Prendete un fotografo naturalista, affidategli sette persone che non si sono mai incontrate prima, inserite il tutto in un ambiente di alta montagna...
"Quanti sono?" Così due giorni dopo
carico in macchina il mio zaino sempre stracolmo, gli scarponi, i
bastoncini da trekking e parto per Valnontey. Lo so, il rifugio Vittorio
Sella è una meta forse troppo conosciuta e frequentata, ma chi si
iscrive a un workshop di fotografia della natura vuole essenzialmente
vedere gli animali e lì ne è pieno: ormai gli stambecchi
sono talmente abituati alla presenza dell'uomo che potete avvicinarli
come se fossero mucche. I maschi, perché le femmine con i piccoli
sono tutta un'altra faccenda. E poi ci sono i camosci, i gracchi alpini,
le marmotte... Se si evita la domenica non è difficile attirare
un cucciolo peloso offrendogli grissini o biscotti.
Sulla carta dell'Europa la Valle d'Aosta è poco più grande di un'unghia ma le distanze sono enormi. Il fatto è che le strade sono tutte una curva. Scendere da Fenilliaz, percorrere l'autostrada da Verrès ad Aosta ovest e risalire la Valle di Cogne richiede non meno di un'ora e mezza: praticamente come arrivarci da Torino. Così per essere alle otto davanti ai cancelli del giardino alpino Paradisia devo alzarmi alle sei. Qui uscire al mattino presto è una sensazione unica. Il canto degli uccelli e il gorgoglìo della sorgente che sgorga accanto a casa sono gli unici rumori che percepisco. Alle narici giunge il profumo di un fuoco di legna: qualcuno, nel villaggio, ha già acceso il camino. Fenilliaz è un minuscolo paese di vecchie case, popolato da mucche, allevatori e qualche abitante della pianura che ha scoperto la meraviglia dell'abitare quassù. È vero, se dimentichi il latte devi farti sei chilometri di strada (o, a scelta, un'ora di sentiero) per scendere fino a Brusson, ma dalla finestra della mia camera da letto vedo le Dames de Challant e tutto l'opposto versante della valle grande, le montagne di Champorcher fino alla Rosa dei Banchi che all'alba tinge di rosa i suoi ghiacciai.
È agosto, ma a quest'ora l'aria punge. In questa valle l'aria del mattino ha il sapore dell'acqua, come sulle rive di un grande lago: forse è la brezza che per tutta la notte ha spirato dalle vette, portando giù il profumo delle nevi eterne e dei ghiacciai sterminati del Monte Rosa, o forse è l'odore delle nebbie che si condensano in fondovalle, dando a chi è quassù l'impressione di vivere sulla riva di un fiordo, tanto è fitto il mare di nubi giù in basso.
Quando arrivo a Valnontey
sono le otto meno dieci. Parcheggio nel solito piazzale del ristorante,
dove si fermano tutti anche se in teoria sarebbe riservato ai clienti,
e mi avvio verso Paradisia. Il giardino botanico è chiuso,
a quest'ora, ma essendo molto conosciuto è sempre un ottimo
posto per un appuntamento. Non c'è ancora nessuno: ho tempo
per guardarmi un po' intorno.
La Valnontey è
come il cortile di casa: ne conosco ogni angolo, ogni taglio di luce,
riconosco il colore dei fiori e il profumo dell'aria come amici che
ritrovo sempre con gioia, per quanto a lungo ne sia rimasto lontano.
La mattina profuma di resina: la brezza di monte porta verso il villaggio
gli incanti e i sussurri della foresta. Non appena il sole avrà
riscaldato gli strati d'aria più bassi la direzione del vento
cambierà e la brezza di valle reclamerà il predominio,
disegnando candidi fiocchi di panna sullo sfondo cobalto del cielo.
Sto osservando un puntino
lontano che volteggia sopra la vetta della Rocciaviva quando mi sento
chiamare: "Il dottor Vacchiano è lei?" Sono i primi ad arrivare,
marito e moglie, sulla cinquantina. Non so perché, mi ricordano
Enrico la Talpa e la moglie Cesira, i noti personaggi dei fumetti
di Lupo Alberto. Lui calza un paio di sandali, tipo birkenstock, con
la suola in cuoio. Penso che da qualche parte abbia un paio di scarponi,
che si infilerà al momento di partire, e non dico nulla. Chi
parla è la moglie. Parla in continuazione, non sta zitta un
secondo. In tre minuti netti apprendo che lei non è mai stata
in montagna, che non gliene potrebbe fregare di meno, che odia la
fotografia e che è lì soltanto per via di suo marito
il quale praticamente ce l'ha trascinata a forza. Do un'occhiata all'uomo
nella speranza di un suo intervento (qualcuno dovrebbe pur sapere
come spegnerla), ma quello rimane impassibile, come se nulla fosse.
Forse è abituato, o forse ormai è rassegnato. Comunque
la signora non sa se avrà voglia di salire fino al rifugio
per cui il gruppo dovrà considerare la possibilità di
tornare indietro a metà strada. Le spiego, con la cortesia
impostami dal ruolo che ricopro, che - se del caso - sarà lei
a tornare indietro e non certo il gruppo, composto da persone che
hanno pagato per trascorrere un'intera giornata in montagna a fotografare
sotto la guida di un esperto. Mi risponde che se è per quello
anche lei è esperta di cucito. Non capisco la battuta ma annuisco
sorridendo.
Nei cinque minuti successivi
arrivano anche gli altri. Per primi due tipi atletici e aitanti, padre
e figlio di Reggio Emilia, praticamente identici se non fosse per
le rughe e il colore dei capelli. Indossano zaini mostruosi, come
se dovessero affrontare un trekking di quindici giorni attraverso
le steppe dell'Asia centrale.
