllarlo è facile: dopo avere scattato la foto si verifica l'andamento dell'istogramma sul display della reflex. Se si vede una riga chiara verticale che sale fino in cima al grafico sulla destra, vuol dire che ci sono luci bruciate. In questo caso, se non si vogliono le luci bruciate, occorre rifare la foto in leggera sottoesposizione.

Ci sono ovviamente casi in cui le luci bruciate costituiscono un elemento determinante della composizione. Fotografando di notte i lampioni posono entrare nell'inquadratura; oppure fotografando controsole si può decidere di includere il sole nella scena: in queste situazioni è normale che le luci dei lampioni e la luce del sole risultino bruciate, cioè bianche e senza dettaglio. Lo spettatore si aspetta di vedere un sole accecante. Perciò in questi casi è inutile farsi eccessivi problemi. Il problema nasce quando si perdono i dettagli sulla pelle di una modella illuminata dal sole, sulla pelliccia di un cane, su un muro bianco o sul cielo.

Comunque, per riprendere il nostro discorso, nel digitale bisogna, come dicono gli autori americani, "expose to the right", cioè esporre a destra. La "destra" non è altro che la parte destra dell'istogramma, ed è lì che deve stare la maggior parte delle informazioni. Poi, in fase di elaborazione del RAW, occorrerà abbassare il valore dell'esposizione. In questo modo si avrà una gamma dinamica più ampia che non sottoesponendo in fase di ripresa. E' un po' come applicare – anche nel digitale – il sistema zonale di Ansel Adams di cui parleremo tra poco. Provare per credere: si fotografi due volte lo stesso soggetto nelle stesse condizioni di luce. Si realizzi la prima immagine sottoesponendo in fase di ripresa e poi aumentando l'esposizione in fase di trattamento del RAW; la seconda immagine "esponendo a destra", cioè sovraesponendo leggermente in ripresa e decrementando l'esposizione in postproduzione. Si otterranno due istogrammi decisamente diversi tra loro: il primo avrà una base visibilmente più stretta del secondo, indice inequivocabile di una gamma dinamica meno estesa.

Che cos'è e come funziona l'esposimetro
Facciamo subito una prima grossolana distinzione. Il fotografo dilettante che usa una compatta o una reflex di piccolo formato (sia essa analogica o digitale) conosce generalmente un solo tipo di esposimetro: quello interno alla macchina. Nelle reflex l'esposimetro è TTL (acronimo di through the lens, "attraverso l'obiettivo"), cioè legge la luce che attraversa le lenti del sistema ottico e va a cadere sulla superficie sensibile. Vantaggio: anteponendo all'obiettivo un filtro colorato, un polarizzatore o un filtro grigio, oppure montando aggiuntivi ottici (tubi di prolunga, soffietti di estensione, moltiplicatori di focale) con conseguente caduta di luce, l'esposimetro leggerà e misurerà la luce effettivamente presente. Nelle reflex a pellicola un'ulteriore perfezionamento è costituito dal TTL-Flash: una cellula esposimetrica rivolta verso la pellicola legge la luce riflessa dalla pellicola stessa durante l'esposizione in luce-lampo e "ordina" al flash di interrompere l'emissione luminosa quando la media dei valori tonali registrati all'interno dell'area di lettura ha raggiunto il grigio medio. Il cosiddetto E-TTL delle digitali non è un vero TTL-Flash e funziona su un altro principio.

Lo svantaggio degli esposimetri TTL interni alla reflex è che non possono misurare la luce incidente, ma solo la luce riflessa dal soggetto. Sulle vecchie riviste degli anni Ottanta venivano talvolta pubblicati dei suggerimenti ameni, tipo collocare mezza pallina da ping-pong davanti all'obiettivo per simulare la resa della "cupolina" per lettura della luce incidente. Ma a parte il fatto che diventa un po' difficile trovare un obiettivo con l'elemento frontale così piccolo da poter essere coperto da mezza pallina da ping-pong, c'è da dire che certi suggerimenti fai-da-te lasciano sempre il tempo che trovano, soprattutto quando uno vuol fare le cose seriamente. Recentemente è stato immesso in commercio l'Expodisc, un disco translucido che si avvita alla ghiera frontale dell'obiettivo e consente la lettura della luce incidente, oltre al bilanciamento del bianco con fotocamere digitali e videocamere. Gli interessati a questo gadget possono approfondire consultando il sito del produttore www.expodisc.com.

Gli esposimetri TTL funzionano tutti allo stesso modo? No, per due motivi.
Il primo motivo è costituito dalla natura delle cellule esposimetriche: che siano al silicio o a CdS (solfuro di cadmio) la loro resa varia, così come varia il loro "effetto memoria". Le cellule al CdS ad esempio reagiscono poco al rosso, per cui anteponendo un filtro rosso all'obiettivo l'esposimetro ne sarà quasi accecato ed incrementerà l'esposizione più di quanto necessario, provocando la sovraesposizione del negativo. Le cellule al silicio (adottate ormai in modo generalizzato) hanno invece un comportamento più uniforme.

