IL PUNTO SULLA COMPOSIZIONE
Michele Vacchiano, novembre 2001

Che cosa significa "comporre" un'immagine? Hanno (ancora) senso l'incrocio dei terzi, il contrasto di masse, la prospettiva lineare? E soprattutto, perché bisogna disporre gli oggetti nell'inquadratura in un modo piuttosto che in un altro? Chi lo ha deciso? Si tratta di convenzioni oppure di leggi ferree? E fino a che punto è consentito violarle? Michele Vacchiano cerca di mettere ordine, con questo lungo intervento, in una materia mal conosciuta dai dilettanti e troppo frettolosamente liquidata dai manuali di fotografia.

Il bianco e nero, quasi privo di sfumature di grigio intermedio, mette in risalto la struttura della composizione, giocata sul rapporto tra primo piano (il torrente) e sfondo (la montagna). La linea prospettica del torrente regala all'immagine la necessaria tridimensionalità.

Anche in questo caso la linea prospettica del torrente conduce l'attenzione dello spettatore verso il soggetto principale (il Gran Paradiso) sormontato dalla luna. L'andamento generale della composizione disegna una L, come è evidenziato dalle linee bianche.

Anche qui siamo in presenza di una composizione a L, però in formato quadrato. Alla candida vetta del Breithorn orientale fa da contrappunto, in un contrasto di masse e di posizione, la roccia in basso a destra che segna la fine della cresta ghiacciata.

Composizione obliqua che imprime forza e drammaticità alla scena. Un ragno tomiside, mimetizzato su una margherita, è fotografato nell'istante preciso in cui cattura un insetto impollinatore, incautamente posatosi sul fiore. Il corpo del predatore è situato in prossimità di uno degli incroci dei terzi, in posizione decentrata rispetto al fotogramma.

Composizione simmetrica nel formato "quasi quadrato" 4x5". La natura del soggetto richiedeva un'inquadratura rigorosamente centrale.

Fienile di tronchi. La suddivisione in terzi evidenzia l'alternanza dei volumi e delle testure superficiali.

La sensualità che emana da quest'immagine deriva non soltanto dalla forma dell'orchidea, ma anche dalla testura superficiale messa in risalto da un'illuminazione parzialmente radente e dalla disposizione degli elementi significativi (il petalo interno, di colore bianco, e le goccioline d'acqua) lungo le linee di forza.

Composizione in orizzontale nel formato 4x5". La divisione in terzi scandisce tre aree ben precise: l'area del primo piano, l'area del primo sfondo (le montagne innevate) e infine l'area del cielo. A unire idealmente le tre aree unificando la composizione le figure verticali dei larici, la più importante delle quali situata in prossimità di una delle linee di forza.

Composizione orizzontale nel formato 4x5". Anche in questo caso la scansione in terzi delimita tre aree ben precise: un primo piano drammaticamente presente e nitido grazie al basculaggio in avanti della piastra portaottica; un piano intermedio con effetto prospettico e lo sfondo (la vetta del Gran Paradiso). La linea della dorsale è situata in prossimità della linea di forza superiore.

Il soggetto in primo piano è situato lungo una linea di forza, mentre la vetta della montagna sullo sfondo è vicina a uno degli incroci dei terzi. La dorsale scura con andamento obliquo unisce il terzo superiore (occupato dalle montagne innevate e dal cielo) a quello intermedio.

Composizione simmetrica giocata sui riflessi. La montagna e il suo riflesso giacciono lungo linee di forza contrapposte, mentre le linee verticali passano esattemente per le due vette principali del massiccio.

Composizione a X, caratterizzata dal drammatico impatto visivo del primo piano, nitido grazie al basculaggio in avanti della piastra portaottica. La prospettiva del torrente invita l'attenzione dello spettatore a soffermarsi sui due larici, centro geometrico e visivo dell'intera composizione.

La suddivisione in terzi orizzontali evidenzia l'alternanza dei tre distinti piani dell'immagine.

Composizione a L in formato quadrato. La forte resa prospettica, esaltata dall'uso di un grandangolare, regala all'immagine una notevole tridimensionalità.

Il lago del Miage e l'Aiguille Noire de Peutérey in formato quadrato. Anche in questo caso la scansione in terzi evidenzia con chiarezza le suddivisioni della scena e i soggetti situati in posizione preminente.

Le rovine della cappella del castello di Graines. Composizione centrale, scandita in verticale dalla suddivisione i terzi perfetti: il primo piano costituito dall'erba illuminata dal sole (e schiarita con un filtro verde); il corpo principale della costruzione, con i mattoni nitidi e definiti (il grande formato del fotogramma permette di contarli ad uno ad uno); La parte superiore costituita dai resti della cella campanaria che si stagliano contro il cielo.

La suddivisione in terzi scandisce il corpo della bella alpinista, evidenziandone gli elementi principali. La maggior parte dell'informazione è concentrata nella parte alta per attirare l'attenzione sui seni e sul grosso moschettone appeso al collo come un insolito ciondolo.

Anche se il formato è insolito la composizione deve avere un suo respiro. Se proviamo a suddividere in terzi questa immagine, scattata nel formato 6x12 cm, vediamo che tanto in orizzontale quanto in verticale le tre sezioni in cui è suddiviso il fotogramma scandiscono aree ben precise. In verticale abbiamo un'area in basso più scura che dà profondità alla scena, un'area centrale con il soggetto principale (il gruppo del monte Avic), e infine l'area del cielo. In orizzontale, un larice in primo piano che funziona da quinta naturale, il soggetto principale costituito dalla vetta innevata e infine un'area meno importante dal punto di vista informativo, che tuttavia dona equilibrio ed armonia alla scena.

Parlare di composizione fotografica può essere facile o difficile. E' facile se ci si accontenta delle solite nozioncine imparaticce che gli autori di molti manuali copiano l'uno dall'altro; è difficile se si parte da un punto di vista "scientifico", cioè semiologico, e si cerca di analizzare compiutamente i fenomeni della comunicazione visiva.