Poi un poliziotto di
Roma, in canottiera e pantaloncini corti. Si presenta con una stretta
di mano granitica: "Osvaldo". Non ha zaino, solo un voluminoso marsupio
contenente la macchina fotografica e i panini. Gli suggerisco discretamente
che in montagna il tempo cambia in fretta e che sarebbe stato il caso
di portare con sé un maglione e un paio di pantaloni di ricambio.
Mi risponde, con un garbato giro di parole, di farmi gli affari miei,
ché lui al freddo e al caldo è abituato. Reprimo a stento
un sogghigno sarcastico (in occasioni formali so dissimulare con abilità),
ma non posso non pensare al rischio che sta correndo. Oh, beh, io
l'ho avvertito.
Il sesto partecipante
è Luciano, un giovane fotografo milanese. E' specializzato
in fotografia di cerimonia ma si è iscritto al workshop perché
gli piace la fotografia della natura. Si presenta in scarpe da tennis,
con la Zenza Bronica appesa al collo.
"Mi scusi se mi permetto" azzardo, "ma lei non mangia?"
"In che senso?" mi domanda stupito.
"Beh, nel senso che non ha con sé acqua, panini o generi di
conforto..."
"Ah, ma pranziamo fuori?"
"No, cioè, scusi, dove vorrebbe pranzare?"
"Ma, non so, qui intorno..."
Rimane molto stupito quando gli spiego che c'è da camminare
almeno tre ore in salita, lungo un sentiero dove non troveremo né
bar né - soprattutto - acqua da bere.
"Ma come, con tutta l'acqua che c'è in montagna?"
Gli spiego un paio di cose sull'acqua di montagna e sullo svolgimento
del workshop (evidentemente non ha letto la locandina perché
lì io spiego sempre tutto con maniacale pignoleria), poi lo
convinco a correre in paese per comperarsi da mangiare.
Nel frattempo arriva l'ultima partecipante: una signora di Cuneo, giovane e decisamente affascinante, piuttosto raffinata a giudicare dagli orecchini di perle e dalle unghie accuratamente laccate. Indossa pantaloncini corti (molto corti!) e un paio di scarponi nuovi di pacca, con i calzettoni vezzosamente arrotolati sulla caviglia. Saluta con ostentata nonchalance, come una principessa di sangue reale in visita alle truppe di terra, senza neppure togliersi gli occhiali a specchio (peccato, mi sarebbe piaciuto vedere di che colore ha gli occhi). È una di quelle donne che ti parlano con il nasino rivolto all'insù. Penso fra me che potrebbe darci dei problemi (sembra la solita schizzinosa a cui non va mai bene niente) ma mi ricredo subito: no, non è esperta di fotografia ma si è fatta una mezza dozzina di quattromila sulle Alpi, senza contare un paio di trekking himalayani e un viaggetto in America latina con vetta da seimila metri inclusa nel tour. Dice di chiamarsi Diana. Pensavo che un nome simile lo avessero solo i cani da caccia e le americane.
Bene, il gruppo non potrebbe essere più scompagnato, ma dopotutto è questo il bello della situazione. Fornisco due dritte sullo svolgimento della giornata e finalmente si parte.
I primi cento metri di
dislivello lungo il sentiero del Lauson si fanno in silenzio: al mattino
presto quel versante è ancora in ombra, il percorso è
ripido e accidentato: due fattori che non invogliano alla conversazione.
Ci innalziamo di una trentina di metri prima che lo sguardo mi cada
sui piedi del signore cinquantenne.
"Mi scusi, ma lei non mette gli scarponi?"
"No, perché?"
"Mah, direi che sarebbe il caso: i sandali aperti non sono l'ideale
sui sentieri di montagna..."
"Oh, non si preoccupi, sono abituato."
La seconda risposta del genere in meno di venti minuti! Ma qui si
tratta di vera incoscienza: in montagna le scarpe ti possono salvare
la vita e qui con tutti i sassi che ci sono non ci vuol niente a scivolare,
con quelle stupide suole di cuoio. Gli suggerisco discretamente di
rinunciare, piuttosto gli restituisco i soldi, ma lui non intende
ragioni, come del resto mi aspettavo. Vuol dire che gli resterò
accanto e lo terrò d'occhio, evitandogli i passaggi potenzialmente
più pericolosi. Del resto, sembra che se la stia cavando egregiamente.
Dopo circa mezz'ora di
cammino propongo al gruppo di fermarsi. Forse loro non lo apprezzeranno
quanto me, ma la natura sta per rappresentare lo spettacolo che più
amo al mondo. Di fronte a noi, dietro le cime innevate dell'opposto
versante, sta per sorgere il sole. La linea d'ombra scende rapidamente
lungo il pendio alle nostre spalle e tra poco ci sorpasserà.
In quel momento vedremo il sole affacciarsi dietro la cresta di roccia
e ghiaccio e sembrerà che siano le montagne a generare quel
trionfo di luce.
Dapprima un lieve lucore, poi l'orlo superiore del ghiacciaio che si accende d'argento, poi una fetta di sole che presto diviene abbagliante e inonda di sé la vallata. Il piccolo popolo che vive tra i fiori si sveglia all'improvviso e coleotteri, api, formiche e farfalle di ogni specie inondano il prato di voli e colori, mentre migliaia di cavallette innamorate iniziano ad accordare i loro strumenti. Lascio che il gruppo mi sorpassi (forse non capiscono perché li ho fermati), traccio un rapido segno di croce e apro il mio animo alla gratitudine. È il mio modo di pregare, quando sorge il sole in montagna.
La luce scioglie la fatica
e invoglia alla conversazione. I due di Reggio Emilia avanzano con
determinazione, scambiandosi ogni tanto qualche battuta di incoraggiamento.