Il secondo motivo è costituito dall'area di lettura. Un tempo esistevano solo tre possibilità: lettura totale, lettura integrata con prevalenza della zona centrale, lettura spot.

Con la lettura totale, o a pieno campo, il rischio di ottenere immagini sottoesposte o sovraesposte è piuttosto elevato. Questo perché un esposimetro a lettura totale effettua la media dei valori tonali presenti in tutta l'area inquadrata e restituisce un negativo i cui diversi valori tonali arrivino a formare nel complesso un grigio medio al 18%, che è il grado di riflettenza media della superficie terrestre. Quando la scena è illuminata in modo ragionevolmente uniforme e i centri di interesse sono uniformemente distribuiti questo tipo di lettura consente immagini ben bilanciate. ma quando esistano forti contrasti o l'equilibrio tonale sia sbilanciato (come ad esempio in presenza di un cielo molto luminoso), l'affidabilità dello strumento entra in crisi.

La lettura a prevalenza della zona centrale tiene in considerazione tutto il campo inquadrato ma con sensibilità decrescente a mano a mano che dal centro ci si allontana verso i bordi, partendo dal presupposto che il centro dell'immagine contenga gli elementi più significativi. Spesso l'area di lettura escludeva il cielo, per evitare sottoesposizioni dovute a un cielo troppo luminoso. Tutto questo funziona finché il fotogramma è orientato in orizzontale: se si gira la macchina di novanta gradi si rischiano letture bislacche.

La lettura spot prende in considerazione una zona ristretta, che può essere quella centrale (ma non sempre il soggetto è al centro) oppure una zona periferica scelta entro un range più o meno vasto di possibilità (multispot). La lettura spot permette di concentrare l'attenzione sul soggetto principale, lasciando che gli elementi di sfondo risultino sovra o sottoesposti, il che si può evitare ricorrendo al flash, usato con lo scopo di compensare lo scarto tonale risultante dal rapporto soggetto-sfondo.

Nelle reflex moderne il sistema di lettura è di tipo multizonale: l'inquadratura viene suddivisa in aree ciascuna delle quali viene letta separatamente. In teoria questo consente un'esposizione "intelligente": il processore calcola l'esposizione trascurando le aree di illuminazione anomala e dando priorità alle zone dove sono sistemati gli elementi di interesse. Il tutto, ovviamente, secondo la "sua" logica. la quale - sempre oviamente - è la logica di una macchina, cioè tendenzialmente stupida.

Per questo motivo i fabbricanti affiancano - alla lettura "intelligente" a zone - la più tradizionale lettura integrata con prevalenza al centro e la lettura spot, delle quali abbiamo già parlato.

L'importante, per il fotografo, è rendersi conto del fatto che, per quanto "intelligente", l'esposimetro non è che una macchina e per ciò stesso, in realtà, è stupido, nel senso che fa ciò che noi gli diciamo di fare, cioè ciò per cui è stato programmato: restituire sempre un'immagine la cui media tonale coincida col grigio medio.

Gli esposimetri esterni sono usati in ambito professionale, sia quando si lavora con apparecchi non dotati di esposimetro TTL (molte reflex di medio formato, apparecchi a corpi mobili), sia quando si lavora in studio e sussista la necessità di tenere sotto controllo tutte le fonti di luce (necessità di misurazione in luce incidente, necessità di misurazione della luce-lampo), sia, infine, quando si renda necessario affiancare una misurazione della luce incidente alla misurazione della luce riflessa.

Qual è la differenza?
Gli esposimetri che misurano la luce riflessa vengono puntati verso il soggetto e funzionano esattamente come l'esposimetro TTL della reflex. Con la differenza che l'eventuale adozione di filtri o sistemi che tolgono luce richiede una compensazione manuale dell'esposizione, effettuata in base al fattore-filtro (se la caduta di luce è dovuta a filtri) o al calcolo del fattore di posa se la caduta di luce è dovuta a un aumento del tiraggio e conseguentemente del rapporto di riproduzione.

Gli esposimetri a luce incidente misurano la luce emessa dalla fonte luminosa (il sole, le lampade o il flash) e non tengono conto del grado di riflettenza del soggetto. Teoricamente dovrebbero fornire risultati più affidabili. Misurare in luce incidente equivale a misurare un cartoncino grigio medio illuminato dalla stessa luce che investe il soggetto. La lettura della luce incidente non è sempre affidabile: ad esempio quando il soggetto è controluce non si può fare. Inoltre spesso è necessario tenere conto del grado di riflettenza del soggetto.
Di conseguenza è buona norma evitare la sola misurazione in luce incidente ma affiancarla sempre a una misurazione in luce riflessa su più punti dell'immagine.

