UN SOGNO (CENTOMILA MINUTI?????)
Un racconto di Michele Vacchiano, 1999

Venti caricatori da cento diapositive l'uno fanno duemila diapositive. Poi ci sono i dossier pieni di plasticoni 6x6. Diciamo altre quattromila. Circa cinquecento in grande formato e arriviamo a seimilacinquecento. I negativi a colori e in bianco e nero sviluppati e mai stampati saranno circa un migliaio. Altre duemila stampe a colori di quando ero giovane… E quelle spedite in giro? Agenzie, editori, giornali… Quelle non le posso contare, perché l'archivio che tenevo è andato distrutto per colpa di un fulmine che mi ha formattato l'hard disk. Pazienza, saranno state un migliaio anche loro.

E poi ci sono quelle scartate. Già, perché ogni anno io mi prendo una settimana per rivedere tutto il mio archivio personale. Tutti noi si cresce, si matura, anche fotograficamente voglio dire. Per cui una foto fatta due anni fa oggi non la rifaresti mai e poi mai. Così io le butto via, senza rimpianti. Non sono più io, non è più il mio stile, per cui non voglio che un qualcosa che non mi appartiene vada in giro con il mio nome. Un intero servizio su Torino by night ha preso la strada della discarica sei mesi fa. Erano circa 500 immagini. Mica brutte, anzi. Tecnicamente a posto, formalmente pulite, non una verticale convergente nonostante fossero state scattate in piccolo formato, un certo gusto per l'originalità… Alcune le avevo anche pubblicate. Ma adesso non le rifarei più così, le trovo banali, già viste, un po' scontate. Via, nel sacco nero, tutte quante. Insieme a trecento foto di insetti, ottocento di fiori, un numero imprecisato di paesaggi alpini. Io sono fatto così.

La conseguenza di questo è che ho un archivio personale poverissimo, nonostante che fotografi praticamente dall'età di quattro anni e non abbia mai smesso. Ma l'immagine è fatta di luce e la luce è effimera, non merita di durare a lungo.

È una calda notte di luglio quando sogno che sto ripulendo il mio archivio. Mentre sono lì nel ripostiglio che mi serve da libreria e da archivio delle foto, il sacco nero in una mano e i plasticoni nell'altra, sento una voce (una specie di voce fuori campo) che mi chiede: "Ma quante foto hai scattato nella tua vita?" A momenti mi viene un colpo. Sfido io che Giovanna d'Arco a sentire le voci è uscita pazza. È una voce imperiosa, come quella del professor Maddalena quando mi chiedeva perché nella traduzione dal greco al latino avessi tradotto il participio "aphikomenos" con l'espressione "cum convenisset". La traduzione era giusta, ma il tono del professor Maddalena, che ti guardava con quegli occhi cerulei che sembravano ghiaccio, metteva paura, e anche se avevi scritto giusto ti impappinavi come una matricola. Bene, per non divagare c'è questa voce che mi chiede quante foto ho scattato e io mi sento un verme perché non lo so, e mi darei i pugni in testa per averne buttate via tante senza nemmeno contarle. Ma voi li contate i vasetti di yoghurt quando li gettate nella pattumiera? No, e io perché dovrei contare le foto?

Comunque sono a un punto morto e non so che cosa dire. E questa voce insiste. Sembra che dalla mia risposta possa dipendere qualcosa di importante e l'unica cosa sensata che potrei dire (scusa, ma a te che ti frega?) non mi passa nemmeno per l'anticamera del cervello. Cerco di fare rapidi calcoli ma non cavo un ragno dal buco, provate voi a fare i conti con uno che ti borbotta nelle orecchie "ehi, tu, quante cavolo di foto hai fatto".

Io sono uno che si butta, del tipo o la va o la spacca. Di solito va ed è per questo che ho sviluppato una certa sicurezza in me stesso (okay, va bene, ditelo con parole vostre: sono un gasato). Per cui dopo un po' decido che quell'accidente di sogno mi ha rotto le scatole e tiro lì il primo numero che mi viene in mente: "Centomila!" proclamo con decisione.

La voce misteriosa tace. È un silenzio pieno di tensione, come quando il professore scrive e scrive sul suo registro e sembra che lo faccia apposta a tenerti sulle spine mentre tu vuoi solo sapere che voto ti ha dato e ritornare al tuo posto per posare la mano sul ginocchio della compagna di banco (o per leggere Tex, se volete, ma io preferivo il ginocchio della compagna di banco. E anche lei). Fatto sta che dopo un numero di secondi interminabile la voce borbotta, quasi dispiaciuta, "Risposta esatta", e il sogno finisce.

"Centomila."

"Eh?"

"Sono centomila."

"Ma... ma cosa…"

"Michele, sei sveglio?"

No, cavoli!, no che non sono sveglio, cioè adesso lo sono, ma quando me l'hai chiesto non lo ero, anzi sei stata tu a svegliarmi…

Ma il pensiero è troppo complesso per prendere forma e strutturarsi come discorso. Quello che riesco ad emettere è solo un profondo mugolio di disapprovazione. Apro gli occhi e vedo Claudia già vestita e pronta per uscire. Di solito sono io che mi sveglio per primo: il Freisa d'Asti di ieri sera doveva essere meno leggero di quanto credessi.

"Buona giornata amore. Ti ho lasciato sul comodino le centomila lire per la signora Sabina. Quando arriva dille che deve soltanto stirare. Io scappo perché devo essere a scuola più presto del solito."

Mi posa un rapido bacio sulle labbra con l'alito che sa di dentifricio e scompare. Io mi alzo, mi infilo sotto la doccia e lascio andare la mente a un rapido calcolo: l'ho sposata due mesi e nove giorni fa, meno una manciata di ore. Quante ore in tutto? Poco più di milleseicentosessantasei. Centomila splendidi minuti.

Michele Vacchiano © 1999
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