Affrontano il sentiero come se dovessero battere un record di durata,
con quei loro zaini affardellati all'inverosimile. Mi auguro che almeno
siano pieni di attrezzature fotografiche. Enrico La Talpa e la moglie
stanno litigando, proprio come nei fumetti, ma non mi soffermo ad
ascoltare di che cosa parlano. Il fotografo milanese e il poliziotto
stanno incollati alla giovane signora come le seppie all'epoca dell'accoppiamento.
Lei cammina con passo elastico e costante, altezzosa e taciturna,
con l'atteggiamento distaccato di chi è abituata al corteggiamento
e lo considera un effetto collaterale della vita, un aspetto dell'esistenza
inevitabile del quale - di conseguenza - non vale la pena curarsi.
Ritengo che se la cavi benissimo da sola e mi guardo bene dal cercare
di liberarla.
Dopo un'ora e mezza di
cammino propongo la prima sosta. Stiamo procedendo più lentamente
del dovuto, soprattutto a causa della signora Cesira (ormai la chiamo
così, del resto non si è presentata) che procede a fatica.
Se solo smettesse per un istante di parlare forse troverebbe il fiato
per salire.
Approfitto della fermata
per descrivere quanto abbiamo intorno. Il gruppo degli Apostoli si
erge sul ghiacciaio di Money in tutto il suo splendore, illuminato
dal parziale controluce. Indico le cime nominandole ad una ad una
e finalmente vedo spuntare le prime macchine fotografiche. Padre e
figlio appoggiano in terra gli zaini e li aprono. Adesso voglio proprio
vedere che razza di mostruosità si portano lì dentro…
Reprimo a stento un grido di sorpresa quando vedo spuntare due Nikon
Coolpix!
"Ehm... ma… il resto del corredo?" azzardo timidamente.
"Ah no, noi abbiamo solo queste."
Decido che non voglio morire senza prima sapere che cosa accidenti
c'è dentro quegli zaini.
"No, è solo che… pensavo che con degli zaini così…"
"Ah, quelli. No, no, è che se mettevamo la reflex non ci stava
il mangiare."
Ora, io in montagna mangio (quando mangio) una mela e tre fette di
speck accompagnate da pane nero. Se proprio decido di esagerare, finisco
con una fetta di toma. Il mio pranzo sta in un marsupio, o in una
delle tasche esterne dello zaino. Ma questi che cosa diavolo si saranno
portati!? Decido di soprassedere, dopo tutto sono già stato
indiscreto, ma vedo che la mia curiosità è condivisa
dal resto del gruppo.
Il poliziotto in canottiera
ha le spalle quasi ustionate. Gli offro la mia camicia di ricambio
ma ottengo un fermo rifiuto. Capisco bene le ragioni per cui fa il
duro, ma non credo che le sue vanterie da macho serviranno a renderlo
interessante agli occhi di Diana. Sicuramente serviranno a procurargli
un eritema solare. Questa sera avrà la febbre, a meno che non
muoia prima di insolazione: ha il cranio rasato e ovviamente è
senza berretto.
Intanto lei, l'oggetto
del desiderio, si sfila lo zainetto con grazia felina e ne estrae
una camicetta candida. Camminando con la flessuosità di un'indossatrice
si allontana un poco dal gruppo per cambiarsi. Torna dopo un paio
di minuti e si siede su una roccia per spalmarsi di crema solare.
Si massaggia con studiata lentezza le gambe lisce e abbronzate, con
il capo reclinato e i biondi capelli ricci appena mossi dal vento.
Il giovane milanese è quasi in trance: vorrei suggerirgli almeno
di chiudere la bocca ed evitare di gemere, oltretutto non sta bene
fissare una ragazza senza nemmeno battere le ciglia. Dal canto suo
Osvaldo insiste nel suo atteggiamento da maschio ruspante: si toglie
la canottiera e inspira profondamente l'aria dei duemila metri, gonfiando
il petto villoso. Ma la bella non lo degna di uno sguardo e continua
imperterrita ad accarezzarsi le gambe. Sinceramente non capisco perché
lo faccia. Forse le piace provocare, magari ha deciso di farsi notare
(ma da chi?) o forse è semplicemente fatta così, rilassata
e spontanea. Ma a pensarci bene quest'ultima ipotesi non regge: in
realtà l'immagine della "madamin" di provincia, tanto ingenua
e candida quanto attraente, mal si adatta alla nostra amica, troppo
consapevole dei propri pregi per non farne un uso sapiente e deliberato.
Mi chiedo soltanto a chi siano destinate le sue esibizioni.
Decido che la sosta è
durata abbastanza e do il segnale di partenza. Tra poco usciremo dal
bosco e affronteremo quel lungo traverso, meno accidentato ma decisamente
più assolato, che qui chiamano "la tiralunga". E' il momento
di incominciare a parlare, descrivere, raccontare, per vincere la
noia e la fatica della salita. Mi lancio in un'accurata descrizione
della geologia della valle, scomodo movimenti tettonici e glaciazioni
quaternarie, suscito un vivo interesse soprattutto in Diana (e per
simbiosi in Luciano, che le sta appiccicato come un'ostrica vibrando
all'unisono con lei). La fanciulla cammina con passo costante, come
chi è abituato alla montagna, senza mostrare il minimo segno
di affaticamento. Interviene nel mio discorso con domande intelligenti
e puntuali, ma senza sciupare una parola in più di quelle strettamente
necessarie.
Io cambio spesso posizione
all'interno della fila: non voglio che qualcuno si senta trascurato,
per cui ogni tanto mi fermo ad aspettare gli ultimi (Enrico La Talpa
e sua moglie) oppure accelero il passo per tentare di rallentare i
primi. Osvaldo e i due di Reggio Emilia sembrano giocare a chi è
più duro e spesso devo fermarli con una scusa se voglio evitare
che il gruppo si disperda. Così fatico il doppio degli altri,
ma anche questo fa parte del mio ruolo.