Quando c'è poca luce...
Fotografare con il sole alle spalle un soggetto illuminato frontalmente è un modo comodo e facile per non avere problemi di esposizione. Ma è anche la via più breve per ottenere fotografie banali, che non raccontano nulla del paesaggio né delle sensazioni provate di fronte ad esso.
Al contrario, le condizioni di luce inusuali (la luce radente o il controluce, ad esempio) sono spesso in grado di trasfigurare un ambiente "già visto" in un luogo magico e incantato, comunicando allo spettatore le emozioni del fotografo.
A maggior ragione questo vale quando la luce del sole… non c'è. Contrariamente a quanto molti pensano, fotografare di notte non soltanto è possibile, ma può rivelarsi il modo migliore per ottenere fotografie davvero creative.

Di notte le luci della città creano atmosfere magiche e incantate, permettendo di cogliere sensazioni e particolari che la luce del giorno nasconde e uniforma. La città cambia aspetto e diventa ricca di spunti fotografici. Il buio consente di nascondere i particolari indesiderati, e i soggetti che emergono dall'oscurità acquistano una incredibile forza espressiva.
Purtroppo, la scarsità di luce ambiente pone ovvi problemi di illuminazione. In questo caso il ricorso al flash non è quasi mai raccomandabile. Per quanto potente, il flash ha una portata limitata ed è pertanto inadatto ad illuminare soggetti lontani. Inoltre la sua emissione di luce forte, direzionale e concentrata rischia di "bruciare" i soggetti vicini lasciando nell'oscurità lo sfondo e creando un effetto innaturale. Infine la sua luce di tipo "solare" (intorno ai 5600 gradi Kelvin) rischia di snaturare l'atmosfera indotta dall'illuminazione artificiale presente nell'ambiente. Ne consegue che il flash è quasi inutile nella fotografia del paesaggio notturno.
Ma allora lo si lascia a casa?
No, ma lo si usa in situazioni ben precise. Nella fotografia notturna, il flash si rivela utile a distanza ravvicinata, quando il soggetto è un particolare architettonico (una maniglia, il fregio di un portone, un capitello), o ancora quando si voglia effettuare un bilanciamento luminoso tra primo piano e sfondo o quando si vogliano schiarire le ombre. In quest'ultimo caso occorre padroneggiare la tecnica del fill-in, che richiede un dosaggio attento e ponderato della luce, per evitare di "bruciare" il soggetto.

Quando si fotografa in condizioni di luce scarsa, l'accessorio più utile non è il flash ma il cavalletto o treppiede Ovviamente robusto. Cioè pesante. Sicuramente più pesante della fotocamera. Prima di scegliere il cavalletto, pesate la vostra reflex equipaggiata con il più pesante dei vostri obiettivi. Fatto? Bene, il cavalletto (completo di testa) dovrà essere più pesante di così. Almeno il doppio, dicono i puristi, e non hanno torto.

Con la fotocamera ben fissata a un robusto (robusto!) cavalletto, i lunghi tempi di otturazione non costituiranno più un problema. Questo vuol dire che si potranno usare pellicole a bassa sensibilità (vantaggio: grana più fine) o impostare sulla digitale un basso valore ISO (vantaggio: riduzione drastica del rumore elettronico). Raccomandabile lo scatto flessibile, che aziona l'otturatore senza costringere il fotografo ad agire sul pulsante di scatto, cosa che potrebbe indurre vibrazioni indesiderate. Ovviamente il lungo tempo di otturazione farà sì che le persone e i veicoli in movimento lascino sul fotogramma delle lunghe "strisciate", ma questo fa parte dello "stile narrativo" della fotografia notturna.

Nelle reflex digitali di vecchia generazione un tempo di otturazione lungo potrebbe provocare un aumento del rumore elettronico. Nei nuovi modelli il fenomeno è limitato, specialmente se si usa un basso valore ISO. Inoltre nei menù di molte macchine esiste la funzione di "riduzione del rumore", appositamente sviluppata per queste condizioni di ripresa.
Per quanto riguarda le pellicole, un tempo di otturazione lungo può provocare il già citato "difetto di reciprocità".

…e quando ce n'è troppa
Abbiamo parlato di fotografia notturna. Ma come comportarci quando al contrario c'è troppa luce? Ad esempio sulla spiaggia quando c'è tanto sole, o sulla neve.
L'errore più frequente, ma che commettono un po' tutti, è quello di sottoesporre rispetto alle indicazioni dell'esposimetro. In realtà, se noi fotografassimo una superficie uniformemente bianca come la neve al sole, l'esposimetro (tarato per restituire il grigio medio) "vedrebbe" troppo bianco e decrementerebbe l'esposizione, restituendoci un'immagine in cui la neve è grigia. In altre parole, la risposta dell'esposimetro della reflex, che lavora in luce riflessa, non è assoluta, ma dipende dalla relazione esistente tra la luce riflessa dal soggetto e il grigio medio, che è il suo parametro di riferimento. Per avere una risposta assoluta dovremmo usare un esposimetro esterno a luce incidente, che misura direttamente la quantità luce emessa dalla fonte di illuminazione. Ovviamente, se la neve diventa grigia anche il resto della fotografia risulterà sottoesposto. Per avere la neve bianca (e gli altri toni dell'immagine correttamente riprodotti) dovremo sovresporre, cioè incrementare l'esposizione suggerita dall'esposimetro.

