RAPA NUI. LA LEGGEREZZA NON E' TUTTO
In borsa, dal 15 al 180mm Leitz. Non certo un corredino leggero...
Pierpaolo Ghisetti, luglio 2011

E’ diventato ormai un luogo comune quello di ripetersi l’un l’altro che in viaggio bisogna muoversi leggeri, magari con un paio di zoom al massimo, magari solo con uno zoom tuttofare, magari con una compatta, magari solo con una compatta molto leggera, magari senza niente…..
Invece a me piacciono le focali fisse: riconosco che lo zoom è comodo, comodissimo, ma non sempre ciò che è comodo risulta poi anche utile, e soprattutto necessario.

Quella volta a Rapa Nui, chiamata anche Isola di Pasqua, avevo, oltre alla fida Leica M6 con 35 e 90mm, anche una R6.2, completa di Super Elmar 15/3,5 (820g) e Apo Telyt 180/3,4 (750g).
Mi ero fatto l’idea, preparandomi al viaggio, che un super grandangolo e un tele moderato mi sarebbero stati utili: avevo infatti notato, in alcuni libri da me consultati, di particolari scorci dell’isola che non sembravano facilmente fotografabili con ottiche normali. Anche il 24mm mi sembrava corto: alla fine decisi di strafare e di portarmi quel chilo e mezzo di vetro e metallo, ovvero i due obiettivi sopraccitati.

Inizialmente non ebbi molte occasioni di utilizzare le due ottiche: il 35mm sulla M6 era più che sufficiente per la maggior parte delle situazioni, ma speravo sempre nel giorno seguente.
In effetti, una volta arrivati in cima ai 400 metri del bordo del cratere spento di Rano Kau, pieno di laghetti sul fondo, mi accorsi subito che l’occasione dell’impiego del 15mm era finalmente arrivata. Quasi subito, dietro mia moglie e me, arrivarono ansimando due tedeschi: grazie al fatto che parlo la lingua di Goethe (e, ahimè, anche di Adolf…) ci scambiammo alcune informazioni fotografiche, e mentre il teutone  magnificava il suo zoom Tokina compatto e tuttofare, mi diedi a tirare fuori le mie carabattole marcate Leica. Grande fu la sorpresa dell’Unno appena vide spuntare l’enorme lente frontale del Super Elmarit: quasi si sbellicava dalle risate per l’incoscienza italica che si trascinava in mezzo al Pacifico quella mostruosità ottica.
Tuttavia, appena gli permisi, con condiscendenza tutta latina, di mettere un occhio nel mirino della Leica, nel silenzio dell’isola echeggiò un potente Wunderbar!.

Il 28mm, massima focale grandangolare del suo zoom, non riusciva minimamente a coprire l’enorme ampiezza della caldera del vulcano, ma anzi lo mortificava, con un angolo di campo del tutto insufficiente. Invece il 15mm, con i suoi 110° di angolo di campo, restituiva pienamente la sensazione di vuoto, grandezza e mistero che il luogo magicamente trasmetteva. Lo sguardo che il tedesco mi restituì, una volta staccatosi a fatica dalla sbalorditiva vista ipergrandangolare, diceva tutto: meraviglia, comprensione e rispetto per la scelta. L’occhiata che diede alla mia borsa fotografica ora era piena di curiosità e interesse. Così tirai fuori anche il 180mm e mi diedi a riprendere il bellissimo pattern dei laghetti azzurri tra la vegetazione, che, grazie al  tele, diventavano dei disegni astratti.

Ormai il teutone mi seguiva con religioso interesse, ma con il suo 85mm poteva fare ben poco, se non accontentarsi di vedere le inquadrature nel mirino della mia Leica.
Ci salutammo amichevolmente, ma penso che poi abbia riflettuto sulla convenienza di portarsi solo uno zoom tutto fare, almeno in un viaggio così impegnativo.
Nei giorni seguenti ebbi ancora diverse possibilità di usare il 15mm. Sul cratere solitario di Puna Pau, ove il lago che occupava la caldera era pieno di piante di totora, oppuredalla sommità della costa che precipita  a picco verso l’isolotto cerimoniale (ove si svolgeva la rappresentazione del mito dell’Uomo Uccello) che si trova di fronte al villaggio di Orongo, per restituire quel senso di spazio e di solitudine infinita, che dona quest’isola sperduta nell’immensità dell’Oceano Pacifico.

Anche alcuni giganteschi Moai, le grande statue caratteristiche di Rapa Nui, riprese con il 15mm apparivano in tutta la loro misteriosa magnificenza, grazie anche al gioco di nuvole che l’enorme angolo di campo poneva in evidenza.

Ora, a tanti anni di distanza, della fatica a trasportare la borsa piena di macchine e vetri non ho più nessun ricordo: ma ogni volta che proietto le diapositive di Rapa Nui in pubblico, sento distintamente lo oooh di meraviglia degli spettatori, quando la gigantesca caldera di Ranu Kau appare sullo schermo.
Una fatica ben ripagata: Rapa Nui non è solo un lontano immaginario ma una fantastica realtà, è il simbolo stesso del mistero, di come una civiltà sia approdata, si sia sviluppata e autodistrutta in un’isola lontana 2000 chilometri da qualunque altra terra.
Un paradigma del genere umano: e il Super Elmarit mi ha aiutato a ricostruire e ritrasmettere quel mistero simboleggiato dai Moai e dalla caldera di Rano Kau.

Pierpaolo Ghisetti @ 07/2011
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