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UGO MULAS.
LA SCENA DELL'ARTE

Tre grandi eventi espositivi celebrano fino ad ottobre 2008 l'opera di uno dei massimi esponenti della fotografia italiana del secondo dopoguerra. Esploriamo il suo universo creativo attraverso le sue stesse parole, tratte dal ricchissimo materiale contenuto nel catalogo edito da Electa

Tre città, tre musei realizzano per la prima volta in Italia una vasta mostra dedicata all'opera fotografica di Ugo Mulas, dagli esordi alle opere estreme. Roma, Milano, Torino congiuntamente presentano il più ampio spaccato che mai sia stato offerto al pubblico della fotografia che Mulas ha dedicato al mondo dell'arte contemporanea, fulcro della sua ispirazione d'autore. La retrospettiva, ordinata con il concorso dell'Archivio Ugo Mulas, presenta circa 600 opere suddivise in due sezioni parallele e contemporanee a Roma e a Milano. E successivamente, a giugno, confluenti in un'unica rassegna a Torino.

LE DATE:
Milano, PAC dal 5 dicembre 2007 al 10 febbraio 2008
Roma, MAXXI dal 4 dicembre 2007 al 2 marzo 2008
Torino, GAM dal 26 giugno al 19 ottobre 2008 (esposizione cumulativa, che riunirà in un'unica sede tutte le sezioni, per un totale di oltre 600 immagini).

LE SEZIONI:
Le Biennali di Venezia
Una selezione di alcune delle più belle ed evocative immagini realizzate alla Biennale tra il 1954 e il 1972 illustra l'evoluzione del reportage di Ugo Mulas. Le fotografie della rassegna veneziana costituiscono anche l'asse temporale della mostra, presentando i vari movimenti artistici internazionali che si succedono nei vent'anni di attività del fotografo.

«La mia attività ufficiale di fotografo è cominciata con la Biennale di Venezia del 1954. Allora non avevo nessuna pratica e nessuna arte. Il mio lavoro consisteva nel cercare di dare un'idea di questa "festa". Con la Biennale del 1958, e poi in quelle del 1960, del 1962, del 1964, ho sempre più precisato l'aspetto festoso dello stare insieme, del guardare, dell'esibire e dell'esibirsi, che nei pittori non mancava di aspetti auto-pubblicitari. Fotografavo tutto: non solo quelli che consideravo gli artisti più notevoli o le cose più importanti: non che mancasse la volontà di scegliere, ma sentivo che il mio non poteva essere un atteggiamento da critico, non c'era da capire qualcosa in particolare, non c'era da fare qualcosa quanto da registrare…» (Ugo Mulas, estratto dal testo in catalogo).

I ritratti
Questa sezione presenta una galleria dei vari protagonisti dell'arte italiana di quegli anni: non solo gli artisti, ma anche i critici, i galleristi e i collezionisti. Le immagini alternano diversi generi di ritratto, dal reportage (Adami, Manzoni, Giacometti) alla foto in studio (De Chirico, Morandi, Giulio Carlo Argan, Peggy Guggenheim) e ai ritratti d'artista. All'interno di questa sezione, alcuni "focus" approfondiscono e pongono in risalto il forte rapporto di amicizia e di collaborazione che Mulas ha intrattenuto con alcuni artisti italiani come Burri, Ceroli, Fontana, Manzù, Pascali, Schifano, Twombly.

«Quando si fa il ritratto a un persona, si può assumere un'infinità di atteggiamenti verso questa persona e farle assumere un'infinità di atteggiamenti verso chi fotografa. Non c'è ritratto più ritratto di quello dove la persona si mette lì, in posa, consapevole della macchina, e non fa altro che posare. Invece, solitamente, quando si dice che si vuole essere naturali non si intende essere naturali verso se stessi, ma essere naturali verso la macchina, cioè verso il fotografo, come per ingannarli, dire: "Io sono qui, ma fingo di non sapere che voi ci siete, così la mia finzione sarà più credibile". Invece fotografare uno mentre fa qualcosa è registrare un fatto, quindi fare della cronaca. Il ritratto in un certo senso è qualcosa di più nobile, rispetto alla fotografia di cronaca, purchè non ci sia nessuna reticenza, nessuna finzione verso l'operazione nel suo insieme, che deve essere la più scoperta, la più diretta possibile» (Ugo Mulas, estratto dal testo in catalogo).