Per farlo, l'ideale sarebbe misurare l'esposizione su un cartoncino grigio medio (si vendono nei negozi di fotografia o su Internet), oppure individuare un oggetto il cui tono si avvicina al grigio medio. I fotografi esperti sanno individuare ad occhio il grigio medio, ma se non lo si sa fare la natura aiuta: il grande Ansel Adams – in mancanza di cartoncino – misurava il grigio medio sull'erba illuminata dal sole. Ma anche l'asfalto di una strada o il cemento di un marciapiede funzionano altrettanto bene. O ancora un rettangolo di stoffa opaca la cui tonalità si avvicini al grigio medio. L'unica cosa di cui dobbiamo preoccuparci è che il cartoncino (o comunque la superficie su cui effettuiamo la misurazione) deve ricevere la stessa luce che colpisce il soggetto, e secondo la stessa angolazione. Se non si trova nulla che si possa avvicinare al grigio medio ci sono due alternative. La prima è quella di misurare il palmo della mano e poi sovresporre di uno stop: la pelle del palmo della mano è circa un tono più chiara del grigio medio. La seconda è di misurare direttamente la superficie della neve per poi sovresporre di due o tre stop. E' un metodo impreciso da utilizzare solo in caso di estrema emergenza.

Il rischio – da molti paventato – di "bucare" le alte luci è meno frequente di quanto si pensi. Per scongiurarlo del tutto può essere conveniente ricorrere alla tecnica del bracketing, possibilmente usata col cervello e non affidata agli automatismi della reflex..

La luce: non solo quantità
Finora abbiamo parlato di "quantità" di luce presente nell'ambiente. Ma il fotografo attento si preoccupa anche (e molto) della direzione della luce. Un esempio. Proviamo a fotografare una modella sulla spiaggia alle undici del mattino, con il sole quasi allo zenit. L'immagine che ne uscirà non renderà giustizia alla bellezza del soggetto. Con il sole a picco le sopracciglia faranno ombra agli occhi, gli zigomi faranno ombra alle guance, il naso farà ombra al labbro e il mento farà ombra al collo. Quello che apparirà nella stampa finale sarà un mostro! La soluzione è usare una superficie chiara capace di riflettere la luce e indirizzarla verso le parti in ombra. Questa operazione si chiama "fill-in", riempimento delle ombre. Come superficie riflettente si può usare un classico pannello argentato (o dorato se si vogliono scaldare i colori) per uso fotografico, ma anche qualunque oggetto piano e chiaro in grado di riflettere luce: un asciugamano bianco, un pannello di polistirolo… Oppure sfruttare le superfici naturali: la sabbia chiara, l'acqua del mare se la modella ha voglia di bagnarsi, la neve illuminata dal sole. In ambiente chiuso la superficie riflettente ideale è costituita dal muro bianco opposto ad una finestra. Questo è utile soprattutto nei ritratti: una sola fonte di luce laterale crea ombre profonde e illeggibili sul lato del viso non illuminato, mentre una superficie riflettente compenserà lo scarto di esposizione ammorbidendo i contrasti.

L'alternativa alla superficie riflettente è costituita dal flash, che può essere usato a potenza ridotta per schiarire le ombre e ammorbidire i contrasti senza sopravanzare l'effetto della luce ambiente. Il fill-in effettuato con il flash richiede una certa padronanza del mezzo, anche se oggi gli automatismi e le numerose modalità di esposizione consentite dall'elettronica si rivelano aiuti preziosi. L'uso del flash in luce diurna è noto da sempre in ambito professionale: si noti come i fotografi di matrimonio siano soliti riprendere la sposa col flash anche all'aperto, ad esempio quando scende dall'auto per entrare in chiesa.

Filosofia dell'esporre
Ci sono essenzialmente due modi di accostarsi ai problemi di esposizione.
Il primo è funzionale all'ottenimento di un'immagine leggibile. Lo scopo di chi fotografa è in questo caso quello di ottenere una diapositiva, un file o una stampa in cui i valori tonali siano correttamente bilanciati e soprattutto dove le parti importanti (che lo spettatore ritiene importanti) del soggetto siano perfettamente distinguibili. A questa esigenza fanno fronte gli esposimetri esterni ed interni che misurano in vari modi la luce riflessa dai diversi elementi della scena inquadrata.