In questo articolo, già di per sé lungo, cercheremo di evitare un linguaggio da addetti ai lavori, astenendoci dall'affrontare il problema con la profondità che meriterebbe. In altre parole, salteremo a piè pari le premesse teoriche per arrivare subito alla loro applicazione pratica. Chi tuttavia volesse approfondire l'argomento potrà trovarne un approccio divulgativo alla pagina "La luce, il segno", sul mio sito www.michelevacchiano.com, ed un approccio decisamente più specialistico consultando il mio saggio L'ordine apparente ("Quaderni di ricerche semiotiche", n. 4, febbraio 1992).

Tuttavia, per evitare di dare per scontati i concetti preliminari, col rischio di rendere il tutto incomprensibile, procederemo per gradi e seguiremo la genesi e la formazione dell'opera fotografica fin da quando essa inizia a prendere forma nella mente dell'autore. Possiamo in questo modo individuare una decina di punti chiave e svilupparli analizzandoli ad uno ad uno.

Avere qualcosa da dire
Non sembri inutile o pedante questo primo punto: troppe fotografie (non solo di dilettanti) inducono il destinatario a chiedersi perché esse siano state scattate. L'assenza di un soggetto e di un qualsiasi punto di interesse fa sì che certe immagini siano ridotte a puro rumore non strutturato: il disordine regna sovrano, né esiste un codice riconoscibile capace di affidare un qualche significato alle figure. Questo accade, il più delle volte, perché un soggetto che sembrava interessante e fotogenico all'osservazione dal vivo risulta poi del tutto insignificante una volta fissato sulla pellicola. Non ci si è resi conto che l'occhio (o meglio il cervello) umano e la fotocamera "vedono" la realtà in modo assai diverso. La prima condizione indispensabile è quindi...

Saper "vedere fotograficamente"
La felice espressione coniata da Andreas Feininger è talmente appropriata da aver meritato di entrare definitivamente nel lessico fotografico. Vedere fotograficamente significa innanzitutto rendersi conto che il medium fotografico e il nostro cervello vedono la realtà in maniera del tutto differente, al punto che scene apparentemente gradevoli se osservate direttamente appaiono poi prive di significato una volta tradotte in comunicazione visiva su un supporto bidimensionale. Ma soprattutto vedere fotograficamente significa essere in grado di cogliere, nel disordine del reale, gli elementi essenziali di una composizione fotografica. Purtroppo non esistono regole o procedure che permettano di affinare il proprio "occhio fotografico"; del resto, "se si potessero comporre dei quadri in base a delle norme, Tiziano e Veronese sarebbero gente qualunque" (Ruskin).

È tuttavia possibile imparare a prestare sempre maggiore attenzione non tanto all'insieme della scena, quanto ai singoli particolari, esplorando minuziosamente ogni angolo dell'inquadratura. Fissare la macchina su un cavalletto aiuta, almeno per le prime volte, ma soprattutto aiuta imparare a fotografare con una macchina di grande formato. La complessità delle operazioni necessarie per fotografare costringe a concentrarsi sulla qualità di immagine e sulla composizione, più che non sulle suggestioni extrafotografiche le quali - spesso - invogliano il dilettante a catturare un momento magari emotivamente connotato, ma di per sé incapace di venire tradotto dalla pura e astratta bidimensionalità della fotografia.

L'immagine che si forma sul vetro smerigliato appare capovolta e con i lati invertiti, accentuando le linee, le forme, i valori tonali e i colori in una limpida astrattezza capace di rendere chiari e immediatamente percepibili i puri parametri fotografici, senza le distrazioni derivanti dalla visione diretta del soggetto. L'ampia area di visione (10x12 cm o superiore) invita l'occhio ad esplorare l'intera composizione, notando ogni minimo particolare, ogni scarto nei valori tonali. Il mondo che sta al di fuori della composizione (quel mondo che non compare nell'inquadratura ma che spesso spinge il dilettante a scattare una fotografia che si rivelerà impietosamente banale) è rigidamente tagliato fuori: tutto ciò che esiste è quell'insieme astratto di linee e toni sul quale lavorare con geometrica precisione. Se riusciremo ad applicare anche alla reflex il modo di procedere proprio del grande formato (questo significa rinunciare all'istantanea rubata e fermarsi a pensare a quello che si sta facendo), allora avremo imparato a vedere fotograficamente.

La considerazione funzionale del soggetto
Una volta inquadrata mentalmente la "fetta" di realtà che si vuole tradurre in comunicazione visiva, è necessario isolarvi gli elementi ai quali attribuire valore di segno. Soprattutto si sceglierà l'elemento principale cui affidare il compito di farsi portatore dell'informazione, e cioè il soggetto principale. Questo andrà considerato come funzionale nei confronti del messaggio, e pertanto trattato in modo da caricare su di esso tutta la forza della comunicazione.

L'atteggiamento col quale il fotografo si avvicina al soggetto è, in quest'ottica, fondamentale: la riuscita della fotografia dipende in prima analisi dall'approccio preliminare, dal rapporto - emotivo, intellettivo, culturale - che l'emittente è riuscito a stabilire con la realtà che intende tradurre. Un rapporto che richiede un esame attento, un'analisi visiva seria e meditata. I turisti che scattano foto ricordo dall'autobus in corsa sono, per l'appunto, turisti e non fotografi. Il fotografo, al contrario, pone particolare attenzione non soltanto all'inquadratura, al gioco delle luci e all'uso delle focali più adatte, ma anche a tutti quegli elementi che concorreranno alla composizione finale (l'"approccio globale" di Feininger).

