IL DOCENTE ROMPIBALLE
Michele Vacchiano, dicembre 2001

Fare il pignolo durante un workshop rischia di scatenare la rivoluzione. Però, dopo...

E' interessante analizzare ciò che avviene all'interno di un gruppo di fotografi iscritti a un workshop di più giorni. Il primo giorno gli allievi non hanno tempo di coalizzarsi contro di me, sono timidi, non si conoscono ancora. Ma già il secondo giorno incominciano a fare comunella: vedo che borbottano tra loro, si lanciano occhiate… Non si arriva mai alla contestazione diretta, ma il nervosismo cresce. Si tratta ovviamente di reazioni previste ed anzi volute: la crescita avviene soltanto attraverso la crisi. Ma è un momento delicato, che devo sempre governare con polso fermo non disgiunto da una sottile diplomazia. Soltanto il terzo giorno gli insegnamenti incominciano a manifestare i loro effetti, e allora tutte le vecchie convinzioni vengono spazzate via e le menti si aprono ad accogliere la "rivoluzione copernicana", il nuovo modo di vedere la fotografia che io propongo loro.

Resta il fatto che il secondo giorno è sempre difficile da gestire. La domanda serpeggiante è: perché Vacchiano è così rompiballe? Fa le pulci sugli zoom (che pure usano tutti), non gli piacciono i catadiottrici, fa battutine sceme sulle compatte, schifa le macchine russe che costano poco e se diciamo che facciamo la macro invertendo l'obiettivo si scompiscia dalle risate e la cosa dà anche un po' fastidio, a ben vedere, perché ci sentiamo presi per i fondelli. Questo è anche il succo di molti messaggi che ricevo privatamente. E se mi occupo di grande formato la cosa non cambia: rompiballe sono e rompiballe resto.

Bene, credo di dovere delle spiegazioni. Quando incominciai a fotografare feci come fanno tutti. Avevo pochi soldi (non che adesso ne abbia molti di più, sigh!) e pur di scattare qualche foto comperavo gli zoom Sigma (quelli di allora, non quelli di adesso) e i duplicatori macro Panagor. Ho avuto anche due catadiottrici (visto? non sono così fuori dal mondo come comunemente si crede): un Tamron 350 mm e un Vivitar 400 mm. Finché fotografavo mio figlio al mare, le feste di paese e gli amici sulla vetta della Traversière andava tutto bene. Anche se dalle stampe ero ben presto passato alle diapositive, mi limitavo a proiezioni domestiche, quelle dove parenti e amici esclamano "beeellaaa!" ad ogni foto perché loro non sanno neppure tenere in mano la usa-e-getta mentre io fotografo dall'età di sette anni.

Ma poiché sono ambizioso (oltre che spaventosamente vanitoso), a furia di sentirmi dire "beeellaaa" mi convinsi che forse come fotografo non facevo del tutto schifo, anche perché quando uno inizia a sette anni una certa sensibilità l'avrà pure sviluppata. Per cui cominciai a mostrare le mie immagini a gente che poteva sostenermi nel grande passo: pubblicare e - possibilmente - vendere le mie immagini.

Il termine piemontese "baròt" descrive quel nodoso randello di frassino che si usa per accoppare i conigli colpendoli dietro le orecchie. Pochi secondi, una breve convulsione e puoi cominciare a levargli la pelle. Io di "barottate" dietro le orecchie ne ho prese finché mi è bastato. Da Paolo Fioratti al quale avevo mostrato le mie prime foto di insetti (fatte col Panagor macro), a madame Clairmont che mi scartava tutte le foto fatte con lo zoom, alle agenzie che mi rimandavano indietro i primi lavori con la misericordiosa annotazione "ci duole informarla che le sue immagini non corrispondono ai nostri attuali standard qualitativi". Quando poi presi a lavorare con gli americani, che sulla qualità di immagine non transigono, capii molto in fretta che - come in tutti i lavori - la precisione e la pignoleria pagano. Io che per carattere non ero né preciso né pignolo imparai il valore delle cose fatte bene e mi decisi finalmente a rinnovare non solo il mio "linguaggio" fotografico ma anche la mia attrezzatura, convinto (come lo sono ora) che la tecnica sia funzione dell'espressione, e che solo la conoscenza profonda dei propri strumenti di lavoro può portare il fotografo a dire quello che vuole lui e non quello che vuole la macchina. Così ho scoperto che le focali fisse valgono più degli zoom, che il mio cervello ragiona meglio di qualunque esposimetro e che la differenza tra i vari formati non è soltanto una questione di dimensioni.