Questi strumenti vengono prevalentemente utilizzati come metodi conoscitivi: il fotografo, in altre parole, usa l'esposimetro per determinare quale sia la "corretta esposizione", cioè per conoscere la coppia tempo-diaframma più idonea a fornirgli un'immagine che altri (e cioè i suoi spettatori) potranno agevolmente leggere. In pratica, lui lavora per fornire al destinatario del suo messaggio ciò che ritiene che il destinatario voglia vedere. In questo modo si fanno le cartoline e i calendari illustrati. Con dei rischi, derivanti dal fatto che in una percentuale estremamente elevata di occasioni fotografiche (e cioè tutte le volte che il soggetto non sia illuminato quasi frontalmente da un bel sole smagliante contro un bel cielo azzurro) gli esposimetri possono fornire indicazioni inattendibili. Anche quelli dell'ultimissima generazione che – in quanto macchine – sono fondamentalmente stupidi.

Esiste un secondo approccio ai problemi di esposizione, che nasce da un'attitudine mentale completamente diversa. L'approccio al problema avviene da un punto di vista del tutto opposto al primo; la questione non è più incentrata sul destinatario del messaggio (o meglio sull'immagine mentale che il fotografo se ne è fatta), ma fa perno sul fotografo e su ciò che effettivamente lui vuole comunicare. È una scelta di fondo che presuppone una filosofia del fotografare del tutto differente dalla prima. Ed è forse ciò che distingue l'artista (che esercita liberamente la propria creatività) dall'abile artigiano (che attua con competenza procedure standardizzate e in larga misura prevedibili).

Occorre innanzitutto partire dal presupposto che la "corretta esposizione", intesa in senso assoluto, non esiste. Questo perché lo stesso soggetto può assumere significati diversi a seconda di come viene letto, interpretato e quindi esposto. In altre parole, per ogni soggetto esiste una quantità virtualmente infinita di esposizioni possibili, ognuna delle quali è in grado di raccontare qualcosa di peculiare e caratteristico, di mettere in risalto un aspetto dell'inquadratura, di comunicare allo spettatore a quale elemento della scena il fotografo ha voluto attribuire la maggiore importanza.

Un esempio semplice chiarirà meglio il concetto. Ci troviamo in un bosco, dove larghe zone d'ombra si alternano a macchie di luce quasi accecante dovute ai raggi del sole che filtrano attraverso il fogliame. Come ci dobbiamo comportare? Una certa manualistica ancora diffusa tra i dilettanti suggerisce, in casi come questo, di effettuare la media esposimetrica dei due valori estremi rilevati: sarebbe come dire che un uomo con la testa nel forno e i piedi nel congelatore gode di una temperatura media ottimale. In realtà nessun sistema di acquisizione (chimico o digitale che sia) possiede una latitudine di posa così elevata da registrare correttamente un simile scarto tonale (pari e talvolta superiore ai 10 EV), per cui "fare una media" non avrebbe senso: avremmo comunque alte luci ancora troppo chiare e ombre ancora troppo scure. Insomma, non è possibile ottenere un'immagine nella quale tanto le alte luci quanto le ombre risultino perfettamente leggibili.

Che fare, allora? Evidentemente bisogna scegliere: o si attribuisce maggiore importanza alle zone d'ombra, lasciando alle alte luci (fortemente sovraesposte) uno spazio minimo, oppure si espone per mettere in risalto le zone illuminate, lasciando che le ombre appaiano totalmente nere e minimizzando quindi lo spazio da esse occupato. Le immagini che ne risulteranno saranno tra loro differenti non soltanto dal punto di vista tonale, ma anche dal punto di vista compositivo. Si noti che la scelta esposimetrica è in questo caso del tutto arbitraria: è il fotografo a decidere come esporre, consapevole che le immagini ottenute applicando l'uno o l'altro metodo non solo risulteranno completamente diverse, ma soprattutto diranno cose completamente diverse. Il concetto fondamentale, che solitamente sfugge al principiante, è che la quantità di luce che giunge alla pellicola non costituisce un parametro assoluto, dipendente in maniera meccanica dalla quantità di luce riflessa dal soggetto (e pertanto misurabile), ma è una scelta espressiva. E in quanto tale non si misura. Si decide.Il fotografo, in altre parole, sceglie quanta luce dare ai diversi elementi della scena, per ottenere un'immagine che lui, e non altri, ritiene la più idonea a veicolare un ben preciso messaggio, non perché condizionato da un esposimetro, ma perché guidato dalla sua creatività.

Questo vuol dire, nella pratica fotografica, che la coppia tempo-diaframma decisa dall'esposimetro deve sempre (sempre, non solo in caso di controluce o di condizioni difficili) essere sottoposta a revisione e adattata alle esigenze di comunicazione del fotografo.

Questo approccio all'esposizione trova le sue maggiori applicazioni nella fotografia fine art ed ha la sua massima espressione nel sistema zonale, teorizzato da Ansel Adams e volgarizzato, fra gli altri, da Zakia e Todd.

