Proviamo a descrivere, con un linguaggio accessibile ma rigoroso, il modo in cui vedono gli esseri umani ed a stabilire un parallelo con il funzionamento della fotocamera.
Breve descrizione dell’anatomia dell’occhio umano
L’occhio umano è un sistema ottico relativamente semplice di forma sferica e incapsulato da tre membrane: la sclera, la coroide e la retina. La prima, la più esterna, consiste in uno strato opaco che si estende dal nervo ottico alla parte anteriore dell’occhio, dove è unita alla cornea, la lente più potente dell’apparato visivo. La seconda membrana, la coroide, contiene un denso reticolo di vasi sanguigni e nella parte anteriore si unisce all’iride, quella parte dell’occhio che è in grado di contrarsi ed estendersi per regolare la quantità di luce in ingresso. Infine la retina: è la membrana più interna ed è la componente su cui si focalizzano i raggi luminosi per formare l’immagine. Quest’ultima viene prima tradotta in segnale elettrico dalle cellule recettoriali, i coni e i bastoncelli, e poi trasmessa al cervello tramite il nervo ottico.
Un parallelo tra l’occhio e la macchina fotografica
Le similitudini tra l’occhio umano e una macchina fotografica sono molteplici, e il paragone diretto che si può fare tra le loro singole componenti ne è la testimonianza.
Il materiale fotosensibile, cioè la pellicola o il sensore, svolge il ruolo della retina, dove i grani dei sali di argento di una pellicola o i fotodiodi di un sensore digitale non fanno altro che imitare le cellule recettoriali. In particolare, nel caso del digitale avviene anche la trasduzione del segnale luminoso in segnale elettrico. Quest’ultimo viene poi inviato dal sensore al microprocessore (passaggio retina-cervello) tramite un complesso sistema circuitale (sistema nervoso).
L’obiettivo e il diaframma fanno invece la parte della cornea e dell’iride, rispettivamente, mentre l’otturatore imita la palpebra.
Le similitudini tra l’occhio e la fotocamera non sono casuali, dato che gli scienziati cercano sempre di prendere ispirazione dalla natura per dar vita a nuove tecnologie o per introdurre nuovi concetti e teorie. Un esempio lampante dello stretto legame tra comportamenti naturali e scienza è rappresentato dalla colorimetria, che è quella disciplina che ha come obiettivo la definizione oggettiva e quantitativa dei colori. La colorimetria nasce dal bisogno di standardizzare la percezione soggettiva dei colori propria dell’essere umano e trova applicazione in ogni settore industriale che ha a che fare con la riproduzione dei colori.
Alla base della colorimetria c’è il meccanismo della visione umana, ed in particolare quello della percezione del colore; di quest’ultima segue un brevissimo riassunto, essenziale però alla comprensione del paragrafo finale.
Comparazione diretta tra le componenti di una fotocamera digitale e l’occhio umano.
Le cellule recettoriali e la percezione del colore
Lo strato della retina fotosensibile è costituito da due tipi di cellule che prendono il nome dalla loro forma: i coni e i bastoncelli. I primi sono responsabili della percezione dei colori in ambienti relativamente luminosi, mentre i secondi non percepiscono i colori ma la variazione di intensità luminosa in ambienti relativamente scuri.
I coni a loro volta si suddividono in tre tipologie: coni L, M e S, dove le lettere indicano gli intervalli di lunghezze d’onda della radiazione elettromagnetica visibile ai quali ciascun tipo di cono risponde, ovvero lunghezze d’onda lunghe (L=Long), medie (M=Medium) e corte (S=Short).
A volte al posto di L, M e S si parla di R,G e B dato che il loro spettro di sensibilità copre le lunghezze d’onda del rosso (R=Red), Verde (G=Green) e Blu (B=Blue). Questa notazione però non è del tutto corretta dato che il cono R, pur coprendo una parte del rosso, ha il punto massimo di sensibilità nella zona del giallo, e di conseguenza dovrebbe essere chiamato cono Y (da Yellow).