Sto camminando alla testa
del gruppo, nel tentativo di rallentare un po' gli aspiranti Rambo,
quando con la coda dell'occhio percepisco una figura che si avvicina
rapidamente. Penso che sia un escursionista che ha fretta e mi faccio
da parte per lasciarlo passare. Ma d'un tratto mi sento afferrare
il braccio: è un tocco morbido e gentile. Non so come sia riuscita
a liberarsi di Luciano, ma adesso cammina accanto a me e mi invita
ad accelerare il passo per parlarmi a quattr'occhi.
"Ma questi dove li hai trovati?" mi sussurra divertita.
Mi stupisco dell'improvvisa confidenza ma devo ammettere che non ne
sono dispiaciuto.
"Mah, hanno letto del workshop da qualche parte e si sono iscritti,
esattamente come hai fatto tu."
"Ma hai visto che tipi? C'è quel Luciano che sembra Vinavil,
e poi quell'altro, Er Puzza..."
"Chi!?" Sto per scoppiare a ridere.
"Il romano, il poliziotto. Non hai sentito come gli puzzano le ascelle?"
"Beh, sudiamo tutti" ribatto senza convinzione.
"Sì, ma si vede che lui non si lava: sembra che stringa sotto
le ascelle un paio di aringhe andate a male!"
È davvero troppo divertente! Noi le corteggiamo, le coccoliamo, facciamo la ruota come i pavoni nel tentativo di farci belli ai loro occhi, ci facciamo umili come cagnolini che mendicano una carezza e loro sono capaci di demolirci in un solo istante con un'etichetta che in realtà è una condanna definitiva e inappellabile. Non cesserò mai di stupirmi delle donne. E non cesserò mai di adorarle per questo!
Adesso Diana chiacchiera,
si confida, si informa su di me con domande sempre meno indirette.
Ma io non posso isolarmi con lei e devo prestare la stessa attenzione
a tutti. Alla fine della "tiralunga" propongo una sosta.
"Il tratto che viene adesso" spiego "è il più faticoso
e caldo, ma per fortuna è anche l'ultimo. Qui viene confidenzialmente
chiamato "la graticola", non tanto per l'effetto del sole (che pure
è notevole) quanto per tutti i sentierini secondari che lo
attraversano e che tagliano i tornanti della mulattiera. Vi invito
in ogni caso a seguire il tracciato principale: imboccare le scorciatoie
è una cattiva abitudine che non soltanto rovina il sentiero,
ma causa anche il ruscellamento dell'acqua piovana e il conseguente
dilavamento del terreno. La montagna è un ambiente fragile
che va preservato anche con queste piccole attenzioni."
Il mio predicozzo viene accolto con malcelato fastidio da Osvaldo
e dalla famiglia Rambo, che già pensavano, evidentemente, di
tagliare su dritto lungo le scorciatoie. La coppia cinquantenne accoglie
invece l'invito con gratitudine: la mulattiera principale è
più lunga ma molto più dolce.
"Ehi, hai visto come
ti ha guardato Er Puzza?"
"Ti prego, non chiamarlo più così, altrimenti rischio
di scoppiare a ridergli in faccia! Piuttosto, credi che avrei dovuto
essere meno pedante?"
"Sei stato bravissimo!" mi sussurra, accostando le labbra al mio orecchio
e quasi sfiorandomi.
Ancora non capisco se stia cercando di provocarmi o se questo sia
proprio il suo modo di fare. In ogni caso vorrei evitare che gli altri
percepissero un'eccessiva confidenza tra noi. Mi volto verso il gruppo
e mi accorgo che l'atteggiamento di Diana non è passato inosservato:
dagli occhi di Osvaldo escono pugnali, mentre Luciano sembra sgomento.
Entrambi mi considerano ormai un rivale, e a quanto pare un rivale
vincente. Maledizione, sono proprio queste dinamiche (che spesso si
creano all'interno dei gruppi) a mandarmi in bestia. Siamo qui per
parlare di fotografia e non per intessere la trama di un romanzo d'appendice!
Diana è decisamente attraente e il suo modo di fare sarebbe
in grado di sedurre un sasso, ma questa è una considerazione
superficiale che non mi coinvolge emotivamente. Sono felicemente sposato
e non mi interessano le avventure. Decido che il gioco è durato
abbastanza e mi porto in coda alla fila, dove Enrico La Talpa cerca
di convincere la moglie a mantenere il passo.
"È stanca, signora?" domando premuroso.
"Eh, cosa vuole, non ho mica più i suoi anni, io! Quando avevo
la sua età, eeeh, ne facevo di cose, sa? E non ero mica tanto
diversa da quella là davanti, sa? Eeeh, beata gioventù!
Siete sempre freschi, ve': freschi di fuori e caldi di dentro. Vi
ho visti, sa, che cosa sta per nascere…"
"Eh!?… mannò, signora, guardi che non sta per…"
"Eeeh, valàvalàvalà, che io i giovani li conosco,
sa? La paglia e il fuoco, altro che balle!"
Non so se ridere o sprofondare dalla vergogna. Oltretutto madama Cesira
dev'essere orba come una mela a non accorgersi che ho quasi la sua
stessa età e che tra me e la bella Diana ci corrono almeno
vent'anni. Devo a tutti i costi cercare di recuperare un po' di credibilità.
Ma mi accorgo presto
che la cosa è più difficile del previsto. Ormai la fanciulla
mi ha preso di mira e ha deciso di giocare pesante. Credo che la cosa
la diverta. Quando arriviamo in vista del rifugio la compagine del
gruppo è ormai definitivamente fissata: in testa padre e figlio,
distrutti ma non domi, che arrancano caparbiamente grondando rivoletti
di sudore; poi io e Diana, fresca come una rosa, che nel frattempo
si è tolta la camicetta rivelando una scollatissima canottiera
bianca, perfetta per mettere in risalto l'abbronzatura. Ovviamente
è senza reggiseno, ben consapevole di non averne bisogno. Non
ho modo di contrastarla: se anche cambiassi posizione all'interno
della fila lei mi seguirebbe. Continua a parlarmi con fare civettuolo,
per nulla intimidita dal mio atteggiamento prudente e decisamente
distaccato. Dietro di noi Er Puzza e Vinavil, pardon, Osvaldo e Luciano,
ormai rassegnati, e infine la coppia di ferro. Litigano in continuazione
ma evidentemente hanno trovato un loro equilibrio, visto che vivono
ancora insieme.
Il rifugio Vittorio Sella
è un insieme di costruzioni raggruppate ai piedi della conca
del Lauson. Il corpo principale ospita il ristorante e le camere,
mentre la sezione invernale è rappresentata dall'originaria
casa di caccia di re Vittorio Emanuele. In anni più recenti
è stata aggiunta una terza costruzione, che funziona come bar-gelateria
nel periodo estivo. Ci accomodiamo ai tavolini di plastica, sotto
un ombrellone che ricorda Rimini piuttosto che le Alpi, e incominciamo
a riprendere fiato. Ovviamente Diana fa in modo di sedersi accanto
a me. Abbiamo impiegato quattro ore per un percorso che normalmente
io faccio in due, senza peraltro spingere troppo. Per quanto mi riguarda
sono piuttosto stanco, anche perché in questi casi uno deve
fare come i cani da pastore e correre avanti e indietro cercando di
tenere tutti uniti.
"Bene!" proclama Reggio Emilia senior, "siamo arrivati?"
"Ehm, non proprio" spiego. "Siamo arrivati al rifugio, dove possiamo
fermarci a riposare un po', ma se volete vedere gli animali bisogna
salire verso il Col Lauson. Di solito, in prossimità del bivio
che porta al Colle della Rossa, stazionano branchi di stambecchi."
"Quanto ci vuole?" domanda Enrico La Talpa con voce supplice.
"Se tutto va bene non più di un'ora. Il fatto è che
non posso garantire che gli animali non siano saliti più in
alto. A quest'ora della giornata tendono a occupare territori più
elevati, per poi scendere di nuovo verso sera. Comunque se non sono
lì saranno poco più sopra."
Luciano mugugna. Hanno pagato per fotografare gli animali e non per
scarpinare. Forse l'Ente Parco è disorganizzato: dovrebbe fare
in modo di portarglieli un po' più vicini. Spiego che un parco
nazionale non è uno zoosafari ma proprio un pezzo di territorio
lasciato a se stesso, ai suoi ritmi e ai suoi equilibri: sono i visitatori
che si devono adattare alla natura e non viceversa.
"Capisco" risponde sconsolato, "ma il tratto più lungo che
io abbia mai percorso a piedi è da Piazza Duomo a San Babila
il sabato pomeriggio per fare lo shopping!"
Prometto che la sosta sarà sufficientemente lunga e defatigante
e annuncio che chi vuole può mangiare: dopotutto sono le dodici
e mezza.
"Che cosa c'è
lì dentro?" domanda Diana indicando il bar.
"Lì c'è un piccolo bar-gelateria e vendono anche qualche
souvenir" rispondo.
Senza una parola lei si alza ed entra nel locale. Ne emerge dopo pochi minuti indossando un berrettino bianco con il logo del parco nazionale. È deliziosa, maledizione!
Gli unici che sembrano
insensibili al suo fascino sono i due di Reggio Emilia, che senza
una parola aprono all'unisono i loro zaini. Ne estraggono contenitori
di ogni tipo, fra cui un gigantesco barattolone termico che da solo
deve pesare due chili. La curiosità del gruppo è alle
stelle. I due occupano l'intero tavolo con le loro cose. Alla fine
sul piccolo tavolino in plastica trionfano due bottiglioni di lambrusco,
un quarto di forma di parmigiano, mezza mortadella, due forme di pane
casereccio, mentre dal contenitore misterioso, finalmente aperto,
esce e si spande per la vallata l'effluvio inconfondibile delle lasagne
al forno.
"Ce n'è per tutti!" esclama il padre, suscitando l'entusiasmo
collettivo. Io penso alla mia mela e mi chiedo se il ruolo che ricopro
mi imponga di mantenere la sobrietà da monaco shintoista che
normalmente mi caratterizza, ma poi decido che fraternizzare con la
classe potrebbe rivelarsi più appropriato dal punto di vista
didattico...
Prendere il cibo insieme
rafforza i legami all'interno del gruppo, rilassa e distende gli animi.
Persino Osvaldo depone quel suo atteggiamento da uomo d'acciaio e
si apre alla confidenza. Madama Cesira, che ormai ha deciso di rivestire
il ruolo di mamma del gruppo, lo convince finalmente ad accettare
un po' di crema solare, "Se no stanotte non dormi!"
La tragedia mi piomba
addosso senza preavviso. Con aria furbetta la megera si volta verso
di me: "E anche lei, professore, mangi, ve', che ne ha bisogno, lei
e quella bella signorina lì, che dovete mangiare per tenervi
in forze!"
"Ehm, signora, sì, grazie… il fatto è che in montagna
non mangio mai molto, sa, per non appesantirmi…"
"Mavalà che non si appesantisce, un bell'uomo come lei, ma
lo sa che state proprio bene insieme?"
Non oso guardare in faccia Diana ma so che da lei non mi verrà
alcun aiuto. E adesso che faccio? Dico no guardi che non stiamo insieme
oppure fingo di apprezzare un complimento che potrebbe anche sembrare
innocente (ma forse soltanto a un sordo che per di più non
capisse l'italiano)? Decido che la scelta vincente è lasciar
correre, come se nulla fosse, ma la pazza insiste: "Eh, due alpinisti
veri, sì che andrebbero d'accordo! Ma guardateli un po', sembrano
fatti l'uno per l'altra!"
