CARO, VECCHIO VETRO
Tutti noi diamo per scontato che dentro gli obiettivi ci siano lenti di vetro. Perché?

Agostino Maiello, ottobre 2003

In teoria, nulla vieta di usare - per gli obiettivi, i microscopi e più in generale per le esigenze dell'ottica - moltissimi dei materiali cristallini esistenti in natura, purché ovviamente non metallici; e si sa che molti obiettivi delle compatte più economiche hanno addirittura le lenti in plastica. Ma, come tutti sappiamo, in generale è il vetro a farla da padrone, e non i cristalli o la plastica. Questo avviene perché la scelta del materiale da utilizzare dipende da una serie di fattori: contano non solo le proprietà ottiche (che come detto non sono esclusive del vetro), ma anche quelle meccaniche e termiche, nonché la capacità che si ha di lavorarlo; non ultimo, naturalmente, il costo. Ora, se si considera l'insieme di questi fattori il vetro vince a mani basse: relativamente economico, è molto lavorabile grazie anche ad una lunga esperienza artigianale e poi industriale consolidatasi nei secoli; inoltre vanta eccellenti qualità ottiche più che sufficienti per le esigenze finora sorte.
Si stima che il vetro sia l'elemento fondante di oltre il 90% degli apparati ottici esistenti, e le sue capacità in materia di trasmissione della luce nello spettro visibile, la sua alta omogeneità, la facilità di molatura e lavorazione, l'ampia disponibilità di informazioni cui i progettisti possono attingere sui vetri esistenti spiegano questo dominio. Il costo relativamente accessibile è un altro fattore a favore del vetro, per quanto il costo complessivo dipenda anche dalla qualità del materiale di partenza: bisogna infatti adoperare vetri di buona qualità, per evitare di ritrovarsi in seguito con troppi scarti o con complicazioni produttive dovute a risposte non omogenee del materiale lavorato, rotture, bolle, e così via.

DEFINIZIONI
Ma che cos'è il vetro? Aiutiamoci con l'enciclopedia Zanichelli. "Vetro: denominazione generica di una sostanza omogenea e compatta che presenta una struttura amorfa e non cristallina, per cui può essere considerata un liquido con viscosità elevatissima. Correntemente, materiale costituito da silicati vari di sodio, potassio, calcio, piombo (...)". La sostanza di partenza è dunque la silice. Già, ma cos'è la silice? Un composto del silicio, dice ancora l'enciclopedia, e la formula è SiO2, cioè silicio più ossigeno, se quel po' di chimica che ricordiamo dal liceo vale ancora qualcosa. Ed il silicio è un elemento chimico il quale, c'informa ancora la Zanichelli, costituisce oltre un quarto della crosta terrestre. E qui ci fermiamo, lasciando alla curiosità del lettore il piacere di continuare ad indagare.
Dunque, abbiamo detto che il vetro è il materiale principe per l'ottica, ed abbiamo definito più o meno cos'è. Ora aggiungiamo un altro dato: variandone la composizione chimica, si alterano le sue proprietà. Ciò avviene, ci dice un agile (1300 pagine) testo statunitense di ottica che abbiamo consultato, perché da un punto di vista stechiometrico il vetro è modificabile. Stechiometrico, ci soccorre ancora la Zanichelli, è ciò che riguarda i rapporti quantitativi tra i vari elementi chimici di un composto. Ma quali sono queste variazioni? Tipicamente, le esigenze fotografiche richiedono modifiche dell'indice di rifrazione e dei coefficienti di dispersione o termo-ottici. E' ciò che si ottiene, per esempio, usando elementi provenienti dalle cosiddette "terre rare"; uno dei più utilizzati in fotografia è il lantanio. E visto che abbiamo la Zanichelli nei dintorni, usiamola ancora per levarci questa curiosità: cosa diamine sono le terre rare? Definizione: "Gruppo di minerali costituiti da miscele di ossidi di scandio, ittrio, lantanio ed altri lantanidi, scoperti per la prima volta in Scandinavia nel 1794, poco frequenti in natura". Non si finisce mai di imparare.

