IL MESTIERE DEL FOTOGRAFO
Ovvero, come galoppare felici verso l'estinzione
Michele Vacchiano, marzo 2014

La fotografia ha spesso subìto, nel corso della sua storia, rivoluzioni di portata epocale.
Pensiamo al passaggio dal dagherrotipo al procedimento positivo/negativo, o a quando le emulsioni alla gelatina soppiantarono quelle al collodio…

La stessa fotografia, alla sua nascita, aveva messo in crisi la pittura (o almeno un certo genere di pittura): molti ritrattisti avevano perso il lavoro proprio per “colpa” dei fotografi, i quali riuscivano a realizzare ritratti più somiglianti in minor tempo, al punto che numerosi pittori abbandonarono i pennelli per acquistare un apparecchio fotografico (così la pittura perse dei mediocri pittori e la fotografia acquisì dei mediocri fotografi).

Oggi sta cambiando non soltanto il supporto di registrazione delle immagini, ma la stessa concezione della fotografia come arte visiva. Il digitale, infatti, rende il procedimento fotografico più rapido, comodo e creativo di quanto non sia mai stato.

In questo panorama di rapida e tumultuosa evoluzione, come si colloca il mestiere del fotografo?

Fino a non molti anni fa, il fotografo era “colui che sa far venire bene le foto”.
Non che non esistessero dilettanti bravi. Anzi, la loro indipendenza operativa, il non dover sottostare alle esigenze del cliente, il maggior tempo a disposizione per leggere e aggiornarsi faceva sì che molti di essi riuscissero a condurre una ricerca personale che li portava a conseguire risultati stilistici di gran lunga superiori a quelli di molti professionisti.

Del resto molti grandi fotografi, sia nel passato che ai giorni nostri, sono “nati” come semplici fotoamatori, conservando per tutta la vita quell’atteggiamento di curiosità e voglia di sperimentare che spesso caratterizza il dilettante più ancora che chi fotografa per mestiere.

L’unica differenza stava nel fatto che il professionista riusciva a diffondere il suo lavoro e a farlo conoscere, grazie ai contatti e ai canali professionali che poteva utilizzare, mentre il dilettante non aveva di solito la possibilità di divulgare la sua produzione al di fuori della ristretta cerchia degli amici, dei parenti o degli iscritti al suo circolo fotografico. Al massimo poteva sperare di collaborare con qualche periodico a diffusione locale.

L’esempio delle agenzie fotogiornalistiche è illuminante.

Quando un fotografo voleva iniziare a collaborare con un’agenzia, doveva inviare in visione dalle trecento alle cinquecento diapositive, tutte sullo stesso argomento (le agenzie preferiscono i professionisti specializzati ai dilettanti tuttofare).
Alle diapositive, numerate, andavano allegati dei fogli dattiloscritti o – più recentemente – un file Word con le didascalie, numerate nello stesso modo.
L’agenzia selezionava un certo numero di immagini e – se le riteneva commerciabili – inviava al fotografo un contratto di collaborazione.

E’ evidente che ben pochi dilettanti erano in grado di fornire trecento e più immagini monotematiche, ma soprattutto di garantire una produttività sufficiente a rendere favorevole la collaborazione.

L’avvento della fotografia digitale ha drasticamente cambiato questi equilibri.
La vera novità della fotografia digitale, infatti, non è la possibilità di elaborazione delle immagini in postproduzione (anche in camera oscura si fanno le elaborazioni), ma la possibilità – grazie alla rete – di condividere le proprie fotografie con un numero virtualmente illimitato di persone.
Quel dilettante che ben difficilmente riusciva a mostrare i suoi lavori all’esterno della cerchia dei conoscenti, si è trovato improvvisamente in grado di renderli disponibili a chiunque.

Questo fenomeno ha trascinato con sé conseguenze la cui importanza era stata solo parzialmente prevista agli inizi della rivoluzione digitale.

La prima conseguenza è rappresentata dalla graduale scomparsa delle agenzie fotogiornalistiche.
L’editore, il pubblicitario o l’azienda che prima si rivolgevano alle agenzie, si rivolgono oggi a Flickr o ad altri social network, o ancora (quando va bene) alle agenzie “royalty free”.
Qui trovano facilmente fotografie mediamente accettabili a costi irrisori, quando non addirittura gratis: il dilettante è ben contento di cedere i diritti di riproduzione di una sua immagine a fronte del semplice riconoscimento della paternità dell’opera: il suo nome pubblicato su una rivista o su un pieghevole pubblicitario è spesso il massimo a cui possa aspirare.
Del resto, perché l’editore dovrebbe pagare 200 Euro per una foto d’autore del Cervino, quando su Flickr può trovare centinaia di foto del Cervino, magari meno spettacolari ma gratuite?
E poi, cosa se ne fa della spettacolarità quando deve solo far vedere com’è fatto il Cervino ai lettori di un’enciclopedia a dispense?
Per questo le agenzie restano senza clienti e finiscono per chiudere, come è accaduto a Grazia Neri (una delle più prestigiose agenzie italiane), messa in liquidazione nel 2009, o a Panda Photo, l’agenzia di fotografia naturalistica più importante d’Italia, chiusa di fatto nel 2012.
Sopravvivono, per ora, le agenzie di stock “royalty free”, che corrispondono compensi irrisori ma garantiscono volumi di vendite elevati.

La seconda conseguenza (o meglio, la prima conseguenza della conseguenza) è rappresentata da un calo spaventoso della qualità globale delle immagini pubblicate.
L’agenzia era di fatto un tramite e un filtro: la sua funzione era quella di selezionare i fotografi e le fotografie migliori, scartando i lavori mediocri, per proporre al cliente prodotti di alta qualità.
L’editore, che spesso non capiva niente di qualità di immagine (del resto non è quella la sua funzione) era certo di ottenere il meglio che il mercato poteva offrire, accettando di pagarlo per quanto valeva.
Oggi gli editori, gli enti, le agenzie di pubblicità (dove continuano a lavorare persone che non capiscono niente di qualità di immagine) possono servirsi da soli, in quel grande emporio che è la rete.
Peccato che nessuno sia in grado di dir loro che ciò che hanno scelto è una schifezza.
Del resto, se anche qualcuno lo facesse, le sue obiezioni andrebbero ad infrangersi contro l’inappuntabile argomentazione rappresentata dai costi, irrisori quando non addirittura inesistenti.

Le redazioni sono affollate di grafici e art director che sanno tutto di software e di pixel, ma non conoscono nulla di fotografia. Pensano che un’immagine scaricata da Flickr possa diventare una buona fotografia con due minuti di Photoshop. Sfortunatamente per loro (e fortunatamente per i fotografi veri) le cose non stanno in questo modo.
Ma il risultato sono pieghevoli turistici pieni di orizzonti inclinati, verticali convergenti, illuminazioni sbagliate… Problemi che affliggono spesso anche le riviste di viaggi o i cataloghi aziendali (fatti fare dal dipendente con l’hobby della fotografia, così si risparmia il costo del professionista), per non parlare degli orrori che popolano i siti Internet!

La seconda conseguenza della conseguenza sta nel fatto che i compensi che un fotografo può sperare di ottenere si sono drasticamente ridotti.
Abbiamo già citato le agenzie di stock, che corrispondono pochi centesimi per ogni fotografia venduta, ma potremmo estendere il discorso ad altre attività, come ad esempio la fotografia di matrimonio.
Perché pagare un professionista quando c’è lo zio Anselmo con la sua reflex superaccessoriata?
O magari un amico che “ne capisce”?

Un (mal)costume talmente diffuso che persino la Federconsumatori (che dovrebbe tutelare la qualità) scrive in un suo comunicato stampa, datato 19 maggio 2009 e dedicato ai costi del “fatidico sì”:
“Per quanto riguarda le foto, poi, domandare ai propri invitati di fare foto in abbondanza potrebbe essere un modo per evitare di ingaggiare fotografi professionisti”.
E brava la Federconsumatori!
Se volete leggere tutto il comunicato, andate alla pagina (alla data di stesura del presente articolo, il comunicato è ancora in rete).

Che poi lo zio Anselmo o gli invitati facciano delle schifezze (ammesso che il parroco sia disposto a tollerare tutta quella gente che si muove intorno agli sposi bombardandoli con i flash) poco importa. L’importante è risparmiare: almeno si può spendere un po’ di più per la carrozza, ci mettiamo quattro cavalli invece di due.

Per cui il fotografo di matrimoni deve abbassare i prezzi, se non vuole sentirsi dire “Ma come, così tanto? Ma non fotografi in digitale, che non ti costa niente? E poi per te è un divertimento, no?”
E questo nonostante il fatto che – nella realtà – fotografare un matrimonio in digitale si traduca in una quantità di lavoro di gran lunga superiore rispetto a quando si lavora in analogico: le lunghe ore passate in postproduzione hanno di fatto un costo che chi usa la pellicola non deve affrontare.
Ma questo non viene percepito dal cliente, ormai diseducato alla qualità e – il più delle volte – al rispetto del lavoro altrui.

In questo panorama apparentemente desolante, come si pone il mestiere del fotografo?
Bene, ci sono una notizia cattiva e una buona.

La cattiva è che il mestiere del fotografo, inteso come “colui che sa far venire bene le foto”, non è in crisi.
Semplicemente è scomparso!
Nella percezione generale (che sia vero o no poco importa) con gli apparecchi moderni chiunque è in grado di “far venire bene le foto”.

Perciò, per bene che vada, il fotografo potrà partecipare d’ora in avanti alle fiere paesane degli antichi mestieri: si metterà dietro al suo banchetto a mostrare quello che sa fare, accanto al cardatore di lana e allo spaccapietre (come quelli raffigurati nel celebre quadro di Gustave Courbet).

La notizia buona è che – data la situazione – tutte le possibilità sono aperte.
Soprattutto è aperta la possibilità di inventarsi un nuovo mestiere, che sappia conciliare l’esperienza nel campo dell’immagine con la preparazione culturale; la capacità di autopromozione con la conoscenza del mercato.

In altre parole, il fotografo può (deve) diventare un organizzatore di eventi (culturali, artistici, sportivi, mondani) nei quali l’immagine abbia una parte importante anche se non necessariamente esclusiva.

Un esempio, tanto per chiarire.
Fino a cinque anni fa c’erano circoli, enti, amministrazioni pubbliche che mi invitavano a organizzare mostre dei miei lavori e mi pagavano per farlo.
Se sperassi oggi una cosa del genere dimostrerei di non aver capito come funziona il mondo!
Adesso se voglio esporre i miei lavori devo includerli in un discorso di più ampio respiro, in un evento che abbia come tema non le mie immagini, ma argomenti culturali o di attualità in grado di interessare il pubblico, e all’interno dei quali ci possano stare “anche” le mie fotografie.

Una solida preparazione culturale e artistica, la capacità di tenere gli occhi aperti sulle tendenze del mercato, la capacità di coinvolgere le persone giuste al momento giusto: ecco alcuni degli “ingredienti” necessari per reinventarsi e per proporsi a buon diritto come unici, veri e qualificati esperti dell’immagine.
L’obiettivo è quello di trasformarci da abili confezionatori di fotografie in comunicatori a 360 gradi.

Soprattutto, è necessaria una volontà ferrea di elevarsi al di sopra delle mode e delle tendenze dominanti.
In un mondo dove l’apparire è considerato il più prezioso dei valori, occorre mettere in campo doti non comuni di modestia, umiltà e desiderio di imparare. Queste sono le qualità che consentono al fotografo di emergere, in un ambiente dove sono spesso l'egoismo, il livello mediocre e la voglia di primeggiare quando non se ne hanno gli attributi ad essere considerate le armi vincenti, armi che al contrario non fanno che generare ingratitudini, trucchi di bassa lega e, di conseguenza, mancanza di rispetto per i propri clienti e per il proprio lavoro.

Costerà fatica, costerà insuccessi e delusioni, ma l’epoca in cui viviamo ci ha ormai abituati a rinunciare a ciò che credevamo acquisito, e ben pochi hanno ancora la possibilità di adagiarsi sulle vecchie certezze.
Dovremo imparare a lavorare come i lupi: dieci inseguimenti a vuoto per avere un coniglio.

Per cui…

…in bocca al lupo a tutti!

Michele Vacchiano © 03/2014
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