Gli eventi
La sezione presenta una selezione di fotografie che segnano il passaggio dal reportage ad una indagine delle possibilità espressive e della fotografia, legata agli sviluppi dell'arte concettuale e del comportamento. Dalla mostra Sculture nella città a Spoleto (1962) a Campo Urbano a Como (1969), da Vitalità del Negativo a Roma (1970) al decimo anniversario del Nouveau Réalisme (1970) a Milano.

«Nel 1962, a Spoleto, fu organizzata una grande mostra di sculture nella città. M'interessava, in quell'occasione, scoprire (se c'era) un rapporto tra opere nate altrove e una città come Spoleto. C'erano opere che si fondevano scenograficamente nell'ambiente (un Don Chisciotte della Richer collocato davanti a un muro di pietra rosa, o un paio di oggetti di Chillida tra il manufatto agricolo e lo strumento di tortura, in un vicolo buio, contro delle mura sbrecciate). Oppure altre sculture così nuove, così sganciate da qualunque riferimento culturale, da dare l'impressione opposta: come se un oggetto extraterrestre si fosse posato, per un azzardo del caso, in una di queste vecchie piazze. La città, in altri termini, diveniva un reagente, assorbiva certe sculture, ne espelleva altre dal proprio tessuto...» (Ugo Mulas, estratto dal testo in catalogo).

New York: arte e persone 1964-1967
In questi anni l'attenzione degli artisti per i nuovi media e i fermenti della fotografia americana espressi da autori come Robert Frank e Lee Friedlander portano Mulas a superare definitivamente la tradizione del reportage classico. Le immagini della serie testimoniano i cambiamenti e la vitalità della scena artistica newyorchese: dagli happening alle serate negli atelier, in un'ottica sempre funzionale all'analisi della situazione artistica. L'incontro con artisti quali Duchamp, Warhol, Lichtenstein, Johns, Christo, Segal, Rosenquist, Dine, Oldenburg, Rauschenberg, Cage, favorisce in Mulas un'attenzione critica verso l'uso del medium fotografico che anticipa i lavori della fine degli anni Sessanta.

Nuove ricerche 1967-1969
La fine degli anni Sessanta è per Mulas il periodo dell'apertura alla sperimentazione sull'immagine fotografica nei vari contesti della comunicazione visiva. Nascono lavori che esplorano le diverse possibilità comunicative del mezzo: non più solo opere destinate alle riviste illustrate ma create per essere raccolte in libri e cataloghi (Campo Urbano, Vitalità del Negativo, Calder, Melotti); in grandi provini (Johns, Newman, Noland); in cartelle fotografiche come quelle su Fontana, Duchampe Montale; in scenografie teatrali (Wozzeck, Giro di Vite). I grandi formati, le proiezioni, le solarizzazioni, l'uso dell'iconografia del provino, sono tutti elementi che Mulas recupera dalla pratica quotidiana del suo fare, dalle sperimentazioni pop e new dada e da un'attenta rilettura della storia della fotografia, che diventa il riferimento centrale di fronte ai cambiamenti radicali apparsi alla fine del decennio. La crisi del reportage e la ricerca di nuove significazioni per un linguaggio ormai privo del suo primato d'informazione rispetto all'avanzare della televisione portano Mulas ad uno straordinario lavoro di riflessione critica sulla fotografia.