RIFRAZIONE E DISPERSIONE
In linea di massima per le esigenze fotografiche sono due i parametri principali da considerare, l'indice di rifrazione e quello di dispersione. Ma di cosa si tratta, di preciso? Dunque, facciamo un passo indietro: sappiamo che la luce è una radiazione elettromagnetica, e come tale è caratterizzata da due parametri: la lunghezza d'onda, che si esprime in nanomètri (miliardesimi di metro) ed è la distanza che la radiazione percorre nel compiere un'oscillazione; e la frequenza, cioè quante volte la radiazione oscilla in un secondo; com'è noto, la frequenza si esprime in Hertz.
Ora, se si moltiplicano questi due valori, si ottiene la cosiddetta "velocità di propagazione". Per convenzione, la velocità di propagazione nel vuoto, pari a 300mila km al secondo, si indica con V0 ed è presa come valore di riferimento.
Definiamo ora il concetto di rifrazione: è quel fenomeno che avviene quando un fascio di luce, nel passare da un mezzo ad un altro (per esempio dall'aria al vetro), cambia inclinazione. Chi ci dice quanto varia l'inclinazione dei raggi? Risposta: l'indice di rifrazione (dello specifico mezzo), cioè il rapporto tra la velocità di propagazione nell'aria, V0, e la velocità di propagazione nel mezzo in questione, che indichiamo con V1 - e che gentilmente ci dovrebbe essere fornita dal produttore del mezzo, altrimenti non abbiamo risolto nulla.
L'indice di rifrazione, ovvero il rapporto V0/V1 , si indica solitamente con la lettera n; è facile dedurre che l'indice di rifrazione dell'aria è 1 (perché V0/V0=1). Una delle classificazioni più note dei vetri, quella tra crown e flint, si basa proprio su tale indice: si definiscono vetri crown quelli con indice di rifrazione compreso tra 1,4 e 1,53, e flint quelli in cui l'indice varia da 1,53 e 1,65.
Tutto a posto quindi? No, naturalmente, perché come ben sappiamo la luce non è (quasi) mai composta di un solo colore, o più precisamente di una sola lunghezza d'onda: a colpire i vetri dei nostri obiettivi non sono infatti fasci di luce monocromatica, bensì radiazioni di diversa lunghezza d'onda. E sfortuna vuole che a seconda della lunghezza d'onda cambi la rifrazione: più è corta la lunghezza d'onda, più quella specifica radiazione viene rallentata; viceversa nel caso delle lunghezze d'onda maggiori. Questo è il fenomeno della dispersione: in pratica, la scomposizione della luce bianca nelle varie radiazioni che la compongono. Sì, esatto, è proprio l'esperimento del prisma che ci hanno fatto fare alla scuola media...

Come ci si raccapezza in questo ginepraio? Non è difficile: si stabiliscono delle lunghezze d'onda di riferimento, ovvero delle luci monocromatiche ben definite, che sono 589nm (un giallo), 656nm (rosso) e 486nm (blu). Dopodiché si calcola l'indice di rifrazione (di uno specifico vetro) rispetto a queste lunghezze d'onda, e si ottengono tre valori, che si indicano con nd, nc ed nf (perché d, c ed f? Cercate sulla Zanichelli la voce "Fraunhofer" e prendetevela con gli eredi). Queste misurazioni ci consentono di calcolare la dispersione di un vetro, cioè la sua capacità di deviare (ovvero rifrangere) la luce in maniera diversa a seconda della lunghezze d'onda. Quanto più varia l'indice di rifrazione, tanto più il vetro è dispersivo. Chi ha studiato statistica troverà in questo un vago richiamo al concetto di varianza, in un certo senso a ragione.
In particolare, l'indice di dispersione di un vetro è uguale a:
(nf - nc) / (nd -1)
Il suo reciproco, cioè
(nd -1) / (nf - nc)
, si chiama numero di Abbe (proprio lui, quello che lavorava per la Zeiss insieme a Otto Schott; si veda l'articolo "Zeiss: storia di un mito - 1a Parte"). Più il numero è alto, meno il vetro è dispersivo; e viceversa. E con questo ne abbiamo abbastanza, di formule, per un annetto.

CLASSIFICAZIONE DEI VETRI
Tipicamente i vetri vengono identificati con dei nomi che derivano dalla loro composizione, e nei data sheet dei produttori per ogni vetro si indicano diversi valori, tra cui gli indici appena citati. In particolare, un sistema di denominazione abbastanza diffuso si basa su un numero di sei cifre, di cui le prime tre si riferiscono all'indice di rifrazione e le ultime tre al numero di Abbe. