La fotografia “sociale” provoca reazioni contrastanti. All’eventuale apprezzamento per gli aspetti formali dell’immagine fa spesso da contraltare il disagio per le situazioni riprese, per lo più vissute come sgradevoli, penose, imbarazzanti.
Ogni volta che venga presentata la foto di un barbone o di un mendicante, nei forum si scatenano diatribe infinite, si tira in ballo la sensibilità, la deontologia, la compassione, la solidarietà, per passare presto agli insulti e alle accuse incrociate tra le contrapposte fazioni, a quel punto inevitabilmente distinte in “avvoltoi” e “puritani”. Non se ne esce.
Il fotografo, in realtà, è sempre in cerca dell’anomalia, un elemento bizzarro, curioso, ad effetto. Egli rifugge la normalità, oppure la utilizza per evidenziare singolarità visibili solo dal proprio punto di osservazione. Le ridondanze, siano esse grafiche o semantiche, sono l’alimento dell’occhio fotografico. Il dolore, l’handicap fisico, la povertà sono ridondanze tanto quanto lo sono la bellezza, la gioia, un gesto acrobatico, la ricchezza ostentata, la perfezione formale di una modella o di un paesaggio. Non esiste una cifra etica da applicare all’anomalia fotogenica. Il fotografo reagisce d’istinto agli equilibri estetici e alle loro alterazioni. Di fronte a una pregnanza formale, per lui scattare è un riflesso irrefrenabile, è come respirare, non può farne a meno.
Pubblicare semmai, quella sì che è una scelta da ponderare. Ma l’opportunità di farlo, a meno che non si tratti di immagini rubate all’intimità in modo illegale, o realizzate con l’intento di schernire la persona ritratta, non riguarda la condizione ontologica del fotografato. Non possiamo elevare a criterio di pubblicabilità la distanza tra la condizione del fotografo, o del contesto di riferimento, e quella del soggetto. Tale “delta”, in qualunque senso si estenda, è proprio ciò che rende una scena degna di essere fotografata, e non può essere rinnegato.
L’amore semmai, quello sì sarebbe un parametro da considerare.
Il fotografo ama ciò che fotografa, ne ama la forma, il carattere e l’espressività. Il suo “amore” si traduce nel riprendere al meglio il soggetto, con efficace tempismo, luce adatta, giusta esposizione, buona collocazione nel fotogramma, e poi messa fuoco selettiva, mascherature, bruciature, enfatizzazioni tonali, tutti gli strumenti artigianali della buona fotografia.
Uno scatto malamente rubato, indebitamente intrusivo, lede la dignità del fotografo quanto quella del fotografato. Non perché sia necessariamente una brutta foto, ma perché non abbiamo amato abbastanza il nostro soggetto. Non lo abbiamo osservato, ascoltato, fiutato, non lo abbiamo vissuto, non lo abbiamo “conosciuto”, rispecchiandoci in lui. È come voler raccontare ad altri un libro che non si sia letto.
Amare i propri soggetti per un fotografo significa osservarli e fotografarli bene, riprenderli nel pieno della loro essenza. Questa è la fotografia. Poi ognuno è quel che è.
Qualunque persona si mostri a noi è responsabile della propria immagine. Rifiutarsi di guardarla significa vergognarsi al posto suo di ciò che ella è. Non ne abbiamo il diritto. Al fotografo tocca di riprendere la realtà, filtrata dalla propria sensibilità, non di giudicarla. Il nostro compito è guardare il mondo, nel modo in cui sappiamo farlo, cioè attraverso una fotocamera. Una volta pubblicata, e quindi consegnata all’immaginario condiviso, la nostra fotografia incontrerà tutte le sensibilità e subirà infiniti processi. Non spetta a noi anticipare le sentenze, a noi tocca solo di rivelare la questione.
Ciò vale anche per le immagini dei bambini.
A meno di artifici che rendano la fotografia equivoca, introducendo contenuti morbosi, incongrui e potenzialmente pregiudizievoli per l’incolumità del soggetto, l’immagine pubblica dei bambini deve poter tornare a disposizione del “sogno” (di cui la fotografia è al servizio), sempre più minacciato dalla ventata oscurantista e persecutoria che sta ammorbando questa fase storica della nostra società.
Fotografare bene, fotografare tutto ma con amore. Ecco la battaglia di libertà che ogni fotografo oggi dovrebbe consapevolmente combattere, un piccolo contributo alla cura della paranoia. Uno dei modi in cui l’arte può provare a migliorare il mondo. Sempre che ci crediamo ancora.
Carlo Riggi © 08/2017
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