«Di Lucio Fontana ero amico, come lo eravamo tutti, qui a Milano, uno dei tanti suoi amici. Di tutte le fotografie, soltanto una serie – praticamente fatta nel giro di una mezz'ora – ha un senso preciso. Fino a quel momento l'avevo fotografato e basta, ora volevo finalmente riuscire a capire che cosa facesse. Forse fu la presenza di un quadro bianco, grande, con un solo taglio, appena finito. Quel quadro mi fece capire che l'operazione mentale di Fontana (che si risolveva praticamente in un attimo, nel gesto di tagliare la tela) era assai più complessa e il gesto conclusivo non la rivelava che in parte. In una delle foto, lo si vede di spalle, si vede una tela dove non c'è ancora niente, c'è soltanto una tela e lui nell'atteggiamento di chi comincia a lavorarci sopra. È il momento in cui il taglio non è ancora cominciato e l'elaborazione concettuale è invece già tutta chiarita. Cioè quando vengono a incontrarsi i due aspetti della operazione: il momento concettuale che precede l'azione, perché quando Fontana decide di partire ha già l'idea dell'opera, e l'aspetto esecutivo, della realizzazione dell'idea. Forse proprio per questa concentrazione e aspettativa concettuale Fontana ha chiamato i suoi quadri di tagli "Attese"...» (Ugo Mulas, estratto dal testo in catalogo).

Le Verifiche
Le Verifiche (1970-1972; dodici immagini), per la radicalità dell'analisi e lo spessore concettuale che le sostiene, rappresentano le opere più significative dell'ultima stagione creativa dell'autore e il testamento più toccante della profondità cui è giunta l'esplorazione del mezzo, da parte del suo pensiero e del suo sguardo. Quest'opera, per la radicalità dell'analisi e il rigore formale, rimane una testimonianza lucida e un lascito che inaugura la stagione della fotografia contemporanea.

«Nel 1970 ho cominciato a fare delle foto che hanno per tema la fotografia stessa, una specie di analisi dell'operazione fotografica per individuarne gli elementi costitutivi e il loro valore in sé. Per esempio, che cosa è la superficie sensibile? Che cosa significa usare il teleobiettivo o un grandangolo? Perché un certo formato? Perché ingrandire? Che legame corre tra una foto e la sua didascalia? ecc. Sono i temi, in fondo, di ogni manuale di fotografia, ma visti dalla parte opposta, cioè da vent'anni di pratica, mentre i manuali sono fatti, e letti, di solito, per il debutto. Può darsi che alla base di queste mie divagazioni ci sia quel bisogno di chiarire il proprio gioco, così tipico degli autodidatti, che essendo partiti al buio, vogliono mettere tutto in chiaro, e conservano rispetto al mestiere conquistato giorno dopo giorno, un certo candore e molto entusiasmo. Ho chiamato questa serie di foto Verifiche, perché il loro scopo era quello di farmi toccare con mano il senso delle operazioni che per anni ho ripetuto cento volte al giorno, senza mai fermarmi una volta a considerarle in se stesse, sganciate dal loro aspetto utilitaristico» (Ugo Mulas, estratto dal testo in catalogo).

Verifica 1 - Omaggio a Nièpce (1971)

«La fotografia che ho intitolato Omaggio a Niépce è il risultato di un riesame del mio lavoro di fotografo che ho fatto alcuni anni fa. Ho dedicato a Niépce questo primo lavoro, perché la prima cosa con la quale mi sono trovato a fare i conti è stata proprio la pellicola, la superficie sensibile, l'elemento cardine chiave di tutto il mio mestiere, che è poi il nucleo intorno al quale ha preso corpo l'invenzione di Niépce. Per una volta il mezzo, la superficie sensibile, diventa protagonista; non rappresenta altro che se stesso.
Siamo di fronte a un rullo vergine sviluppato; il pezzettino che è rimasto fuori del caricatore ha preso luce indipendentemente dalla mia volontà, perché è il pezzettino che prende "sempre" luce quando si deve innestare la pellicola sulla macchina: è un fatto fotografico puro. Prima ancora che il fotografo faccia qualsiasi operazione, già è avvenuta qualche cosa. Oltre a questo pezzettino che prende luce all'inizio, ho voluto salvare anche il tratto finale, quello che aggancia la pellicola al rocchetto. È un pezzettino che non si usa mai, che non viene mai alla luce, che si butta via, eppure è fondamentale, è il punto dove finisce una sequenza fotografica. Mettere l'accento su questo pezzetto vuol dire mettere l'accento sul momento in cui togli dalla macchina la pellicola per portarla in laboratorio. Vuol dire chiudere. Anche questa è una presenza fotografica, perché, essendoci ancora appiccicata della colla che fa corpo, la luce in quel punto non passa. Potrei aggiungere che questo omaggio a Niépce rappresenta trentasei occasioni perdute, anzi, trentasei occasioni rifiutate, in un tempo in cui, come scrive Robert Frank riferendosi al fotogiornalismo, l'aria è divenuta infetta per la puzza di fotografia
» (Ugo Mulas, estratto dal testo in catalogo).