Spettro della sensibilità dei coni S, M e L al variare della lunghezza d’onda. Le tre curve sono riprodotte in rosso, verde e blu per richiamare la terminologia (errata) RGB.
Le prove sperimentali ottenute nella seconda metà del secolo precedente, la più importante delle quali fu quella di Brown e Wald nel 1964, hanno confermato la teoria tricromatica, una teoria (proposta inizialmente da Young nel 1802 e poi ampliata da Helmoltz nel 1894) secondo la quale esistono tre tipi di coni, e la percezione di un dato colore è data dal grado di risposta dei tre tipi di coni e dalla successiva combinazione additiva dei singoli segnali. Per esempio la sensazione del colore ciano è data dalla stimolazione contemporanea dei coni B e quelli G, e la sensazione del giallo dalla risposta dei coni G e R.
Per quanto valida dal punto di vista sperimentale, la teoria tricromatica da sola non è in grado di descrivere il complesso meccanismo della visione, che può essere spiegato utilizzando il modello proposto da Vos e Walvaren nel 1971 (che aggiunge alla teoria tricromatica quella dei colori opponenti di Hering, del 1878); non andiamo oltre per non addentrarci nella selva oscura dell’oftalmologia. In ogni caso, pur non essendo in grado di descrivere in maniera esaustiva il comportamento del sistema visivo umano, la teoria tricromatica è stata ampiamente utilizzata per definire scientificamente e quantitativamente i colori nel cosiddetto sistema RGB.
La definizione dello spazio colore CIE RGB
Cosi come un colore può essere scomposto in tre componenti dai coni, in modo inverso la combinazione di tre particolari sorgenti di colore, generalmente di intensità luminosa differente, può essere sfruttata per riprodurre qualsiasi colore. Vediamo un esempio.
Immaginiamo di proiettare una sorgente luminosa (o stimolo ) monocromatica di lunghezza d’onda λ su una superficie perfettamente bianca.
Su un’altra parte della superficie bianca proiettiamo contemporaneamente tre sorgenti luminose di colore rosso [R], verde [G] e blu [B]. Regolando l’intensità di queste tre luci e sfruttando la loro combinazione additiva sarà possibile riprodurre lo stimolo monocromatico .
I valori di intensità delle tre lampade R, G e B sono rispettivamente , e dove il pedice λ indica la lunghezza d’onda da riprodurre. Tramite i valori delle intensità appena menzionati, è possibile descrivere matematicamente lo stimolo monocromatico tramite una formula nota come legge di Grassmann:
Esperimento di riproduzione del colore Magenta a partire dalle tre luci di riferimento RGB. In questo esempio la luce verde è spenta, dato che il Magenta saturo si ottiene dalla combinazione additiva di Rosso e Blu.
L’esempio appena descritto può essere esteso ad un caso più generale, ovvero ad un caso in cui lo stimolo da riprodurre è formato da un intervallo di lunghezze d’onda invece che da una sola. Ma, sempre per non complicarci la vita, restiamo sul caso di stimolo monocromatico, e cerchiamo di rispondere alle seguenti domande:
• Le tre sorgenti [R], [G] e [B] hanno dei valori di lunghezze d’onda prestabiliti?
• Esistono dei valori tabulati, cioè indicati in tabelle ufficialmente riconosciute, dei coefficienti rλ, gλ e bλ?
• Da chi sono scelti questi valori?
Sia i valori delle sorgenti monocromatiche [R], [G] e [B] che quelli dei coefficienti rλ, gλ e bλ sono tabulati. Chi li ha decisi? L’ente responsabile della definizione di questi parametri è la Commissione Internazionale dell’Illuminazione (CIE, dal nome originale francese Commision International de l’Eclarage). Sono sicuro che avrete già visto la sigla di questo ente in qualche programma di grafica, video e post produzione fotografica. In questi programmi il termine CIE lo troverete nelle impostazioni dei profili colore associato alle parole Lab o XYZ: CIELab e CIEXYZ sono infatti due tipi di spazi colore definiti dalla CIE (uno spazio colore è un modello matematico usato per descrivere e riprodurre quantitativamente un colore).
