UN'ESCURSIONE IN PARADISO
Montagna, rifugi, Gran Paradiso, fotografia in grande formato e... mogli!
Michele Vacchiano, marzo 2001

"Ma… che cos'è 'sta roba!?"

"La mia macchina fotografica… perché?"

La mia amica Claudia mi squadra come se fossi appena uscito da un disco volante. Il suo sguardo passa dalla sua Yashica con zoom 28-210 alla mia Wista DX montata su un cavalletto in legno.

"E tu vai in montagna con… con quella?"

"Beh… perché no?"

Rimane in silenzio per circa mezzo minuto, poi scuote la testa mormorando "Tu sei fuori…"

Due ore dopo stiamo salendo lungo il sentiero che conduce al rifugio Vittorio Emanuele, nel cuore del Parco Nazionale. Claudia ha già scattato una quarantina di foto, io neppure una. In realtà sto aspettando la luce perfetta, il momento magico, l'attimo incantato in cui ogni cosa sarà al suo posto. Solo allora monterò la mia folding per dedicare una ventina di minuti a una sola immagine.

Quando si va in montagna col grande formato il problema principale a cui prestare attenzione è costituito dai pesi. Quand'ero più giovane mettevo nello zaino qualunque stupidaggine, dal filtro cross-screen al panno nero di cachemere che pesa circa due chili, più tre o quattro obiettivi perché non si sa mai… Il tutto si aggiungeva a una press camera in metallo tanto robusta quanto pesante. Dopo un'ernia del disco e sei mesi di busto in gesso ho deciso di viaggiare leggero. Una Wista DX ha sostituito la Graflex: è meno pesante, più aggraziata, meno "americana", insomma. Ed è anche più versatile quanto a movimenti. Può essere ripiegata senza smontare l'obiettivo, a patto che questo sia sufficientemente piccolo. Io uso come obiettivo normale un Rodenstock Sironar 150 mm. Per compensare lo scarso allungamento del soffietto (poco più di 30 cm), che non mi permetterebbe di usare lunghe focali, ho aggiunto al corredo un Horseman Teleconverter 2x. In questo modo posso raddoppiare la focale del Sironar con un tiraggio inferiore a quello che sarebbe richiesto da un 300 mm a schema tradizionale, riuscendo ancora a sfruttare quel po' di tiraggio necessario alle riprese ravvicinate.

Quando ho bisogno di un cerchio di copertura più esteso utilizzo uno Schneider Apo-Symmar da 210 mm. Per le riprese di paesaggio in montagna non mi serve altro. Il cavalletto è un Berlebach in legno dotato di colonna basculante (tre chili tutto compreso). Lo so che un cavalletto in fibra di carbonio sarebbe più leggero, ma ho visto troppi temporali in alta quota per andare in giro con un parafulmine legato allo zaino. Al posto degli chassis tradizionali preferisco utilizzare i sistemi a caricamento rapido Kodak Readyload o Fuji Quickload, inserendo le bustine nel dorso Polaroid 545. Non è solo un problema di peso, ma anche di pulizia: per quanta attenzione si faccia, caricando le pellicole piane in camera oscura c'è sempre il rischio che un granello di polvere o un peluzzo volante vi si depositino. Un panno nero ultraleggero, l'esposimetro Sekonik, lo scatto flessibile, un polarizzatore e due filtri per il bianco e nero completano il mio equipaggiamento da montagna. In tutto, meno di sei chili.
Arrivati al rifugio, noto con fastidio che c'è troppa gente. Una comitiva di romani sembra occupare tutto lo spazio: gridano e si richiamano ad alta voce, senza troppo preoccuparsi di dove gettare gli involucri della loro cioccolata. C'è anche un gruppo di ex Alpini, veneti, a quanto sembra. Cantano a squarciagola, il cappello piumato ben calcato sul cranio: "Per noi ci vuole uno che ci sappia comandar!" Patetico.

Io detesto questo "popolo dei rifugi", questa gente che si crede eroica per aver fatto tre ore e mezza di sentiero e che si comporta come sulla spiaggia di Ladispoli. Claudia è stanca ma io non sopporto di restare lì. La invito a salire ancora un poco, fino a superare la pietraia che sovrasta il rifugio e che conduce verso il ghiacciaio del Gran Paradiso. Lassù troveremo il silenzio, la purezza dell'alta montagna, il profumo della neve portato dal vento.