Contro la teoria dell'istante decisivo. Fotografia come "ready-made"
(testo di Ugo Mulas, tratto dal catalogo)

«Un'idea che non mi andava giù era quella tanto diffusa negli anni Cinquanta, quando ho cominciato a fotografare (sviluppatasi, credo, su una cattiva lettura di certe dichiarazioni o di certe foto di Cartier-Bresson, portate poi all'esasperazione da un certo tipo di giornalismo), idea secondo la quale una foto non contava tanto per la sua verità quanto per l'effetto, per il colpo che poteva produrre sulla fantasia del lettore. Da allora questo gioco non ha fatto che degenerare, non solo nel foto-giornalismo, ma in ogni campo dove la foto è mercificata, nel cinema, che si fa ogni giorno più volgare, più aggressivo pur di compiacere il gusto del pubblico che, come un drogato, ogni giorno, ha bisogno di una dose di più.

Diverso in parte è il caso della fotografia, che, bene o male, lavora sulla realtà come scriveva proprio Cartier-Bresson presentando nel 1952
Images à la sauvette. "A travers nos appareils, nous acceptons la vie dans toute sa réalité", che è un condensato di tutto quello che si può dire o scrivere sul fotografare. Assai meno chiaro è quando scrive che si deve avvicinare il soggetto a passo di lupo, e che il fotografo è sempre alle prese con degli istanti fuggitivi. Frasi, queste ultime, che, sganciate dal loro contesto e collegate a certe foto limite dello stesso Cartier-Bresson, possono aver dato un contributo alla diffusione del gusto per una fotografia di rapina, di caccia all'immagine più rara e imprevedibile, per cui il fotografo sarebbe un predatore in continuo agguato, pronto a carpire l'istante fuggitivo, non importa quale, purché eccezionale, possibilmente unico e irripetibile.

Non è che questa teoria non abbia i suoi lati suggestivi e veri, ma non riuscivo ad accettare l'idea di tutta una vita passata alla macchina in attesa di questo raro evento, di queste poche decine o centinaia di attimi privilegiati da raccogliere poi in un album o in un libro come il cacciatore attacca sui muri di casa i trofei più significativi. Io rifiuto questa idea o teoria dell'attimo fuggitivo, perché penso che tutti gli attimi siano fuggitivi e in un certo senso uno valga l'altro, anzi, il momento meno significativo forse è proprio quello eccezionale.
Nello stesso senso non ho mai amato fotografare paesi lontani, esotici, non ho visto la Cina, né l'India, né il Giappone, né l'America del Sud, né la Lapponia o l'Oceania, anche se il mestiere mi ha costretto qualche volta a lunghi, noiosissimi viaggi. Non voglio negare l'utilità dei viaggi, sia quelli fatti per diporto, sia quelli di studio, purché non si stia sempre con l'occhio incollato al mirino fotografico; perché penso che un fotografo possa correre avventure non meno eccitanti e istruttive girovagando a piedi tra Porta Romana e Porta Ticinese, magari esplorando gli appartamenti degli inquilini del suo stesso stabile, dei quali spesso ignoriamo perfino il nome. Ciò che veramente importa non è tanto l'attimo privilegiato, quando individuare una propria realtà; dopo di che, tutti gli attimi più o meno si equivalgono.

Circoscritto il proprio territorio, ancora una volta potremo assistere al miracolo delle "immagini che creano se stesse", perché a quel punto il fotografo deve trasformarsi in operatore, cioè ridurre il suo intervento alle operazioni strumentali: l'inquadratura, la messa a fuoco, la scelta del tempo di posa in rapporto al diaframma, e finalmente il clic. Qui,
"grazie all'apparecchio, noi accettiamo la vita in tutta la sua realtà", quindi anche in ogni suo "attimo fuggitivo", e siamo giunti, o tornati a quel tempo mitico cui accennavo all'inizio, dove "gli oggetti si delineano da sé, senza l'aiuto della matita dell'artista".
Al fotografo il compito di individuare una sua realtà, alla macchina quello di registrarla nella sua totalità.