Come sono stati decisi i coefficienti rλ, gλ e bλ dalla CIE? A partire dagli esperimenti di Wright e Guild. I due scienziati inglesi sottoposero diciassette osservatori dotati di vista “normale” ad esperimenti di riproduzione di colore utilizzando le tre sorgenti R, G e B. I tre coefficienti, oltre alla quantità di luce rossa, verde e blu da usare per ricreare il colore desiderato, tengono conto della luminosità delle tre lampade e dell’efficienza visiva dell’occhio umano in condizioni di luce, ovvero quando i bastoncelli sono “spenti” e i coni sono i soli responsabili della visione; in questo caso la visione si dice fotopica. Al contrario, in un ambiente buio, quando i bastoncelli sono i soli fotorecettori a trasmettere l’immagine al cervello, si parla di visione scotopica. La situazione intermedia tra le due è detta visione mesopica.
Lo spazio colore CIE RGB fu definito nel 1931 usando le color matching functions, nome tecnico dei coefficienti rλ, gλ e bλ, e tre sorgenti R, G, B rispettivamente di lunghezza d’onda 700 nm, 546.1 nm e 435.8 nm.
Color Matching Functions del sistema CIE RGB del 1931 ricavate a partire dagli esperimenti di Wright e Guild.
Noterete che in una porzione del grafico la funzione rλ assume dei valori negativi: la curva del rosso è sotto lo 0. Questo vuol dire che in quella regione la legge di Grassmann diventa:
Questa uguaglianza matematica ci dice che per riprodurre lo stimolo Sλ bisogna combinare le due luci [G] e [B] di intensità gλ e bλ e sottrarre la luce [R] di intensità rλ. A livello pratico “sottrarre una luce” vuol dire spostarla dal lato dello stimolo, in modo da cambiare la tonalità del colore; spostando il termine [R] dall’altro lato dell’uguaglianza, anche la descrizione matematica di questa situazione diventa più intuitiva:
Da cosa nasce la necessità di introdurre questi valori negativi?
Per quanto un osservatore o osservatrice tenti di mischiare i tre stimoli R, G e B, non riuscirà mai a ottenere lo stimolo Sλ in quell’intervallo di lunghezze d’onda, dato che in quella regione lo stimolo sarà sempre troppo saturato per il sistema visivo umano. Di conseguenza, al fine di ricavare il valore di rλ è necessario spostare la lampada [R] dal lato dello stimolo da riprodurre.
Sempre nel 1931 lo spazio CIE RGB è stato rimpiazzato dal CIE XYZ. Il passaggio da uno all’altro si fa tramite una trasformazione algebrica e permette di ottenere tre nuove color matching functions dette x, y, z. Uno dei vantaggi principali del CIE XYZ è l’eliminazione dei valori negativi, come si può vedere nel grafico qui sotto.
Color Matching Functions del sistema CIE XYZ, ottenute da una trasformazione algebrica a partire dalle funzioni del sistema RGB.
Qui si conclude questo articolo, che ci ha portato dall’anatomia dell’occhio umano alla definizione di uno dei primi spazi colore.
Valerio Pasquali © 05/2017
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Sito dell'Autore:
https://immaginescomposta.wordpress.com
Approfondimenti:
[1] Noboru Ohta, Alan Robertson, Colorimetry Fundamentals and Applications: libro dedicato alla colorimetria in cui troverete anche valori tabulati delle color matching functions
[2] The Colour & Vision Research laboratory and database, (Institute of Ophthalmology-University College London). In questo sito troverete spiegazioni e dati
[3] Basic colour science, Personal web page of Prof. Dr. Dietrich Zawischa (Institut für Theoretische Physik)
[4] Craig Blackwell youtube videos, 3 video dedicati alla visione del colore e alla colorimetria
[5] Gli articoli scientifici delle persone citate nel post. Li troverete facilmente scrivendo su Google il loro nome seguito dalla data di pubblicazione (di solito citata nel post). Purtroppo questi articoli sono spesso a pagamento e sono accessibili da studenti e lavoratori delle facoltà scientifiche.