Il sistema zonale non è che un medito rigoroso e – se vogliamo – "scientifico" per ottenere una stampa in bianco e nero esattamente corrispondente all'immagine che il fotografo aveva "previsualizzato" prima della ripresa. Ovviamente la stampa non potrà mai restituire il contrasto "reale" percepito dall'occhio umano in termini di differenza di luminosità; tuttavia potrà "tradurre" in differenze fra toni di grigio la grande variabilità dei toni che noi percepiamo.I toni di grigio sono determinati dalla quantità di argento metallico presente sull'emulsione e capaci di annerirsi: si va da un massimo annerimento, in cui tutti i cristalli sono stati colpiti dalla luce e quindi anneriti, a un minimo annerimento, quando i cristalli colpiti dalla luce sono pochissimi e pertanto l'area risulta trasparente.Questi sono i due toni limite, in mezzo ai quali vi è una serie infinita di grigi intermedi. Questa è la scala tonale continua.Tuttavia, poiché lo scopo del sistema zonale è arrivare a un controllo preciso dei toni di grigio riproducibili in stampa, per semplificare la procedura Ansel Adams pensò di suddividere la scala tonale in dieci aree, o zone, intervallate fra loro di uno stop. Quella che vedi qui è la scala zonale completa.Ovviamente la suddivisione in zone è soltanto una comodità, che però si rivela molto utile all'atto pratico.Come vedi si va dalla zona 0 (nero assoluto) alla zona X (bianco assoluto). La zona V è il famoso grigio medio al 18% di cui abbiamo già parlato.

Bisogna dire innanzitutto che il sistema zonale trova la sua completa applicazione solo quando si lavora su pellicole piane, o lastre, che sono sviluppabili singolarmente.

Tuttavia anche chi lavora con pellicola in rullo (e quindi non può applicare in pieno il sistema zonale) è in grado di ottenere il massimo vantaggio da questo nuovo modo (nuovo soprattutto per il dilettante) di affrontare il problema. L'esposimetro non verrà più usato come strumento conoscitivo ma come conferma dei dati derivanti dall'esperienza e finalizzati a ben precise scelte creative. La domanda fondamentale non sarà più "Qual è la corretta esposizione per questo soggetto?", ma bensì "Che valore intendo attribuire ai rapporti tonali?" E conseguentemente "Dove voglio far cadere il grigio medio?". È qui che entrano in gioco la creatività e la sostanziale arbitrarietà della scelta espressiva, che fa della fotografia un vero e proprio codice comunicativo, composto da segni caratterizzati da quelle che sono le caratteristiche peculiari del segno (inteso dal punto di vista saussuriano): l'arbitrarietà in primo luogo. Là dove ho deciso di collocare il grigio medio (paradossalmente potrebbe essere anche la neve, o per contro una zona di ombra profonda) effettuerò la misurazione esposimetrica, certo del fatto che l'esposimetro è tarato per restituire sempre e comunque un grigio al 18%, quale che sia il tono originale del soggetto. L'uso di un esposimetro spot separato è ovviamente irrinunciabile, anche perché – dopo questa prima fase – occorrerà individuare le rimanenti zone della scala, effettuando su ciascuna di esse una misurazione separata. Perché? Semplicemente per verificare di quanto ogni zona misurata si discosta dal grigio medio, allo scopo di evitare che elementi ritenuti importanti risultino scarsamente leggibili. Esempio: decido di rendere con il grigio medio l'erba del pascolo: effettuo pertanto l'esposizione sull'erba, decidendo quindi di farla cadere nella zona V (grigio medio al 18%). Tuttavia voglio anche rendere leggibile la neve che ricopre i ghiacciai sullo sfondo, restituendone i giochi di luce ed ombra e la texture superficiale. Misuro quindi la neve e scopro che essa andrebbe a cadere nella zona IX: troppo chiara, addio texture superficiale! Se lavoro con pellicola in rullo, e non con pellicole piane sviluppabili singolarmente, non posso applicare pienamente il sistema zonale. Non mi rimane perciò che decrementare l'esposizione di uno stop: il prato cadrà nella zona IV, rimanendo ancora leggibile, anche se più scuro, mentre la neve, in zona VIII, rivelerà maggiori particolari. Se invece lavoro su pellicole piane, posso cercare di comprimere la scala diminuendo i contrasti. Per fare questo sovrespongo di uno o due stop in fase di ripresa, per poi sottosviluppare in fase di trattamento (fig. 62).

Era un esempio banale (in realtà il procedimento è più complesso), ma forse sufficientemente significativo, dell'importanza che il fotografo dovrebbe attribuire alla valutazione dell'esposizione, troppo spesso lasciata all'arbitrio dei circuiti elettronici.

Non si insisterà mai abbastanza sull'utilità di un esposimetro separato capace di lettura riflessa spot e di lettura della luce incidente.

