A Palazzo Reale di Milano (fino al 6 gennaio 2008), 350 opere hanno il compito di raccontare la carriera di un artista ritenuto tra i primi dieci fotografi al mondo. Vizi ed ossessioni contemporanee trasfigurate dalla visionarietà barocca di un virtuoso dell'immaginario.
Diluvio. Cielo livido, minacciosamente vorticoso, e corpi nudi immersi nella verde palude dell'ira divina. Pose enfatiche, disperati tentativi di non lasciarsi trascinare sul fondo di un non-ritorno. Ci si arrampica, ci si aggrappa a quel poco scampato alla distruzione. Uomini che ne sorreggono altri, dispensando membra e speranza a chi sta per soccombere. Solidarietà è la parola d'ordine; pietà e "alleanza" seguono a ruota. Sullo sfondo, incombenti e maestose come colonne d'un tempio greco, svettano le apocalittiche insegne: Gucci, Cæsar Palace, Burger King.
Visitare una mostra di LaChapelle (e questa milanese è da non lasciarsi sfuggire, essendo la più ricca e completa mai allestita finora) è come venir trascinati nel buio della tana di un Bianconiglio dannatamente nevrotico, in grado di condurci in discesa libera verso il bel mezzo di un Paese delle Meraviglie allucinato e grottesco, sfolgorante di colori e stridente di paradossi frastornanti, in cui significato e significante rispondono all'imperativo categorico del "troppo".
Una fotografia smaccatamente barocca, quella di LaChapelle; eccessiva, sovrabbondante e kitsch per vocazione, satura di un'irriverenza amara e irresponsabile insieme, che parla degli argomenti più scottanti della contemporaneità attraverso uno stile sfacciatamente "glamour", patinato fino all'esasperazione (fino al ridicolo, fino alla presa in giro di sé stesso), in equilibrio volutamente precario tra la gaudente tragedia della perdizione e un umorismo morigerato di stampo vagamente "salvifico".
Tutto e il contrario di tutto. Fiaba e catastrofe. Purché all'insegna dell'eccesso.
LaChapelle in questo è davvero maestro. E non c'è da stupirsi, considerato il suo esser cresciuto all'ombra di un Andy Warhol intento alla gestione priva di scrupoli della sua "Factory": fucina di nuovi talenti, letteralmente gettati in pasto allo "star system" e poi abbandonati al loro destino di miti impreparati, che fu spesso di morte: per droga, Aids, suicidio (due nomi per tutti: Keith Haring e Jean-Michael Basquiat). LaChapelle nasce artisticamente proprio in quella New York degli anni Ottanta che, al di là degli stereotipi, ricorda come "un incubo", soprattutto per la minaccia dell'Aids che decimava amici, compagni e conoscenti con impressionante velocità, senza che fosse ancora possibile individuare la malattia con test diagnostici. Una curiosità: nato "in bianco e nero", LaChapelle si convertì al colore negli anni Novanta, quando fu in grado di sapere con certezza di non essere affetto dal virus dell'HIV; un uso del colore traboccante quanto la gioia di sapersi un "sopravvissuto", contro ogni aspettativa: «Quella fu la mia reazione. Penso che il mio scopo, da quel momento in poi, fosse di offrire una via d'uscita dalla pesantezza dell'epoca in cui vivevo. Volevo fare foto meravigliose che portassero chi le guardava in un altro mondo, più allegro».
Addentrandoci in questo sfavillante luna park dell'immagine, che riempie con la sua chiassosa atmosfera l'intero piano terra di Palazzo Reale, l'inatteso è in agguato in ognuna delle 13 sezioni. Che si abbiano o meno delle riserve nei confronti dell'opera lachapelliana, certo è che non si potrà fare a meno di stupirsi, nel bene o nel male che sia.