Considerare funzionalmente il soggetto significa in definitiva interrogarsi sulla sua efficacia informativa ai fini del messaggio, un'efficacia correlata non soltanto al soggetto in quanto tale, ma anche a fattori ad esso estranei, quali ad esempio il tipo di pubblico al quale il messaggio è destinato e - di conseguenza - l'atteggiamento che questo pubblico potrebbe manifestare nei confronti della fotografia. Ma è anche essenziale che l'emittente analizzi il proprio personale rapporto emotivo con il soggetto: immagini che per noi sono emotivamente connotate possono risultare totalmente prive di significato per il destinatario. Le fotografie dei nostri figli sono per noi belle ed emozionanti, perché siamo abituati a guardarle con l'occhio acritico del genitore (il quale oltretutto ci induce a riversare sull'immagine i contenuti emozionali che assegnamo agli originali), ma di solito ben poche di esse sono ritenute belle e gradevoli da uno spettatore emotivamente non coinvolto. Lo stesso discorso vale per un paesaggio al quale ci legano connotazioni di carattere extrafotografico: un ricordo, un'allusione, un'analogia; e ancora i suoni, i profumi, lo stato d'animo del momento. Sarà dunque necessario che il fotografo riesca a distinguere nettamente fra le caratteristiche compositive proprie del soggetto e le connotazioni di carattere personale e soggettivo. Se, compiuta questa operazione, riterrà ancora possibile riuscire a trasmettere la sua personale visione del soggetto, sarà in grado di farlo con le idee chiare e con la consapevolezza dei propri scopi.

L'approccio al soggetto
Sul rapporto che lega il fotografo al soggetto ci sarebbe molto da dire, soprattutto se si considera come la maggior parte dei fotoamatori tende a porsi nei confronti di ciò che fotografa. Non occorre accompagnare le comitive di visitatori lungo i sentieri di un parco nazionale per accorgersi di quanta cultura predatoria inquini l'attività fotografica: del resto abbiamo già parlato della caccia fotografica come sublimazione della caccia cruenta, evidenziando quanto un simile atteggiamento risulti nocivo per una considerazione della fotografia come fatto comunicativo. In realtà, se l'approccio al soggetto non è mistificato né da superficiali e razzistici paragoni con la caccia né dall'antropomorfizzazione cui ci hanno abituati i documentari di Walt Disney, il fotografo si trova ad instaurare con esso un rapporto dialettico, che lo costringe a "dialogare" con un'altra vita, con un'altra esperienza. Non è più l'animale selvatico da temere, da sfruttare o da uccidere per divertimento, ma una manifestazione della natura per cui provare rispetto, a cui chiedere di avere fiducia, dopo secoli di caccia e sfruttamento, nella nostra essenza umana.

La fatica dell'avvicinamento e la pazienza dell'attesa, lungi dall'aumentare il valore della fotografia (il cui dovere è quello di parlare da sola, grazie alla pregnanza comunicativa delle immagini) predispongono l'animo all'intensa emozione dell'incontro. Si instaura così un colloquio senza inutili parole, fino alla totale identificazione (vorrei usare "compassione", se fosse ancora valida la sua accezione etimologica) del fotografo con il soggetto. Un soggetto che non soltanto dev'essere conosciuto per venire fotografato, ma che essendo fotografato viene conosciuto e tradotto in comunicazione visiva. Quei brevi istanti durante i quali il fotografo ed il soggetto sono una cosa sola, durante i quali la mente e il mondo, chi osserva e la realtà osservata, si identificano, possono essere paragonati soltanto alla profonda concentrazione degli arcieri zen, per i quali la mente, la freccia e il bersaglio divengono - durante un solo attimo - un'unica realtà. Sono questi momenti a fare della fotografia (e della fotografia naturalistica in particolare) un'attività definitiva e coinvolgente, dalla quale diventa impossibile recedere.

Un altro esempio di ciò che intendiamo per "corretto approccio al soggetto" è costituito dalla fotografia di architettura. Contrariamente al dilettante, che quando si trova in una città d'arte fotografa di tutto e in modo convulso, senza curarsi di nulla se non di portare a casa qualche ricordo visivo, il professionista considera innanzitutto che ogni edificio costruito dall'uomo ha una sua funzione specifica: abitare, lavorare, adorare la divinità, esercitare il potere, gestire il tempo libero. E' quindi essenziale che il fotografo sappia innanzitutto come mettere in luce queste caratteristiche. L'edificio o il monumento vanno studiati sotto differenti angolazioni, ma soprattutto sotto diverse luci: gli architetti, infatti, decisero di edificare in un certo luogo (dandogli un preciso orientamento) un palazzo caratterizzato da una ben precisa forma e da una ben precisa struttura superficiale proprio perché conoscevano il percorso del sole durante la giornata, sapevano sfruttare i giochi di luce e prevederne gli effetti sui volumi architettonici. Fotografare l'architettura non è come fotografare il paesaggio: non si tratta di interpretare e codificare una realtà naturale, e quindi di per se stessa disordinata, ma di reinterpretare un codice iconico. Il fotografo di architettura studia pertanto la struttura dell'edificio e la sua collocazione nell'ambiente, alla ricerca del codice utilizzato dall'architetto per comunicare attraverso la sua opera. Dopo che, come destinatario, il fotografo avrà decodificato correttamente il messaggio architettonico, allora - e solo allora - potrà mettersi nella condizione di emittente per tradurre (transcodificare) questo messaggio in una comunicazione di tipo fotografico. Particolare attenzione va posta sull'ambiente nel quale l'edificio è immerso: se correttamente conservato (il discorso non vale per le cappelle romaniche soffocate tra i grattacieli) esso può dirci molto sull'opera dell'architetto. Andrea Palladio sapeva bene che le linee classicheggianti delle sua ville sul Brenta avrebbero tratto forza ed efficacia dal contrasto con la dolce campagna circostante: si tratta di scelte espressive che costituiscono parte integrante del messaggio architettonico e vanno pertanto considerate con attenzione.

Un ultimo esempio riguardante l'approccio al soggetto può essere fatto citando un altro genere fotografico assai praticato anche a livello amatoriale: il ritratto. Qui l'atteggiamento predatorio del fotografo affamato di immagini tocca i suoi livelli più inquietanti. Chi è già stato al Photoshow non ha potuto non notare quanto i fotoamatori maschi si affannino ad immortalare qualunque presenza femminile si frapponga fra loro e lo sfondo. Non soltanto vengono bersagliate di flash e zoom le modelle che si agitano a ritmo di rock nei vari stand a tale scopo allestiti, ma vengono anche fotografate, più o meno di nascosto, le signorine che distribuiscono materiale illustrativo, le espositrici delle varie ditte, le impiegate dell'ufficio informazioni, senza contare le persone che fanno parte del pubblico, purché ragionevolmente giovani e di sesso opposto. Immagini rubate in mezzo alla folla che con il ritratto - e ancor più con il glamour - non hanno nulla a che vedere. Si pensi invece per un momento a quanto lavoro ci sia dietro a un ritratto (o a una fotografia di moda o di nudo) eseguito da un professionista, e a quale rapporto leghi quest'ultimo con la modella. Un rapporto mistificato da pregiudizi ignoranti o mitizzato da una pubblicistica idiota (di cui il mensile per adolescenti "Top models" costituì l'esempio più illustre), ma fatto in realtà di professionalità e competenza, di un feeling che va ben al di là dei facili ammiccamenti (tanto stupidi quanto infondati), fatto di comprensione, di stima reciproca e di fiducia professionale.

