NASCITA DI UNA FOTOGRAFIA: LA SERA SULLE LEVANNE
Michele Vacchiano, ottobre 2002

Nadir Magazine ©

Nadir Magazine ©

Conoscevo bene quel singolare effetto scenico creato dal sole che tramonta dietro le cime e ne proietta le ombre sugli strati alti dell'atmosfera. Le condizioni meteo erano giuste e sapevo che si sarebbe verificato, ma era ancora troppo presto.
Stavamo tornando da un impegnativo workshop in montagna e il gruppo era piuttosto affaticato. Nonostante questo, avevo bisogno di tempo.
Dal momento che gli altri non conoscevano il percorso, proposi una lunga deviazione per evitare di attraversare la pietraia. Qualcuno provò a brontolare per il fatto che bisognava risalire il pendio, ma in quel momento io ero la loro guida e se dicevo che era necessario passare di là, evidentemente dovevo avere le mie buone ragioni.
Uno dei miei allievi venne in mio aiuto suo malgrado ponendomi una domanda tecnica sull'effetto dei basculaggi. Era ciò che aspettavo! Li feci sedere in cerchio intorno a me e iniziai a parlare.

Io riesco a esprimere il medesimo concetto utilizzando venti parole oppure ventimila. Quella volta superai me stesso: credo che nessuno abbia mai parlato di basculaggi con altrettanta pignoleria.

Nel frattempo il sole continuava il suo lento viaggio sullo sfondo del cielo, giocando a nascondino con le fronde dei larici che l'autunno aveva iniziato ad ingiallire: un buon soggetto per una fotografia e una buona occasione per illustrare l'argomento di cui stavo parlando. Per evitare il fenomeno delle verticali convergenti, infatti, non si usa soltanto il decentramento verticale verso l'alto, ma anche il doppio basculaggio delle due standarte dopo avere inclinato verso l'alto il banco. E' quello che si chiama "decentramento indiretto" e amplia le possibilità di movimento dei corpi quando il solo decentramento verticale non ce la fa. Aspettare che ogni componente del gruppo aprisse il cavalletto, sistemasse la macchina, verificasse l'effetto dei movimenti, calcolasse l'esposizione, disquisisse sul sistema zonale, facesse la foto e infine ramazzasse tutta la propria ferramenta mi permise di guadagnare un buon tre quarti d'ora. Perfetto!

Erano le cinque e mezza. Mancava ancora un'ora al calar del sole, ma soltanto dieci minuti al fondovalle. Avrei avuto bisogno di una scusa, di una nuova idea… Ma mentre ancora mi lambiccavo il cervello raggiungemmo il villaggio e le nostre auto.
"Bene" pensai, "adesso saluto tutti e risalgo".
Ma non avevo calcolato la sosta al bar, rito obbligatorio dopo una giornata passata insieme e durante la quale si sono fatte nuove conoscenze. Questo mi avrebbe fatto perdere tempo, facendomi mancare all'appuntamento con l'attimo incantato che avevo atteso per tutto il giorno. Decisi che avrei rischiato di fare la figura dell'orso. Del resto io non bevo caffè se non eccezionalmente, non assumo alcolici al di fuori del pasto serale e quando qualcuno mi invita al bar non so mai cosa prendere. Dissi che avevo delle commissioni da fare in paese, salutai tutti e mi incamminai di buon passo su per il sentiero, finché raggiunsi una radura tra i larici da cui avrei potuto godere di un punto di vista ideale.
Calcolai che il sole sarebbe tramontato di lì a una mezz'ora.
Finalmente solo e completamente padrone di me stesso, mi sedetti su una roccia ricoperta di lichene, rivolto verso il sole. Estrassi dallo zaino la borsa del tabacco e iniziai a riempire la pipa, con calma e metodo. All'epoca fumavo quasi esclusivamente il Torina di Schürch, che acquistavo in Svizzera da Synjeco. E' una "mixture" inglese che apprezzo molto e che ricorda il Balkan Sobranie n. 759, il miglior tabacco da pipa che io abbia mai fumato ma che purtroppo è uscito di produzione parecchi anni or sono.
L'aroma del tabacco appena acceso mi ricordava il fieno falciato e si stemperava nell'odore di fumo che proveniva dal villaggio giù in basso. Qualcuno aveva acceso la stufa e stava preparando il minestrone o la polenta della sera.
Dopo una ventina di minuti di puro piacere iniziai a prepararmi. Volevo che l'immagine esprimesse tutta la calma di quella sera, ma anche quel filo di malinconia che mi derivava dal non essere a casa, ma solo fra le montagne. Invidiavo un poco quei montanari là in basso, riuniti intorno alle loro tavole, tappati in casa come se temessero il ritorno della sera. Insieme all'oscurità si avvicinavano alla mia coscienza i ricordi delle antiche leggende e delle favole che la nonna mi raccontava quand'ero bambino. L'unico in paese a possedere la televisione era il bar Italia e lì ci si radunava una volta alla settimana per vedere "Lascia o raddoppia". Le altre sere le si trascorreva seduti in cortile, appena fuori della porta di casa, a chiacchierare con i vicini. I vecchi raccontavano storie di fantasmi o di strani incontri notturni. A volte ci si radunava tutti in qualche stalla o in un grande locale, dove gli adulti mondavano le pannocchie e i bambini ascoltavano rapiti le storie del bosco, popolate di orchi e di streghe. Poi si recitava il rosario e allora le ombre e le paure si dissipavano, rischiarate dalla luce vera.
Ma lassù, tra le ombre dei larici che si allungavano sempre più scure e i mormorii indistinti della foresta, non era difficile non ripensare alle "masche", le streghe, o alle "faje", le misteriose incantatrici (bellissime ma dal piede caprino) che seducono l'incauto viandante per trascinarlo nel loro regno e lì trattenerlo per sempre.
Nel frattempo il sole si era nascosto dietro le vette e ne proiettava l'ombra, usando come schermo il velo di foschia. Era l'effetto che avevo tanto aspettato. Scattai la foto senza consultare l'esposimetro: sapevo perfettamente come far risaltare il fenomeno. In quanto alla foresta, volevo che rimanesse nell'ombra: soltanto in questo modo sarebbe stato possibile udire i passettini discreti delle fate.
Venti minuti più tardi ero in macchina e stavo guidando verso casa. Ero contento del mio lavoro, ero stanco, e in un angolino irrazionale della mia coscienza mi sentivo finalmente un po' più al sicuro.

Michele Vacchiano © 10/2002
Riproduzione Riservata