Mi segue brontolando: lei odia la pietraia! Cerco la strada più facile attraverso le rocce. Dopo un'ora di faticosa salita attraversiamo il torrente glaciale. Qualche metro più in là dieci o dodici stambecchi ruminano tranquilli, pigramente seduti sotto il sole. Potremmo avvicinarci al branco senza provocare reazioni di fuga.

Claudia decide che l'escursione è finita: sfila gli scarponi e si distende sulla riva del ruscello, i piedi nell'acqua gelida. Sullo sfondo, la cima del Gran Paradiso si staglia contro un cielo color cobalto.

Estraggo dallo zaino l'apparecchiatura e incomincio a lavorare con calma. Mi piace questa pietraia infinita che riempie l'orizzonte, facendo apparire poco importante lo stesso Gran Paradiso. E soprattutto mi affascina questo cielo incredibile al di sopra di tutto.

La pelle abbronzata di Claudia contrasta con il suo top e i suoi pantaloncini verde chiaro. Non posso impedirmi di starla a guardare: una lucertola colorata che si riscalda al sole.

Scelgo un'inquadratura orizzontale per dare risalto alla vastità della pietraia. Soprattutto voglio enfatizzare il primo piano. Basculo in avanti la piastra portaottica per applicare la regola di Scheimpflug e dedico qualche minuto alla ricerca della messa a fuoco perfetta. Poi decentro verso l'alto fin quasi a raggiungere il limite del cerchio di copertura: in questo modo il cielo apparirà più scuro e saturo.

Invito Claudia a osservare l'immagine sul vetro smerigliato. Si alza pigramente e si avvicina, con l'aria di chi acconsente con benevolenza a una richiesta poco interessante. Sale con i piedi nudi sopra i miei scarponi e si solleva sulle punte per guardare meglio. Per tenersi in equilibrio si aggrappa ai miei polsi. Non l'ho mai avuta così vicina. Non sono ancora sicuro di quello che provo per lei ma questo contatto mi piace. Si stupisce nel vedere un'immagine capovolta, ma più ancora ne apprezza le dimensioni e la nitidezza. "E' stupendo!" sussurra. Tutto sommato penso anch'io che sia stupendo, ma non mi riferisco all'immagine.

Regolo il diaframma, chiudo l'otturatore e inserisco lo chassis. Tutto è pronto. Adesso non resta che attendere il momento magico, quello prima del quale e dopo il quale la fotografia non avrebbe significato. Soprattutto aspetto che quella nuvola lassù passi davanti al sole, creando imprevedibili effetti di luce e ombra sul ghiacciaio.

"Ti disturba se prendo il sole?" Claudia si sfila il top e si allunga sulla roccia tiepida con la flessuosità di una gatta selvaggia. Il vento mi porta il profumo della sua pelle accaldata. Adesso lei è una cosa sola con l'acqua e la pietra, con l'aria limpida e la neve. Eccolo il momento magico, l'attimo incantato in cui tutte le cose sono al loro posto. Estraggo il volet e aziono lo scatto flessibile.

Mi osserva con aria sorniona mentre ripongo nello zaino l'attrezzatura.

"Hai finito?"

"Sì…"

"Perché non ti siedi un po' vicino a me?"

Gli stambecchi sono sempre là, accucciati fra le rocce. L'eco di un tuono lontano scuote l'aria sottile: forse è il ghiacciaio che freme alla carezza del sole. In momenti come questo mi tornano sempre alla mente i versi del "mio"Baudelaire: "Là, tout n'est qu'ordre et beauté, luxe, calme et volupté"…

Vi faccio vedere due fotografie. La prima è quella che ho scattato sulla pietraia, con il Gran Paradiso sullo sfondo; la seconda raffigura Claudia poco dopo, sulla via del ritorno, davanti al rifugio Vittorio Emanuele. Non è una grande foto, giusto l'istantanea che qualunque giovanotto scatterebbe alla sua ragazza. In ogni caso, questa è Claudia quel giorno…

…a proposito, lei è mia moglie, adesso.

Michele Vacchiano © 3/2001
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