Ecco, abbiamo citato tre generi (la fotografia della natura, la fotografia architettonica, il ritratto) come esempio di ciò che si intende con l'espressione "approccio al soggetto". Soltanto se questo rapporto iniziale sarà impostato correttamente diventerà possibile, per il fotografo, trattare il suo soggetto in modo tale da farne il portatore dell'informazione.

Il rapporto funzionale fra soggetto e sfondo
Un oggetto viene percepito tanto più chiaramente dall'osservatore quanto più è messo in risalto rispetto all'ambiente che lo circonda. In fotografia l'oggetto della percezione è il soggetto principale, mentre l'ambiente circostante è lo sfondo: Il soggetto può essere costituito da una figura singola, ma anche da un gruppo di figure simili o correlate fra loro (che la nostra capacità interpretativa congloba in una figura unitaria), o ancora da un insieme di elementi riuniti a formare un centro di interesse. Il soggetto può anche occupare l'intero fotogramma: in questo caso manca lo sfondo o - se si preferisce - soggetto e sfondo coincidono. Per quanto riguarda lo sfondo, è importante sottolineare come per "sfondo" si intenda tutto ciò che circonda il soggetto, il suo ambiente, e non esclusivamente ciò che gli sta dietro. Il nostro sistema percettivo non è capace di leggere contemporaneamente figura e sfondo, come dimostrano le figure di Rubin: l'attenzione passa rapidamente e in tempi successivi dall'uno all'altro elemento. Ne consegue che quanto più netta ed univoca risulta essere la distinzione tra soggetto e sfondo tanto più rapida sarà la decodificazione del messaggio visivo. Inoltre lo sguardo dell'osservatore percorre l'immagine prima ricomponendola secondo le sue linee essenziali, poi esplorandola con precisione crescente. Quanto maggiore è la complessità dell'immagine, tanto più lungo sarà il tempo necessario ad osservare ed elaborare le informazioni in essa contenute; al contrario le immagini semplici ed essenziali vengono recepite ed interpretate con maggiore immediatezza. I particolari inutili, il cromatismo eccessivo, così come la mancanza di nitidezza e l'insufficiente contrasto, disturbano la composizione per eccesso di rumore, mentre la concisione e la semplicità delle linee e dei toni aggiungono pregnanza al soggetto. E se il dilettante fotografa un brutto sfondo perché "era lì", il fotografo attento cerca di eliminarlo o trasformarlo. I mezzi sono già noti: innanzitutto la scelta della giusta inquadratura (talvolta basta spostarsi di pochi centimetri per scoprire un punto di vista migliore); poi la scelta della focale più adeguata (che consente di giocare con gli effetti di compressione o allontanamento dei piani prospettici); infine la scelta della giusta illuminazione e della corretta esposizione. A questo proposito mi preme sottolineare il fatto che - contrariamente a quanto la manualistica destinata ai principianti frettolosamente insegna - la "corretta esposizione", intesa in senso assoluto, non esiste. Questo perché lo stesso soggetto può assumere significati diversi a seconda di come viene "letto", interpretato e quindi esposto. Ne consegue che la coppia tempo-diaframma decisa dall'esposimetro deve sempre (sempre, non solo in caso di controluce o di condizioni difficili) essere sottoposta a revisione e adattata alle esigenze di comunicazione dell'emittente. Il concetto fondamentale, che solitamente sfugge al principiante, è che la quantità di luce che giunge alla pellicola non costituisce un parametro assoluto, dipendente in maniera meccanica dalla quantità di luce riflessa dal soggetto (e pertanto misurabile), ma è una scelta espressiva. E in quanto tale non si misura. Si decide. La necessità di eliminare dall'inquadratura gli elementi superflui per ridurre il rumore sta alla base della scelta fra colore e bianco e nero. La presenza o l'assenza del colore rivestono in fotografia un ben preciso valore semantico: la scelta se fotografare a colori o in bianco e nero va effettuata in funzione del soggetto e del messaggio, perché i colori significano qualcosa. Decidere per il bianco e nero significa costringere l'emittente a codificare l'immagine mettendo in evidenza il grafismo della composizione, la luce, le forme e i contrasti tonali. Il destinatario, a sua volta, decodificherà il messaggio sapendo che questi sono gli elementi a cui dare importanza. E' quindi necessario chiedersi se l'uso del colore sarà in grado di aggiungere nuovi significati all'immagine. Se la risposta sarà negativa, esso andrà trattato come rumore e per ciò stesso eliminato. Una volta eliminati dall'inquadratura tutti gli elementi che possono costituire rumore e abbassare l'efficacia del messaggio, rimarranno comunque alcuni elementi di sfondo che potranno essere sfruttati creativamente per invitare il destinatario a porre la sua attenzione sul soggetto principale. Il rapporto fra soggetto e sfondo diventa così un rapporto funzionale, dato che permette la strutturazione di un messaggio che contiene in se stesso le "istruzioni" per la sua corretta decodificazione. La costruzione grafica dei rapporti fra soggetto e sfondo prende il nome di composizione.