Con un esposimetro di questo genere la procedura corretta prevede i seguenti passaggi.
  1. Si misura la luce incidente e si prende nota dei valori rilevati;
  2. Si individua, all'interno dell'area di interesse, la zona corrispondente al grigio medio (che si vuole rendere col grigio medio) e si effettua su di essa una misurazione spot. Si confrontano i dati rilevati con quelli derivati dalla misurazione in luce incidente effettuata in precedenza. Se i dati non coincidono si prende mentalmente nota dello scarto tonale;
  3. Si individuano (a occhio, in base all'esperienza) gli elementi della scena che corrispondono alle rimanenti aree della scala zonale. Se esistono elementi che cadono nelle zone estreme (nero profondo o bianco assoluto) si verifica che non si tratti di centri di interesse significativi e si inquadra minimizzando la loro importanza (o addirittura tagliandoli fuori). Questa regola ha evidentemente delle eccezioni: a volte si vuole che il soggetto principale, illuminato, emerga dall'oscurità o si stagli contro uno sfondo completamente nero;
  4. Se la misurazione sul grigio medio in luce riflessa sarà risultata diversa dalla misurazione in luce incidente, si valuta lo scarto e si decide se tenerne conto in termini di incremento o diminuzione del contrasto (ovviamente quando si lavora con pellicole piane).
I guai iniziano quando nell'inquadratura esistono elementi, che il fotografo ritiene importanti, la cui differenza di brillanza (cioè lo scarto tonale) supera i limiti della latitudine di posa della pellicola. Se si ha un elemento chiaro in zona VIII (ad esempio la neve) e un elemento scuro in zona II (ad esempio l'ombra di un albero), lo scarto tonale (sei stop!) potrebbe superare la latitudine di posa dell'emulsione in uso. Perciò non c'è scampo: esponendo in modo da rendere leggibili i particolari in ombra sicuramente la neve risulterà "bruciata"; se invece si espone in modo da rendere leggibile la struttura superficiale del manto nevoso, sicuramente le ombre appariranno nere e illeggibili.

La soluzione c'è, ed è quella di sovresporre in fase di ripresa per poi sottosviluppare in fase di trattamento. Una sovraesposizione di due stop e un sottosviluppo N –2 (come scriveva Adams) permetterà di ammorbidire il contrasto rendendo leggibili tanto le ombre quanto le alte luci. Una stampa su carta morbida potrà ulteriormente giovare.

Ovviamente è anche possibile decidere di "indurire" il contrasto, soprattutto quando la scarsità di luce ambiente spegne i toni e li uniforma. In questo caso si ricorre all'espediente di "tirare" la pellicola, sottoesponendo in fase di ripresa per poi sovrasviluppare in camera oscura. ne consegue un aumento del contrasto e un - non sempre sgradevole - aumentod ella grana, direttamente proporzionale alla durata dello sviluppo.

Questo spiega perché l'applicazione completa del sistema zonale richiede l'uso di pellicole piane: la pellicola piana, sviluppabile singolarmente, è l'unica che consente la variazione dei tempi di sviluppo fotogramma per fotogramma. Se si lavora su pellicola in rullo e si desidera sovresporre e sottosviluppare un singolo fotogramma, basta lasciare qualche scatto a vuoto (con il tappo sull'obiettivo) prima e dopo e annotare il numero che compare sul contafotogrammi. Consegnandoi la pellicola al laboratorio si comunicherà anche il numero del fotogramma che necessita di sviluppo variato: la pellicola sarà tagliata in quel punto (con tranquillità, dato i fotogrammi neri prima e dopo consentono un buon margine di errore) e svilupperanno separatamente il negativo.

Purtroppo va detto che oggi sono molto pochi i laboratori che accettano di eseguire un lavoro del genere: la standardizzazione delle procedure ha portato con sé vantaggi, ma anche svantaggi. Ormai esistono laboratori dove nemmeno più si sa che cosa sia uno sviluppo variato. Per cui i casi sono due: o ci si rivolge a uno stampatore professionale, oppure si provvede in proprio al trattamento dei negativi.

Finora abbiamo parlato di pellicola. C'è chi pensa che il digitale abbia di fatto superato il sistema zonale: una procedura che ormai non ha ragione di essere. Magari andava bene ai tempi di Adams, ma oggi non ha più senso. In realtà il sistema zonale va considerato – più che un semplice sistema di sviluppo e stampa – come una "filosofia" del fotografare. Nella sua prima parte, quella della ripresa, esso conserva tutta la sua validità anche quando si lavora con pellicola in rullo o con un sensore digitale. La scelta del soggetto, dell'illuminazione e dell'esposizione corretta è già sistema zonale, e merita un'attenzione ben più approfondita di quella che normalmente il fotografo (anche esperto, purtroppo) le dedica. Certo, è possibile effettuare una frettolosa misurazione esposimetrica attraverso l'obiettivo (o, peggio ancora, fare una media matematica fra i valori rilevati sulle alte luci e sulle ombre rispettivamente) oppure si può decidere, al contrario, dove far cadere l'area del grigio medio, verificando poi il corretto bilanciamento di tutte le altre aree dell'immagine. Si tratta di due approcci completamente diversi alla fotografia: il primo è approssimativo e genera immagini in qualche modo riuscite ma certamente non corrispondenti a ciò che il fotografo si aspettava (la "previsualizzazione" di cui parla Adams); il secondo è un metodo di lavoro in grado di trasferire un'idea su un supporto sensibile. Ilprimo sistema porta alla cartolina illustrata, il secondo comunica il mondo interiore del fotografo e l'intimo rapporto che esso ha saputo instaurare con il soggetto.