Credo che chi partecipa a un workshop o legge "Nadir" abbia velleità un po' più che amatoriali. Se mi rivolgessi a persone interessate soltanto alla foto-ricordo sarei il primo a dire che va tutto bene, anche la Kiev 4m. Ma a gente che ogni tanto mi chiede come si fa a collaborare con le agenzie non posso raccontare storie: sarei disonesto ed anche un po' bastardo se creassi delle illusioni. Per questo esorto sempre a prestare la massima attenzione alla qualità di immagine, preferendo le ottiche fisse e gli schemi a lenti agli zoom e ai catadiottrici, scegliendo un vero obiettivo macro piuttosto che il normale invertito o montato sul soffietto. E non venitemi a dire che la differenza non si vede, perché è una cazzata.

Lo stesso discorso vale per il trattamento dell'immagine. Una volta scrissi che i minilab, quelli che sviluppano le foto in ventitré minuti, sono fatti per privilegiare la quantità piuttosto che la qualità. Apriti cielo! Alcuni si sentirono immediatamente punti sul vivo e giù, altre barottate dietro le orecchie (fortuna che adesso porto il casco!). In realtà quello che dissi allora lo ribadisco e lo confermo. Non si tratta di un giudizio negativo, non dico che siano dei delinquenti rubasoldi, tutt'altro! Dico solo che offrono un servizio utile a una ben precisa categoria di utenti interessati a certi risultati e non ad altri. La famigliola che di solito utilizza la macchinetta tascabile che come obiettivo ha un menisco di plastica vuole vedere subito le foto delle vacanze. E il minilab gliele stampa mentre fa la spesa. A fronte di orizzonti inclinati, primi piani sparati, colori assurdi e contrasti casuali, che vuoi che gliene freghi della qualità di immagine? Basta che si veda l'ombelico della fidanzata o il faccione sorridente di zio Peppino, che chissà se un altr'anno lo troveremo ancora vivo, povero vecchio. Anch'io mi sono rivolto ai minilab: mi avevano chiesto di fotografare una festa scolastica e le mamme volevano le immagini dei loro pargoletti pronte per il giorno dopo. Io gli ho dato le stampe e i negativi, dicendo chiaramente (perché ci tengo alla correttezza professionale) che avevo fatto delle stampe economiche e che - se volevano una maggiore qualità - potevano farsi fare delle ristampe a mano. Mi hanno guardato come se parlassi di fisica delle particelle: a loro importava spendere poco e vedere un primo piano del loro bambino con la faccia sporca di Nutella. Avevano avuto entrambe le cose, e allora io che blateravo a fare? E soprattutto, di che accidenti stavo parlando?

Ho insegnato fotografia alla scuola di giornalismo. Insistevo sempre su due cose, entrambe controcorrente. La prima era il rispetto (totale, incondizionato) della persona umana, della sua dignità e del suo diritto alla privacy (quando di legge sulla privacy ancora non si parlava). Se la fotografia implica una violazione del diritto alla riservatezza, o costituisce un affronto alla dignità della persona, la fotografia non si fa, punto e basta. La seconda era l'importanza della qualità di immagine: mostrare una figura umanoide sgranata e sfocata in mezzo alla tormenta e spacciarla per l'abominevole uomo delle nevi non è giornalismo, non è informazione e non è neppure fotografia: è un crimine. E in quanto tale non è ammissibile da parte di comunicatori professionisti. La comunicazione fotografica dev'essere chiara, ben fatta, gradevole da vedere e soprattutto onesta.

Come insegnante ero rompiballe, lo ammetto: l'unica consolazione era l'adorazione incondizionata degli allievi di sesso femminile, ma questa è tutta un'altra storia.

Michele Vacchiano © 12/2001
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