IN CANTINA
Fotografare una cantina poco illuminata
Michele Vacchiano, ottobre 2001

Prendete una cantina buia, aggiungeteci qualche lampada a incandescenza e un contrasto da far paura, complicate il tutto con un soggetto dannatamente obliquo rispetto al piano focale e... I casi sono due: o rinunciate alla fotografia, oppure...

Questo è ciò che accade con le fotocamere a corpi fissi, nelle quali il corpo anteriore (A) e il corpo posteriore (P) sono paralleli tra loro: fotografare un soggetto S, obliquo rispetto al piano focale, mantenendolo nitido in tutta la sua interezza, è impossibile, dato che l'area della profondità di campo (pdc) è più ridotta di quanto non sia l'estensione del soggetto nello spazio. Chiudere tutto il diaframma potrebbe non rivelarsi sufficiente; inoltre la profondità di campo così ottenuta sarebbe solo apparente, in quanto strettamente connessa con l'ingrandimento a cui si sottopone il negativo: quanto più l'immagine verrà ingrandita tanto più aumenterà il diametro del circolo di confusione, che a un certo punto supererà il limite di tolleranza dell'occhio umano rendendo l'immagine sempre meno nitida.

Ecco invece che cosa si può fare con una fotocamera a corpi mobili. Il piano del soggetto PS e il piano focale PF si incontrano in C. A questo punto è sufficiente basculare la standarta anteriore A perché il piano dell'ottica PO incontri anch'esso gli altri due in C, garantendo così la totale nitidezza del soggetto indipendentemente dal diaframma utilizzato. In questo caso - contrariamente a quanto avviene chiudendo il diaframma - si tratta di una nitidezza reale che non diminuisce con il crescere dell'ingrandimento.

Sabato 15 settembre.
Workshop nelle Langhe tra vigne e castelli.

Siamo in sei, un gruppo sufficientemente ristretto per poter parlare e lavorare con calma. La mattina trascorre all'aperto: approfittiamo di una giornata limpida e fresca per cogliere i toni e i colori delle vigne ricche di grappoli e delle foglie che già iniziano a tingersi di oro e di rosso. Nel pomeriggio decidiamo invece di far visita a una cantina, una delle più belle e grandi della zona. I titolari stanno lavorando sodo: è il momento della pigiatura e non hanno il tempo di badare a noi. Così possiamo girare liberamente, senza fretta, per cogliere tutte le occasioni fotografiche che l'ambiente ci offre.

Un ambiente singolare e certamente tutt'altro che luminoso. Le uniche fonti di luce sono rappresentate da deboli lampade alogene fissate ai muri e rivolte verso il soffitto. Un soffitto non bianco che - di conseguenza - riflette davvero poco. Del resto una cantina dev'essere quasi buia, per evitare danni al vino.

Invito gli allievi a fare a meno del flash: l'ambiente ne verrebbe snaturato e l'atmosfera tipica del luogo andrebbe perduta. Da questa scelta deriva tutta una serie di conseguenze.

Il primo problema è rappresentato dalla qualità della luce. Le alogene emettono a una temperatura cromatica molto più bassa di quella della luce diurna e noi abbiamo le macchine caricate con pellicole daylight. Decidiamo di risolvere il problema... fregandocene! Di fatto l'atmosfera della cantina è intima e accogliente; la luce più appropriata a un simile ambiente sarebbe quella delle candele... Insomma, nessuno pensa a una cantina illuminata da un'asettica ed impersonale luce bianca. Lasciare che le diapositive acquistino una dominante "calda" può essere una scelta espressiva e avere una sua giustificazione estetica. Rinunciamo perciò non solo al flash ma anche ai filtri di conversione e scattiamo in luce disponibile.

Un secondo problema è rappresentato dai forti contrasti fra zone illuminate e aree in ombra, il che richiede un'attenta scelta dell'esposizione. In casi come questo non serve a niente effettuare una media integrata, ma occorre decidere a priori dove si vuole far cadere la zona V, misurando poi tutte le aree dell'inquadratura per verificare di quanti valori esse se ne discostino. E' l'esercizio migliore per capire che non esiste "la" corretta esposizione, ma che per ogni soggetto sono possibili molte esposizioni differenti, ciascuna delle quali è in grado di "raccontare" qualcosa. Ovviamente sia le zone d'ombra che le luci "bruciate" non devono contenere particolari importanti, ma semplicemente servire da contrappunto alle aree correttamente illuminate, quelle a cui si decide di dare importanza ai fini del messaggio fotografico. Inutile negare che i contrasti sono forti, ma il compito del fotografo è proprio quello di saper tradurre in immagine l'atmosfera tipica del luogo.

La scelta della luce disponibile impone lunghi tempi di otturazione, i quali si vanno ad aggiungere ai diaframmi chiusi necessari per mantenere a fuoco tanto i primi piani quanto lo sfondo. Essendo ben forniti di cavalletti di ogni foggia e dimensione non ci preoccupiamo per questo. L'unica rogna è che mentre uno di noi fotografa, gli altri non possono muoversi nel locale. Un problema che non tocca più di tanto i miei allievi, che lavorano col piccolo formato e possono permettersi trenta secondi a f/5,6, ma diventa problematico per me, che fotografando in grande formato (e pertanto con diaframmi molto più chiusi) mi ritrovo tempi di otturazione che vanno dai sei ai dieci minuti!