Decido di prenderla con ironia. L'atmosfera si sta facendo pesante
e un silenzio imbarazzato si è ormai impadronito del gruppo.
Qui o la giro sul ridere o sono perduto.
"Beh" rispondo con il tono più scherzoso di cui sono capace,
"non credo che mia moglie approverebbe."
Gli altri capiscono, sorridono, la tensione si scioglie. Mi irrita
solo non riuscire a vedere l'espressione di Diana, che seduta accanto
a me continua a mangiare come se nulla fosse. Ma la linguaccia ancora
non è paga: "Oh ben, e che vuol dire? Oggi come oggi non si
guardano più a quelle cose lì. Guardi gli attori della
tivì: si prendono, si lasciano e vivono tutti felici e contenti,
mica come me che sono obbligata a tenermi questo musone tutta la vita!
Eeeh, voi giovani ci avete tutta la vita davanti… Godetevela!"
"Bene!" taglio corto, alzandomi, "grazie per il suggerimento. Adesso
che ne dite di ripartire?"
L'improvviso cambio di argomento zittisce finalmente la mia persecutrice
e coglie impreparato il resto del gruppo, che reagisce con sorpresa
anche se con evidente sollievo.
"Noi vi lasciamo andare" proclamano i due di Reggio Emilia.
"Ma perché?" ribatto sorpreso. "Proprio voi due!"
"È che abbiamo mangiato troppo. Noi siamo soddisfatti così."
"Anch'io resto qui" proclama grazie al cielo madama Cesira.
Così ci incamminiamo
verso l'alto in ranghi ridotti: io alla testa del gruppo, sempre affiancato
da Diana, dietro Enrico La Talpa, allegro e spensierato, come trasformato
dall'inattesa e forse insperata libertà, in coda Osvaldo e
Luciano, ormai amici, che chiacchierano amabilmente di fotografia,
computer e calcio.
Diana non parla ma mi
cammina accanto e ogni tanto mi guarda sorridendo.
"Mi dispiace per prima" esordisco: "quella rompiscatole deve averti
messa in imbarazzo…"
"Niente affatto" ribatte, "è stato divertente."
"Sarà. Io non mi sono poi così divertito."
"Evidentemente ti dà fastidio la verità…"
Piccola sfrontata! Adesso basta, devo metterle un freno. Mi volto
e vedo che il resto del gruppo è rimasto indietro: un paio
di curve del sentiero lo nascondono al nostro sguardo. E' il momento
giusto. Mi fermo e costringo Diana a guardarmi negli occhi. Non ho
mai fatto un discorso del genere a una ragazza e mi sento terribilmente
in imbarazzo.
"Senti, non so quali siano le tue intenzioni e non lo voglio sapere.
Il gioco che stai facendo non mi interessa e rischia di mettere in
crisi i rapporti all'interno del gruppo. Io sono qui per fare un lavoro
e non aspetto altro che di ritornare a casa per passare la serata
con la donna che amo, okay?"
Mi fissa con espressione impertinente, il nasino all'insù e
il berrettino sfacciatamente calcato sugli occhi: "Ma io non sto giocando.
Sto davvero cercando di sedurti." Quando si dice scoprire le carte!
"Ascolta" sospiro sconsolato, "tu sei indubbiamente affascinante ma
io sono sposato, adoro mia moglie che è giovane e bella quanto
te e non ho intenzione di tradirla. E con questo, per favore, consideriamo
chiuso l'argomento."
Pronuncio le ultime parole in fretta e a bassa voce perché
il gruppo si è ormai fatto pericolosamente vicino. Per fortuna
non sembrano essersi accorti di nulla.
Ho bisogno di respirare
un'altra aria e attacco discorso con Enrico La Talpa. Quei suoi sandali
di cuoio sono la cosa più incredibile che io abbia mai visto
in montagna, soprattutto perché ormai ci ha fatto quasi cinque
ore di cammino senza lamentarsi.
"Io non sopporterei gli scarponi" mi confessa: "soffro di male ai
piedi e i sandali sono l'unica calzatura che mi posso concedere."
Ormai siamo giunti al
bivio. Di fronte a noi, a un'ora di salita, il Col Lauson; a destra
il Colle della Rossa. Poco più oltre, seminascosti fra le pietraie,
una ventina di stambecchi maschi brucano tranquilli l'erba rada e
stenta. Invito i miei allievi a sfoderare l'armamentario, insegno
loro come avvicinarsi senza mettere in allarme gli animali. Per fortuna
il vento spira verso di noi: possiamo avvicinarci senza essere notati,
a meno che qualcuno non si metta a gesticolare. Il gruppo impara subito
la tecnica giusta: accovacciati, silenziosi, con una coordinazione
quasi perfetta, riusciamo a circondare il branco. Da questo momento
saranno i teleobiettivi a parlare.
Restiamo accanto al branco per circa tre quarti d'ora. Io mi avvicino ora all'uno ora all'altro dei miei allievi, che spesso richiedono suggerimenti e consigli. Tutti tranne Diana, che sembra poco interessata alla cosa. Resta seduta su una roccia e si guarda intorno con aria annoiata, come di fronte a uno spettacolo già troppo visto. È evidente che ce l'ha con me, non è il tipo di donna avvezza a ricevere un rifiuto: sia che facesse sul serio sia che si trattasse di un semplice gioco di seduzione, tanto per mettersi alla prova, il suo orgoglio deve esserne uscito un po' malconcio. Spero per lei che questo possa aiutarla a crescere. Sono le quattro quando do il segnale del rientro. Ci ritroviamo al bivio e sono felice nel vedere i miei allievi soddisfatti. Soprattutto sono contenti di avere imparato come avvicinare un animale selvatico oltre a diversi accorgimenti tecnici che ignoravano.