Significati, scopi e limiti della composizione
"Composizione" è il modo in cui il fotografo tratta il soggetto, correlandolo con gli altri elementi dell'inquadratura. Quello che è importante sottolineare è che le cosiddette "regole" della composizione non possono né devono rivestire alcun valore prescrittivo o normativo. E questo con buona pace di una certa manualistica destinata ai dilettanti, la quale affida alle regole della composizione un'importanza pari a quella attribuita dalle vecchie grammatiche normative alle regole del bello scrivere. Ma come i grandi scrittori sanno creare un capolavoro anche (e in certa misura, proprio) contravvenendo alla sintassi, se (e soltanto se) questo si rivela necessario alle loro esigenze espressive, così anche il fotografo - come il pittore prima di lui - non dovrà considerare l'incrocio dei terzi e le linee di fuga come leggi inderogabili: in realtà non si tratta altro che di elementi codificati capaci di rendere più agevole la strutturazione del messaggio e - per il destinatario - la sua decodificazione. Il fatto che la prospettiva lineare "conduca lo sguardo" (vedremo più avanti che cosa succede realmente) verso lo sfondo, o che gli elementi posti all'incrocio dei terzi acquistino pregnanza, non deriva dalla volontà di imperio di una qualche auctoritas riconosciuta, ma da un'abitudine percettiva consolidata da secoli di codice pittorico. Al punto che parlando di regole della composizione dovremmo considerarle più come la constatazione di abitudini percettive che come norme. Si tratta insomma di elementi del codice che il fotografo utilizzerà come un mezzo capace di consentirgli una strutturazione del messaggio aderente alla propria visione del mondo. Che è quello che il destinatario vuole poter percepire osservando l'opera.

L'organizzazione dello spazio
Il primo elemento utile a dare risalto al soggetto principale rapportandolo graficamente con lo sfondo è l'organizzazione dello spazio del fotogramma. Per quanto poco sovente ci si pensi, tutte le informazioni che una fotografia trasmette sono contenute in uno spazio fisico ben delimitato e definito a priori: il fotogramma non è una semplice cornice entro cui far entrare alla bell'e meglio una serie di figure, al contrario, si tratta di una ben precisa figura geometrica (un quadrato, oppure un rettangolo di differenti proporzioni) in cui andranno inscritte composizioni che - per quanto complesse - saranno anch'esse riconducibili a linee e figure note. Ne consegue che il formato del fotogramma e la sua disposizione rispetto all'osservatore influenzano la (e sono influenzati dalla) composizione. Tutto ciò deve indurre il fotografo ad effettuare una scelta ragionata, che consideri il formato del fotogramma e il suo orientamento nello spazio in funzione della composizione, la quale sarà a sua volta condizionata - e in certo qual modo limitata - dal quadrilatero entro il quale viene inscritta. Il formato quadrato permette, in genere, di curare con più attenzione la disposizione degli elementi nello spazio. Coloro che considerano la composizione come un insieme di regole prescrittive ritengono che il formato quadrato debba essere utilizzato prevalentemente per composizioni statiche, poiché pensano alla perfetta inscrivibilità nel quadrato della più statica e simmetrica delle figura geometriche: il cerchio.

In realtà il formato quadrato consente la creazione di immagini particolarmente equilibrate (grazie all'uguaglianza dei lati) e basate prevalentemente sull'alternanza degli andamenti orizzontale/verticale. Inoltre, con il suo rapporto tra i lati di 1:1, permette di giocare con le forme e di concentrare l'inquadratura. Secondo alcuni fotografi questo formato inusuale permette di giocare sull'esclusione, cioè di "tagliare via" parte della scena mettendo in risalto ciò che effettivamente va visto. Abituato al formato rettangolare, lo spettatore che osserva una fotografia quadrata avverte che "ne manca un pezzo", come se una violenta sforbiciata avesse eliminato un particolare superfluo, costringendo chi guarda a concentrare l'attenzione, a osservare la scena attraverso una cornice più stretta di quanto vorrebbe. Al contrario, il formato rettangolare viene solitamente ritenuto più idoneo a contenere immagini "mosse" e dall'andamento dinamico, soprattutto se il fotogramma ha per base il suo lato più corto (cioè se la fotografia è scattata in verticale).

Al fotogramma orientato orizzontalmente si riconosce invece la capacità di rendere efficacemente l'idea della quiete, della solennità e della grandiosità del paesaggio, grazie all'esaltazione delle linee orizzontali. Anche se c'è del buono in queste norme (come già sappiamo, esse non fanno che proporre come obbligatorio un codice rappresentativo a cui secoli di pittura ci hanno abituati), esse tendono a legare ogni formato ad una sua funzione fissa e immutabile, che rischia di ingabbiare entro schemi troppo rigidi la creatività del fotografo. Sarebbe invece importante rendersi conto che la figura geometrica entro la quale inscriviamo la composizione influenza in maniera drastica e peculiare l'andamento geometrico e i rapporti grafici dell'immagine. Inoltre, volendo approfondire, diremo che parlare genericamente di "formato rettangolare" rischia di apparire superficiale. Sappiamo infatti che esistono diversi formati, caratterizzati da differenti proporzioni fra i lati.

Il formato 24x36 mm, diffuso specialmente fra gli amatori, così come il formato 6x9 cm, sono caratterizzati da un rapporto fra il lato minore e il lato maggiore di 2 a 3. Il rapporto è pari a 1,5 e si avvicina alle proporzioni del classico rettangolo aureo (1,61803...). I formati 4,5x6 cm, 6x8 cm e 9x12 cm hanno invece un rapporto di 3:4 (1,333...), più simile a quello dello schermo televisivo classico. Proporzioni simili ha anche il formato professionale 5x7" (1,4). Più vicini al formato quadrato sono invece il medio formato 6x7 cm (1,1666..) e i grandi formati 4x5" e 8x10" (1,25). La suddivisione del fotogramma organizza lo spazio interno in modo da dare risalto agli elementi più importanti della composizione. Ciò significa sistemare il soggetto nella posizione più adatta a conferirgli l'importanza che esso richiede. Il principiante di solito sistema il soggetto principale nel centro geometrico del fotogramma: non che questo sia di per se stesso sbagliato, ma semplicemente non è sempre questa la posizione più adatta.