La mostra si apre con i lavori più recenti (datati 2007), raccolti sotto l'etichetta del "Diluvio": qui, oltre all'immagine dalla quale siamo partiti, troviamo una serie di affascinanti "visioni" che hanno come comune denominatore la potenza distruttiva/purificatrice dell'acqua, intesa come elemento in grado di fare misericordiosamente "tabula rasa", in maniera enfaticamente scenografica, di ogni stortura umana.
Acqua, che come liquido amniotico accoglie e sostiene i corpi abbandonati degli Awakened (i Risvegliati), come a dire che la rinascita della società deve necessariamente passare dal "risveglio", dalla recuperata innocenza di ogni singolo individuo.
Acqua, torbida e inopportuna visitatrice di eleganti sale di museo, nelle surreali, ammalianti immagini "Museum" e "Statue" (in alto); opere d'arte d'inestimabile valore, in balìa dell'indifferente furia degli elementi, svelano l'Arte per quello che è: meravigliosa e inutile.
Acqua, che scardina allegoricamente l'ombra silenziosa di una chiesa intarsiata di vetrate (in "Cathedral"), soprendendo un gruppo di fedeli che, come in "Diluvio", riscoprono (con imperdonabile ritardo) il valore della solidarietà tra esseri umani e il timore reverenziale nei confronti del divino.
Quello della catastrofe è un tema ricorrente in LaChapelle, al limite dell'ossessione; lo ritroviamo per esempio nella sezione "Destruction and Disasters": paesaggi devastati da calamità naturali, disastri tecnologici o raptus individuali, abitati da figure elegantemente scarmigliate, come nella foto "La casa alla fine del mondo" (sopra).
Il confronto con l'arte del passato, che come abbiamo visto è un elemento onnipresente e determinante nella costruzione delle immagini di LaChapelle, si spinge fin nel cuore del XX secolo: e se in "Dream evokes Surrealism" LaChapelle evade dal reale in maniera ancor più marcata, issandosi sulle spalle di professionisti dell'onirico come Magritte e Dalì, in "After Pop" vengono riproposte iconografie tipiche della Pop Art (da Oldenburg, a Wesselmann, fino ovviamente a Warhol), quali la serialità, l'ingigantimento spropositato degli oggetti di consumo e la loro straniante decontestualizzazione.
Il binomio "Consumo/Consunzione", che porta con sé l'amara riflessione sulla nevrosi compulsiva, sulla brama parossistica di possesso di oggetti materiali propria dell'uomo contemporaneo, si concretizza in immagini che ritraggono l'essere umano ridotto ad un manichino che ha smarrito il suo senso, e che rincorre una felicità fittizia acquistando e accumulando quanto più può.
E' un uomo ormai retrocesso a "cosa tra le cose", quello che LaChapelle rappresenta nelle immagini della serie "Accumulation", dominate da un horror vacui che non può non richiamare alla mente, ancora una volta, la ridondanza dell'arte barocca.
Un uomo avvelenato dal narcisismo e dalla smania di apparire, che in "Plastic People" arriva fino a mettere a repentaglio la propria integrità fisica, deformando il proprio corpo come in un martirio autoinflitto. Un uomo che brancola a casaccio, quello di LaChapelle, come una buffa marionetta senza più neanche il sostegno di quel misero filo che pendeva dall'alto. Che si pone domande assurde come "What will you wear when you're dead?" ('Cosa indosserai quando sarai morto?'), solo per riempire di futilità quell'abissale vuoto di significato che è riuscito a costruirsi intorno.
«L'illuminazione arriverà - sentenzia LaChapelle -, e se non viene dall'arte non so da dove possa venire. Non certo dalla CNN». E allora, spegniamo la tv, e già che ci siamo facciamo un salto a Palazzo Reale. Tentar non nuoce.
Serena Effe © 11/2007
Riproduzione Riservata
Il bel catalogo che accompagna la mostra, edito da Giunti, è attualmente la più esaustiva e curata pubblicazione circa l'opera di David LaChapelle. |