Siamo ormai sulla via del ritorno quando Enrico La Talpa se ne esce con una domanda trabocchetto: "È lontano il Col Lauson?"
"Non più di un'ora" rispondo ingenuamente.
"E quanto è alto?"
"Più o meno tremiladuecento metri."
"Non sono mai stato a tremila metri."
"Beh, non mancherà l'occasione" taglio corto, già paventando
quello che sta per chiedermi.
"No" ribatte, "non avrò mai più un'occasione come questa.
Io abito a Mantova e questa è l'unica vacanza sulle Alpi che
io abbia fatto in tutta la mia vita. Mia moglie è scontenta,
odia la montagna, ha visto com'è fatta (accidenti se ho visto
com'è fatta!), per cui non mi consentirà mai più
di tornare in posti come questo. Per favore, mi lasci invecchiare
contento!"
"Senta, sinceramente io non credo che lei ce la possa fare. Il canale
detritico che porta al colle è ripido e franoso e lei calza
un paio di sandali da spiaggia. C'è un tratto aereo attrezzato
con corde fisse e lì è davvero pericoloso per chi non
ha esperienza di queste cose."
"Beh, c'è sempre una prima volta, no?"
"Certo, accidenti, ma c'è anche una progressione per gradi!
Inoltre è tardissimo: se saliamo al colle adesso non saremo
a Valnontey prima delle nove di questa sera."
Cerco inutilmente con lo sguardo la solidarietà di Diana. E'
un'alpinista, potrebbe aiutarmi a dissuaderlo. Invece lei rimane in
silenzio, guarda altrove, non si sente coinvolta nella discussione.
Dev'essere davvero furibonda. Decido di affrontare la questione a
viso aperto e di fronte a tutti.
"Diana, io posso anche cercare di accompagnare questo signore al colle,
ma mi sentirei molto più sicuro se tu venissi con noi."
"Oh, no, ti prego" ribatte lei con assoluta e premeditata perfidia:
"sono stanchissima e ho un terribile mal di testa."
Adesso sono io ad essere furibondo. E va bene, farò da solo.
Invito i tre giovani a tornare al rifugio: "Là ci aspetterete
insieme agli altri, o a scelta scenderete per conto vostro a Valnontey
insieme alla moglie di questo signore. Noi due vi raggiungeremo più
tardi." A Osvaldo e Luciano non sembra vero di poter avere Diana tutta
per sé. Lei invece mi rivolge un'occhiata inviperita. Mi dispiace
bella, ma ciò che è fatto è reso: ti sei rifiutata
di darmi una mano e adesso ti godi il ritorno tête-a-tête
con Er Puzza e Vinavil.
La salita al colle è più drammatica del previsto. Il mio accompagnatore arranca incerto lungo un sentiero più stretto di quanto si aspettasse. Il ripido scivolo di ghiaia nera che stiamo tagliando obliquamente lo spaventa. Gli propongo di desistere ma lui ostinatamente rifiuta. La salita richiede quasi il doppio del tempo dovuto. Giunti alle corde fisse sono costretto ad afferrargli la mano e a guidarlo passo passo. Quello è l'ultimo ostacolo: in pochi minuti arriviamo al colle. Lo spettacolo è indubbiamente grandioso e per lui certamente inaspettato. Gli mostro le montagne e i ghiacciai della Valsavarenche, della Val di Rhêmes, della Vanoise che quel punto elevato permette di ammirare. Alle nostre spalle lo sguardo abbraccia gran parte del territorio del parco nazionale e solo i contrafforti della Punta Levionaz ci impediscono di ammirare la vetta del Gran Paradiso. È fuori di sé dall'emozione: vuole a tutti i costi una foto ricordo da mostrare ai colleghi. Io sono esausto e non chiedo altro che di tornare a casa. Iniziamo una discesa difficile e laboriosa: sono costretto a tenerlo saldamente per mano se voglio evitare che scivoli a causa delle suole di cuoio. Lui non se ne rende conto, ma ha battuto un record da Guinness dei primati: il primo uomo a salire sul Col Lauson con i sandali da mare. E - ironia della sorte! - non si tratta neppure di un alpinista!
Lungo la strada del ritorno, poco prima del rifugio, incontriamo di nuovo gli stambecchi, che stanno scendendo verso valle per la sera. Enrico La Talpa vuole di nuovo fermarsi per fotografare. Lo odio. Sono stanco, sudato, ho voglia di una doccia e so che non potrò godermela se non tra quattro ore, se va bene. Ho voglia di tornare da Claudia che avrà preparato la trota ai mirtilli e la polenta gratinata sul camino, ho voglia di spogliarmi nudo e di godermi un borghesissimo programma TV prima di crollare esausto sul letto. È dalle sei di stamattina che sono in piedi e mi sono fatto non so quante migliaia di metri di dislivello andando su e giù lungo questo dannato sentiero. Vorrei mandarlo al diavolo ma non posso: sono qui per insegnare a fotografare, lui mi chiede di insegnargli a fotografare e io devo mettermi a sua disposizione, anche se ormai ho superato le dieci ore di lavoro, e non certo dietro una scrivania. Occhei, fermiamoci ancora. Lo avverto che faremo tardi ma a lui non interessa, è abituato a saltare la cena. Io no, ma questo non riveste la minima importanza.
Arriviamo al rifugio
alle sette di sera. Gli altri sono già ripartiti per Valnontey.