Un soggetto che campeggia in mezzo al fotogramma tende a suggerire una connotazione di staticità, data dalla perfetta simmetria degli spazi che lo circondano. Al contrario, l'asimmetria suggerisce movimento e dinamismo. Di questo erano ben consapevoli gli artisti dell'antichità classica, i quali si posero il problema di regolamentare ed organizzare lo spazio in modo che anche l'asimmetria rispondesse a criteri di armonia e di equilibrio. Occorreva scandire lo spazio in modo da suggerire all'osservatore un ritmo, un andamento quasi musicale.

Si deve probabilmente a Pitagora e alla sua setta mistico-scientifica la prima descrizione della sezione aurea del segmento e la scoperta di tutte le sue interessanti proprietà. Essa è infatti la base per costruire numerose figure geometriche la cui modularità sembrò suggerire significati magici e mistici: la stella a cinque punte (simbolo iniziatico dei pitagorici che contiene in se stesso la formula della sezione aurea), la spirale regolare, ma soprattutto il rettangolo aureo, il divino rettangolo dalle perfette proporzioni che costituì la base di tutta l'arte classica e che affascinò generazioni di architetti lungo l'arco di venticinque secoli: dai costruttori di Nôtre Dame ai pittori del Rinascimento, dagli scenografi barocchi a Le Corbusier. Se si consideravano i lati del rettangolo come segmenti e si tracciavano le perpendicolari passanti per i loro "punti aurei", si ottenevano quattro linee (due verticali e due orizzontali) che si intersecavano in quattro punti. Si constatò che le figure posizionate lungo queste linee ("linee di forza") e ancor più quelle sistemante in corrispondenza di una loro intersezione acquistavano particolare forza espressiva.

Le regole per costruire l'immagine basandosi sul rettangolo aureo perdettero presto le connotazioni magico-matematiche originarie e divennero oggetto di insegnamento nelle accademie di pittura. Quando però a quest'arte si interessarono anche i dilettanti ignari di geometria, divenne necessario semplificare la regola del rettangolo aureo. Alle ricche signore inglesi della fine del Settecento che si divertivano a dipingere i loro giardini e i parchi delle loro ville nei tiepidi pomeriggi d'estate non si poteva chiedere di prendere in mano un compasso e cimentarsi in una costruzione geometrica, per quanto semplice. Fu così che si incominciò a suddividere lo spazio della tela in tre parti uguali, sia orizzontalmente che verticalmente, in modo da ottenere con maggiore semplicità le linee di forza. Le loro intersezioni furono chiamate "incroci dei terzi".

Come già avveniva per il rettangolo aureo, gli elementi figurativi posizionati in prossimità degli incroci dei terzi apparivano particolarmente pregnanti e significativi. La fotografia non fece altro che ereditare dalla pittura questo aspetto del codice, così come ha ereditato quasi tutte le regole della composizione. Purtroppo, come spesso avviene, questo accorgimento nato per dare ritmo e respiro alla composizione divenne anche per i fotografi una regola inderogabile, una ferrea norma da accademia, una legge la cui trasgressione equivaleva ad una confessione di incapacità o - peggio - di devianza.

E' indubbio che una composizione basata sulla scansione in terzi appaia mossa e dinamica, armoniosa nella sua asimmetria giustamente scandita, ma non è scritto da nessuna parte che questo sia l'unico modo giusto per disporre gli elementi all'interno dell'inquadratura. Vale anche a questo proposito ciò che abbiamo già detto riguardo al codice e alla sua capacità di accettare ragionevoli trasgressioni. Si pensi ad esempio alla regola che prescrive di non sistemare la linea d'orizzonte nel centro esatto del fotogramma: essa deriva dal fatto che se il cielo e il paesaggio terrestre avessero la stessa importanza in termini quantitativi, lo sguardo dello spettatore rischierebbe di vagare incerto fra l'uno e l'altro elemento, senza capire a quale dei due prestare maggiore attenzione: se invece il fotografo sistema la linea dell'orizzonte lungo una delle linee di forza, in modo che i due elementi (cielo e paesaggio terrestre) si pongano fra loro nella proporzione di 1/3 contro 2/3, la decodificazione del messaggio risulterà più facile e priva di ambiguità: il destinatario riconoscerà con certezza l'elemento al quale il fotografo ha voluto attribuire la maggiore importanza. Ma se fosse proprio l'ambiguità il soggetto del messaggio? Pensiamo al gioco dei riflessi, a quanta efficacia informativa (causata proprio dall'ambiguità) possiede un'immagine nella quale la perfetta specularità del soggetto e del suo riflesso provocano nel destinatario tensione e inquietudine, costringendolo a mettere in discussione la certezza dei propri codici percettivi. Una situazione come questa richiede imperiosamente che la linea di separazione tagli il fotogramma esattamente a metà, accorgimento senza il quale verrebbe meno quell'ambiguità che costituisce il vero elemento informativo di un'immagine di questo tipo.

La disposizione dei diversi elementi nello spazio del fotogramma viene indicata dagli autori anglosassoni con il termine pattern. Esso viene in genere tradotto con la parola "composizione", la quale però ricopre in tal modo un campo semantico troppo ristretto ed acquista un significato riduttivo rispetto a quello, più ampio, che noi le abbiamo dato. Continueremo perciò a servirci del termine inglese, senza tradurlo. Il pattern è dunque il modo in cui i diversi elementi grafici si strutturano fra loro in un gioco di volumi che rende armoniosa la composizione. L'alternarsi delle forme, messe in risalto dalla qualità e dalla direzione della luce, diventa di per se stesso un elemento significante. Un esempio limpido e lineare di pattern spinto alle estreme conseguenze è costituito dalla pittura astratta: le forme pure e rarefatte di Mondrian e di Herbin non denotano alcun referente reale: il codice, libero dai vincoli della rappresentazione-riproduzione, parla di se stesso e invita il destinatario a riflettere sulle sue possibilità espressive; il ritmo della composizione, scandito dall'alternanza di pieni e di vuoti, assume un andamento quasi musicale, che costringe la mente dell'osservatore a uniformarsi a una sorta di segreto respiro.