Lavorando in grande formato esistono altri metodi di misurazione, estremamente raffinati, che consentono un grado di precisione ancora superiore a quello ottenibile con un esposimetro spot separato. Stiamo parlando delle sonde esposimetriche capaci di misurare direttamente sul vetro smerigliato.

La comodità d'uso è massima: la cornice entro cui si muove la sonda viene inserita nel dorso come un normale châssis. La sonda può essere posizionata con precisione su ogni punto dell'inquadratura durante la visione sul vetro smerigliato: una vera e propria lettura TTL multispot (le cui aree, virtualmente infinite, sono decise di volta in volta dal fotografo) che tiene ovviamente conto della presenza di filtri e della caduta di luce dovuta ad eventuali incrementi del tiraggio. Grazie a strumenti di questo genere l'applicazione del sistema zonale diventa rapida e agevole: a titolo di curiosità, ricordiamo che lo stesso Ansel Adams utilizzava un Weston Ranger 9. Gli esposimetri a sonda prodotti negli anni Settanta sono ancora perfettamente funzionanti, anche se recentemente l'adozione di microchip e display a cristalli liquidi ne ha reso ancor più facile l'uso.

Esporre per la pubblicazione
Chi realizza fotografie destinate ad essere stampate su carta (ad esempio, chi lavora per l'editoria o la pubblicità), deve poi tenere conto di un'ulteriore complicazione. Se infatti una diapositiva può presentare una gradazione tonale che si estende fino a sei stop, una stampa su carta non supera di solito i quattro stop di differenza fra ombre e alte luci. Quando l'immagine fatta di alogenuri d'argento o di pixel diventa immagine fatta di inchiostro per stampa, la gamma tonale va a farsi friggere.

Questo spiega perché una diapositiva che appare così ricca quando la si osserva sul visore diventa così scialba e insignificante una volta stampata sulla rivista. Ad aggravare le cose c'è il fatto che tra la diapositiva originale e la stampa tipografica c'è di mezzo un fotolitista, che di fatto decide quale parte di informazione debba restare e quale andare perduta. Insomma, un personaggio estraneo alla realizzazione della fotografia che decide, arbitrariamente, come trattare il lavoro del fotografo.

Per evitare questi inconvenienti, occorre agire su due fronti. Innanzitutto, in fase di esposizione bisognerebbe fare in modo che tutti i centri di interesse più significativi rimangano compresi entro una gamma tonale non superiore ai quattro stop. In altre parole, dopo aver determinato la zona del grigio medio, occorre controllare che la zona più chiara con dettagli leggibili e la zona più scura con dettagli leggibili cadano entro un range non superiore ai quattro stop, tenendo conto del fatto che le zone che eccedono questi valori verranno rese, rispettivamente, come luci bruciate o ombre prive di dettaglio. Non basta: bisogna poi indicare al fotolitista quali sono i dettagli importanti (che quindi vanno lasciati) e a quali zone prestare la maggiore attenzione durante la realizzazione del fotolito. Per farlo, si può realizzare una copia Polaroid della diapositiva, o ritagliare un pezzo di pellicola trasparente da sovrapporre alla diapositiva, con su scritte le indicazioni del caso (soprattutto la zona del grigio medio).

High key e low key
Letteralmente, "chiave bassa" e "chiave alta". I due termini sono spesso usati come sinonimi, rispettivamente, di "foto scura" e "foto chiara", ma le cose non stanno affatto così.
Nella fotografia low key prevalgono i toni scuri, le ombre sono profonde, i colori saturi e il contrasto elevato. Il low key è adatto a scene drammatiche e intense, quando si vogliono comunicare emozioni forti.
L'illuminazione è prevalentemente decisa e fortemente direzionale, con contrasti elevati tra zone illuminate e zone in ombra.
La fotografia high key è caratterizzata da toni chiari e colori pastello, con contrasto limitato. Sono immagini sognanti ed eteree. E' una tecnica poco usata nel paesaggio, adatta soprattutto al ritratto femminile e al nudo, quando si voglia trasformare la modella in una creatura di luce.
In quest'ultimo caso è consigliabile evitare l'illuminazione direzionale, privilegiando un'illuminazione morbida, diffusa e avvolgente.

Michele Vacchiano © 09/2008
Riproduzione Riservata