Mi butto giù per il sentiero senza curarmi che lui mi segua
o no. Se si fracassa i piedi per colpa di quel suo cazzo di sandali
sono fatti suoi e non mi fermerò certo a soccorrerlo. Invece
ovviamente non è così, accidenti, mi sento responsabile
nei suoi confronti, per cui mi fermo, lo aspetto, gli do persino la
mano quando c'è da superare un passo un po' alto e lui non
ce la fa perché è stanco, gli venissero le vesciche
a tutte le dita dei piedi!
Raggiungiamo il parcheggio
che sono le nove. Splendido: sarò a casa alle dieci e mezza
e mangerò una trota ai mirtilli praticamente putrefatta, a
meno che Claudia non me la scaraventi in faccia non appena avrò
varcato la soglia di casa.
"È stato un piacere: non mi sono mai divertito tanto! Adesso ho proprio voglia di godermi una birra!" azzarda il bastardo al momento del commiato. Devo fare appello a tutto il mio addestramento da manager per non rispondergli che per quanto mi riguarda può annegarcisi, nella birra, oppure tornare a Mantova e seppellircisi per il resto della vita, perché se lo incontro in giro per il mondo gli sputo in un occhio, così gli bofonchio due frasi di circostanza, salto in macchina e parto sgommando.
Mi fermo quasi inchiodando
poco oltre il ponte, davanti al chioschetto dei souvenir. Diana è
in piedi al bordo della strada, con i suoi pantaloncini bollenti,
gli occhiali da sole e il berrettino bianco ben calcato sui riccioli
biondi. Un'autostoppista che nessun maschio normale lascerebbe a piedi.
"Dove ti porto?"
"Solo fino a Cogne, all'albergo Belvedere, alloggio lì."
Percorriamo in assoluto, raggelante silenzio i pochi chilometri che
separano Valnontey da Cogne.
"Sei arrivata" annuncio parcheggiando davanti al Belvedere. Lei esita.
Si volta verso di me e si toglie gli occhiali da sole. Finalmente
posso guardarla negli occhi. Non ho mai visto occhi così profondamente
azzurri. Ricordano il mare di notte, le profondità dei ghiacciai,
la gelida trasparenza dei laghi alpini. Sembra volermi dire qualcosa,
sospira, poi scuote la testa come a scacciare un pensiero improvviso.
"Ciao" le dico, nient'altro. Voglio che scenda dalla macchina e che
lo faccia subito. Voglio tornare a casa.
"Ci rivedremo?" Lo dice con un filo di voce, come se non volesse sentire
la risposta.
"No." Non riesco a dire altro. Vorrei aggiungere Diana dimenticami
non sono l'uomo giusto per te ma non me la sento, non ne sono capace,
le parole muoiono prima di essere pronunciate. Meglio così.
Però adesso per favore scendi dalla macchina e non voltarti
indietro.
Guido verso Fenilliaz
in una specie di trance e non penso ad altro che a tornare a casa.
Sono stravolto dalla stanchezza e l'unico pensiero che mi impedisce
di addormentarmi al volante è l'abbraccio di Claudia. Le ho
telefonato da Cogne chiedendole scusa, sono in ritardo, siamo scesi
solo adesso, perdonami, farò tardi, e lei mi ha risposto non
importa, vai piano, stai attento, ti aspetto, non vedo l'ora che tu
sia qui.
Il suono acuto e dissonante
del telefono cellulare mi entra nel sogno. Riesco a svegliarmi con
estrema fatica e do un'occhiata alla radiosveglia: le dieci del mattino!
Con uno sforzo sovrumano afferro il dannato aggeggio: "Pronto!"
È Laura Poggio, la direttrice del giardino alpino Paradisia: "Che cosa hai combinato ieri sera?"
Cado dalle nuvole, che cosa dovrei avere combinato? Bene, sembra che
madama Cesira, giunta in albergo ben prima del marito, si sia allarmata
nel non vederlo arrivare ed abbia allertato, nell'ordine:
Per un'ispirazione divina
i carabinieri avevano telefonato a casa di Laura, chiedendole se non
sapesse nulla di un partecipante a un workshop di fotografia che non
si faceva vivo. Conoscendomi e sapendo che di solito non disperdo
la gente in giro per i monti, lei aveva suggerito di aspettare: un'operazione
di soccorso alpino è una faccenda complessa e decisamente costosa,
e poiché lungo il sentiero del Lauson non ci sono pericoli
oggettivi, a meno che uno non se li vada a cercare, era certa che
si trattasse di un semplice ritardo.
La cosa però non mi quadra. È vero che io ed Enrico La Talpa siamo scesi più tardi rispetto agli altri, ma non tanto da generare un simile allarme. Bastava fare due conti relativi ai tempi di percorrenza per capire che tutto sommato non si trattava di un ritardo significativo.
"Ma a che ora è poi tornato in albergo quello sciamannato?"
domando a Laura.
"Mah, sembra verso le dieci e mezza..."
Bene, tutto si spiega. Noi eravamo al parcheggio alle nove, lui è
arrivato in albergo alle dieci e mezza... Questo vuol dire che si
è goduto un'ora e mezza di birra prima di tornare da quella
rompiballe di sua moglie. Il che indubbiamente ha giovato al loro
rapporto di coppia ma ha rischiato di farmi passare dei brutti quarti
d'ora al comando dei carabinieri di Cogne, a spiegare il perché
e il percome un tizio che stava con me era scomparso per un'ora e
mezza senza lasciare traccia.
Giuro che il prossimo
workshop lo organizzo nel centro di Milano, riservato a partecipanti
maschi. Senza sandali. Senza mogli o fidanzate. Anzi, meglio se seminaristi.
Se qualcuno si presenta con la moglie/fidanzata lo caccio di brutto.
E per quanto riguarda le giovani donne sole, beh, si tengano alla
larga, ché qui è roba per soli uomini. E se qualcuno
osa dire che sono maschilista, allora venga lui al posto mio, eccheccavolo!
Michele Vacchiano ©
7/2001
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