Fra i diversi centri di interesse dell'immagine possono essere tracciate delle linee che li separano o li uniscono. Queste linee possono coincidere con elementi figurativi rappresentati (la linea dell'orizzonte, ad esempio), o al contrario possono essere soltanto immaginate dallo spettatore, che desume la loro presenza all'interno della struttura grazie all'andamento generale della composizione: Una catena di montagne, anche se mossa e frastagliata, ha un suo andamento mentalmente rappresentabile con una linea: se le vette hanno tutte la stessa altezza si dirà comunque che la catena ha un andamento orizzontale; se invece sono di altezza crescente verso destra o verso sinistra si individuerà un andamento coincidente con un'immaginaria linea obliqua. I codici rappresentativi propri della nostra cultura (e si tratta di una constatazione, non di una regola) ci hanno abituati a percepire le linee orizzontali come segno della staticità, della calma e della quiete: per questo si dice comunemente che le composizioni dall'andamento orizzontale "suggeriscono" queste sensazioni. Al contrario si ritiene che le linee verticali suggeriscano in generale slancio ed elevazione, mentre le composizioni giocate su linee oblique o diagonali rispetto al fotogramma sembrano più adatte a tradurre la sensazione del movimento: questo a causa delle connotazioni di precarietà, di equilibrio instabile e di tensione che sono proprie delle linee oblique nella rappresentazione grafica.

Alla ricerca della terza dimensione
La fotografia è una rappresentazione bidimensionale. Ciò significa che il mondo a tre dimensioni che noi percepiamo viene tradotto sulla pellicola appiattito, privo di una delle tre dimensioni dello spazio euclideo. L'assenza della profondità è un handicap che la fotografia ha evidentemente ereditato dalla pittura, così come dalla pittura ha ricevuto gli insegnamenti necessari per superarlo. Il principale fra questi è costituito dalla prospettiva. La prospettiva permette di rappresentare su un piano gli oggetti tridimensionali, in modo tale che l'immagine fornisca allo spettatore un tipo di percezione analogo a quello che egli avrebbe osservando la scena dal vero. Sembra che già gli artisti della Grecia classica conoscessero alcuni accorgimenti grafici atti a rendere l'impressione della profondità spaziale. Purtroppo (se si eccettua la pittura vascolare) la massima parte della pittura greca è per noi perduta, al pari della pittura ellenistica e quindi romana. Qualcosa di più ci dicono gli affreschi pompeiani e i mosaici, dai quali tuttavia non sembra potersi dedurre la conoscenza di regole prospettiche chiaramente codificate. Le botteghe medioevali tramandarono nel proprio ambito regole empiriche di rappresentazione prospettica che giunsero così fino al Rinascimento, epoca in cui si verificò il salto definitivo: il celebre trattato di Leon Battista Alberti codifica la perspectiva artificialis, facendone regola di rappresentazione pittorica. L'uso e l'elaborazione teorica delle regole della prospettiva rivestì, per gli artisti del Rinascimento, un'importanza ben superiore a quella di un semplice artificio grafico: codificare la rappresentazione dello spazio euclideo significava scoprire, nella realtà stessa, regole geometriche riproducibili pittoricamente. Significava, in altre parole, scoprire che il mondo (macrocosmo) possedeva un ordine matematico coincidente con l'ordine mentale dell'uomo (microcosmo), e quindi da questi non soltanto rappresentabile ma anche indagabile scientificamente. Dio stesso aveva fatto sì che la mente umana possedesse il medesimo tipo di ordine presente nel mondo, concedendo all'uomo la possibilità illimitata di penetrare i misteri della natura: ogni segreto sarebbe stato svelato, col tempo, dal momento che - come ebbe a scrivere più tardi Galileo Galilei - "La mathematica è l'alfabeto in cui Dio à scritto l'Universo". La fede cieca nel soprannaturale e il conseguente disprezzo per il mondo materiale che avevano improntato di sé gran parte del Medioevo cedono il posto a una fede nuova, dove un Dio che si manifesta attraverso il mondo dona all'uomo la possibilità e gli strumenti per andare - attraverso il mondo - alla sua ricerca. Nel Seicento il problema diventa, oltre che artistico, scientifico e matematico: si codifica la geometria proiettiva, mentre lo studio della rappresentazione prospettica trova applicazione nei complicati trompe-l'oeil e nelle sontuose scenografie teatrali del Barocco. Nell'Ottocento l'idea di prospettiva come categoria assoluta entra in crisi: gli impressionisti le negano la prerogativa di unico strumento per la rappresentazione della natura, mentre vari studiosi di estetica evidenziano l'esistenza di altre forme di rappresentazione tridimensionale. Contemporaneamente viene messa in risalto la non corrispondenza fra visione prospettica e visione reale, finché nel 1927 Panofsky evidenzia la funzione puramente simbolica della prospettiva, che si fa elemento significante di modelli culturali più che rappresentazione di strutture reali. Nonostante questa evoluzione, di cui in ogni caso occorre essere consapevoli, il concetto di prospettiva è ancora ben radicato nella nostra cultura, tanto che nessun disegnatore può permettersi di ignorarlo. Semplicemente, abbandonata la pretesa rinascimentale di riprodurre l'ordine geometrico del mondo, noi oggi consideriamo la prospettiva come sistema rappresentativo codificato, comune agli appartenenti alla nostra cultura e utile per comunicare al destinatario - che condivide il codice - l'esistenza della terza dimensione. Ma non basta: la prospettiva geometrica viene usata soprattutto per "guidare" l'attenzione dello spettatore verso il soggetto principale o verso un punto di interesse, funzionando così come il più potente degli "indici vettori": tutta la composizione tende verso il punto di fuga e vi si dirige, invitando il destinatario a fare altrettanto (è ovvio che in corrispondenza del punto di fuga deve esserci qualcosa di interessante). Alcuni manuali ancora insegnano che le linee di fuga "conducono" lo sguardo verso il punto di fuga, quasi fossero binari lungo i quali far scorrere gli occhi. In realtà una simile affermazione non trova riscontro nei nostri meccanismi percettivi. Il percorso compiuto dallo sguardo dello spettatore che osserva un'immagine segue in realtà schemi diversi e più complessi: la registrazione dei movimenti oculari dimostra come lo sguardo vaghi in maniera apparentemente disordinata intorno ai principali punti di interesse. Quella che noi crediamo percezione globale e simultanea di un'immagine è in realtà la somma di piccole esplorazioni parziali: i rapidi movimenti oculari fanno sì che la parte centrale della retina (la fovea) esplori e scandisca lo spazio in tempi successivi, anche talmente rapidi da rimanere al di sotto della soglia della consapevolezza. In ogni caso, anche se non è vero che le linee di fuga "conducano" lo sguardo dell'osservatore, è però vero che esse contribuiscono ad orientare convenzionalmente i vari elementi dell'immagine in modo da invitare lo spettatore (che conosce il codice) a soffermarsi sui punti voluti. Se i pittori toscani del Rinascimento affidarono prevalentemente alla prospettiva geometrica il compito di rappresentare la terza dimensione dello spazio euclideo, i pittori veneti, dalla fine del Quattrocento in poi, impararono a rendere la profondità in termini di variazioni cromatiche e tonali. Empiricamente essi avevano constatato che con l'aumentare della distanza venivano a mutare la saturazione cromatica, la resa tonale e la definizione generale dell'immagine. La loro tavolozza composita, ricca di colori sfumati e di nuances sconosciute ai toscani, permise loro di trasferire sulla tela questo fenomeno. Così, se si osservano con attenzione certi capolavori dell'arte veneta del Cinquecento, si nota un certo quale abbandono della prospettiva geometrica a favore di una resa tonale più ricca e variata, che traduce i piani più lontani con colori tenui e "freddi", quasi fossero avvolti dalla foschia. Questo tipo di prospettiva (prospettiva aerea) è ben noto ai fotografi di paesaggio i quali, come i pittori, sanno sfruttare la graduale perdita di nitidezza dei piani lontani dovuta alla diminuita capacità di penetrazione delle lunghezze d'onda più elevate attraverso gli strati dell'atmosfera. Per esperienza lo spettatore conosce il fenomeno e pertanto interpreta la graduale perdita di definizione dei piani lontani come segno dell'aumentare della distanza.