Due operazioni strettamente connesse ma anche distinte, che, curiosamente, richiamano nella pratica certe operazioni messe a punto da alcuni artisti degli anni Venti: penso ai
ready-made di Marcel Duchamp, a certi oggetti di Man Ray, dove l'intervento dell'artista era del tutto irrilevante sotto l'aspetto operativo, consistendo nell'individuazione concettuale di una realtà già materializzata che bastava indicare perché prendesse a vivere in una dimensione "altra", cosicché l'oggetto, fino a quel punto identico a mille altri, cominciava a inserirsi in una sfera ideale sganciata per sempre dal mondo inerte delle cose.
A questo punto, mi pare utile riprodurre alcune parole tratte dal testo che Marcel Duchamp pubblicava in
The Blind dopo che gli organizzatori del primo "Salon des Indépendants" di New York, nel 1917, rifiutarono di esporre la Fontana, il famoso orinatoio firmato Richard Mutt (nome di un fabbricante di articoli sanitari), ma inviata da Duchamp: "Non ha nessuna importanza che Mutt abbia fabbricato la fontana con le proprie mani oppure no; egli l'ha scelta; egli ha preso un elemento comune del- l'esistenza, e l'ha disposto in modo che il significato utilitario scompare sotto il nuovo titolo e il nuovo punto di vista; egli ha creato un nuovo pensiero per tale oggetto"» (Ugo Mulas, estratto dal testo in catalogo).


I LIBRI PER SAPERNE DI PIU'

Tutte le citazioni sono tratte dal volume "Ugo Mulas. La scena dell'arte", edito da Electa, che accompagna degnamente i tre eventi espositivi. In 568 pagine (formato 24x28cm, copertina rigida con sovraccoperta e cofanetto) sono racchiuse tutte e 600 le immagini che compongono la rassegna, suddivise nelle seguenti sezioni: Milano 1953-54; Jamaica; Biennale di Venezia 1954-72; Spoleto, "sculture nella città"; Calder; Ritratti; Fontana. L'Attesa; Duchamp; New York 1964-65; Campo Urbano; Nouveau Réalisme; Vitalità del Negativo; Ossi di seppia, 1962; Wozzeck. Scenografie; Giro di vite. Scenografie; Verifiche.
Ricchissimo ed esaustivo anche l'apparato testuale, che propone, oltre ai numerosi interventi dello stesso Mulas a corredo delle immagini, anche una minuziosa biografia e cinque saggi critici: "I lumi di Mulas. Una verifica semiotica" di Paolo Fabbri; "L'elemento del tempo" di Jean-François Chevrier; "Idea, progetto, processo, vita" di Angela Vettese; "Un fotografo attraverso l'arte contemporanea" di Tommaso Trini; "Ugo Mulas 1953-1973. Verifiche dell'arte" di Giuliano Sergio. Una testimonianza eccezionalmente completa sul lavoro di Mulas, così come un pregevole strumento di indagine e riflessione sul ruolo della fotografia rapportata al mondo dell'arte. Ordinabile online al prezzo di 75 euro.

In occasione della rassegna, inoltre, Einaudi ha da poco riportato in libreria il volume "Ugo Mulas. La fotografia", a distanza di oltre trent'anni dalla sua prima edizione. Il raffinato volume (178 pagine, circa 80 foto, formato 21x21cm, copertina rigida con sovraccoperta) ripercorre, attraverso una selezione delle più significative immagini introdotte da testi di Mulas stesso, l'opera e la riflessione poetica del fotografo, dalle Biennali, ai ritratti degli artisti al lavoro, alle Verifiche.
Una breve recensione del libro (relativa all'edizione del 1972 e redatta in occasione della mostra che si tenne a Milano nel 2000) è consultabile su Nadir nell'ambito dell'articolo Ugo Mulas. Piccolo dossier in tre punti.
Il libro è ordinabile online al prezzo di 48 euro.