La prima occasione per illustrare ai miei allievi i vantaggi del grande formato mi è offerta dai "barrique" allineati lungo il muro (prima fotografia in alto). Fotografando da questa angolazione con un apparecchio a corpi fissi sarebbe impossibile mantenere a fuoco tanto il primo piano quanto lo sfondo, anche a diaframma tutto chiuso. La profondità di campo, che potrebbe forse apparire soddisfacente su una stampa di 10x15 cm, si ridurrebbe inesorabilmente col crescere del formato. L'unica soluzione per mantenere davvero tutto a fuoco è l'uso di una macchina a corpi mobili. L'applicazione della regola di Scheimpflug, illustrata graficamente nei disegni che accompagnano questo articolo, garantisce la necessaria nitidezza: una nitidezza reale che non viene influenzata dalle dimensioni della stampa.

Basculando la piastra portaottica in modo che il piano del soggetto, il piano dell'ottica e il piano focale si incontrino lungo un'unica retta diventa possibile utilizzare il diaframma ideale, quello a cui l'obiettivo lavora meglio: imposto f/22 ottenendo così il miglior compromesso tra correzione delle aberrazioni e contenimento della diffrazione. Con il non trascurabile effetto collaterale di un tempo di otturazione di "soli" due minuti (che tuttavia prolungo a cinque minuti per compensare il difetto di reciprocità).

Per quanto riguarda l'esposizione ho le alte luci (le lampade) che entrano direttamente nell'inquadratura. So che sulla diapositiva finale esse risulteranno completamente bruciate (zona X) indipendentemente dal tempo di otturazione. Per evitare aloni e immagini fantasma rinuncio a qualunque tipo di filtro e scelgo un obiettivo che già in altre occasioni ha dimostrato di rispondere in modo superbo alla presenza di riflessi e luci dirette. Le zone che mi interessano sul serio sono quelle che vanno da 0 a IX. Individuo sul pavimento in pietra (in un punto illuminato) la zona V (grigio medio) ed effettuo su di esso l'esposizione. E' solo un'ipotesi di lavoro da cui partire e in quanto tale va attentamente verificata. Misuro tutte le altre zone per vedere di quanto ciascuna di esse si discosta dal grigio medio. Così facendo vedo che le zone in ombra cadrebbero prevalentemente nella zona I, risultando troppo scure per garantire una buona leggibilità. Decido quindi di alzare di un diaframma tutta la scala. Il pavimento illuminato viene così a cadere nella zona VI, permettendo alle ombre di diventare leggibili. Poiché lavoro su pellicola invertibile non applico il sistema zonale se non in fase di ripresa, non potendo ovviamente intervenire in fase di sviluppo e stampa come farei con il bianco e nero; tuttavia già in questo modo riesco a garantirmi un'esposizione "pensata", capace di tradurre in immagine quelle che sono le mie personali scelte espressive. Misuro anche le altre aree e constato con soddisfazione che l'immagine risulterà convenientemente equilibrata, nonostante i forti contrasti e l'aspetto generale decisamente "low key".

Il locale per la conservazione delle bottiglie presenta anch'esso soggetti disposti su piani diversi e pertanto difficili da mantenere totalmente a fuoco. In primo piano, vecchi attrezzi in legno richiamano la tradizione vinicola della famiglia; lungo le pareti, le nicchie scavate nel tufo del Roero offrono le condizioni ideali per l'invecchiamento. Le solite alogene rivolte verso il soffitto emettono una luce soffusa che consente una visione chiara pur senza disturbare il riposo del vino. Qui è ancora più scuro che nella sala dei barrique e l'esposimetro mi richiede dodici minuti di posa. In questo caso, dato che i soggetti in primo piano sono posti più in basso rispetto all'asse di ripresa, aggiungo al basculaggio verso destra anche un leggero basculaggio verso il basso per aumentare il campo di nitidezza.

All'uscita, ecco la grande sala dei tini in acciaio (ultima fotografia in basso). Contrariamente alla cantina vera e propria questo ambiente è illuminato da lampade fluorescenti, la cui luce fredda ben si adatta alla freddezza dell'acciaio. Posso fotografare a f/32 con "soli" 30 secondi di posa. Anche in questo caso utilizzo il basculaggio della piastra anteriore per garantire la necessaria nitidezza a un soggetto così fortemente prospettico. Per le tre immagini, scattate nel formato 6x9 cm, ho utilizzato un Rodenstock Sironar 150 mm f/5,6: una focale che in questo formato risulta di poco superiore alla normale e che mi ha consentito, grazie al suo leggero effetto tele, di comprimere i piani prospettici avvicinando tra loro i diversi elementi dell'immagine.

Michele Vacchiano © 10/2001
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