"Previsualizzare" l'immagine finale
Finalmente abbiamo compiuto la nostra scelta. Abbiamo isolato dal contesto un frammento di realtà e abbiamo deciso che esso meriti di venire tradotto in comunicazione visiva. Abbiamo attentamente valutato i principali spunti compositivi utili a dare risalto al soggetto e siamo adesso in grado di farne il principale portatore del nostro messaggio. Grazie al procedimento attraverso il quale riusciremo a strutturare l'opera comunicheremo al destinatario non soltanto l'esistenza della realtà fotografata ma anche e soprattutto gli racconteremo il nostro modo - unico e irripetibile - di entrare in rapporto con essa. Gli diremo che cosa sentiamo nei confronti del soggetto, in modo che egli possa paragonare la nostra proposta di lettura e interpretazione con il suo sistema di attese e la sua visione del mondo. Allora le rispettive esperienze (dell'emittente e del destinatario) si incontreranno e si confronteranno, la prima attraverso l'opera, la seconda attraverso il complesso lavoro di decodificazione, portando così a compimento il processo comunicativo. Ma perché ciò avvenga, chiaramente e senza incertezze, occorre avere ben delineato a livello mentale il messaggio che si intende strutturare, nonché l'uso che si intende fare del codice. Occorre cioè mettersi nei panni del destinatario e - proiettati nel futuro - osservare l'opera finita con gli occhi dell'immaginazione. Si tratta di ciò che Ansel Adams definiva "previsualizzazione" dell'immagine finale. Si tratta essenzialmente di individuare gli elementi significanti, decidendo come trattarli per dare loro il dovuto rilievo; di conseguenza bisognerà stabilire con precisione in che modo utilizzare (e in quale misura violare) il codice, quali espedienti tecnici e compositivi far entrare in gioco, come eliminare gli elementi non significanti.

L'importanza della tecnica fotografica
A questo punto il problema è: come ottenere l'immagine a lungo studiata, strutturata mentalmente e previsualizzata? è qui che il possesso delle necessarie capacità tecniche si rivela non già un virtuosistico sfoggio di bravura fine a se stesso, ma bensì un'indispensabile conoscenza dei processi formativi dell'opera, funzionale alla struttura stessa del messaggio e all'organizzazione dell'immagine esattamente come era stata previsualizzata. Soltanto il fotografo che conosce i propri strumenti di lavoro e che li sa usare ai limiti delle loro possibilità tecniche potrà sperare in un risultato non casuale; soltanto chi è in grado - tanto nella teoria quanto nella pratica - di seguire con consapevolezza ogni fase della formazione dell'immagine potrà essere certo che il messaggio pervenuto al destinatario sarà esattamente quello voluto. Qui i due aspetti del lavoro del fotografo (quello tecnico e quello compositivo-espressivo) si toccano e si completano l'un l'altro: la tecnica è funzione dell'espressione, la quale a sua volta non sarebbe possibile senza gli strumenti adeguati. C'è una parola del greco antico, techne, il cui significato è tanto "arte, "attività artistica" quanto "tecnica", "lavoro manuale". Anche l'artifex latino era a un tempo artista e tecnico. I due significati rimasero immutati, nella coscienza dell'Occidente cristiano, per tutta l'antichità e il Medioevo. Soltanto nel Rinascimento l'artigiano, il tecnico da un lato e l'artista dall'altro intrapresero due strade che oggi sentiamo come distanti e inconciliabili. Ma se esiste una forma di comunicazione (o, per chi lo preferisce, di espressione) che ancora riunisce in sé i due antichi significati, questa è proprio la fotografia. Nessun artista è costretto a fare i conti con strumenti così tecnologicamente complessi, mentre nessun tecnico riesce a piegare i propri mezzi di lavoro all'espressione di contenuti tanto profondi. Per questo la fotografia - snobbata di volta in volta come forma d'arte o tecnologia, relegata dagli uni nel cantuccio delle arti minori, dagli altri tra le tecnologie imperfette - merita la considerazione dovuta a una forma di comunicazione dalle caratteristiche uniche ed irripetibili, che non trovano né possono trovare termini di paragone adeguati.

Michele Vacchiano © 11/2001
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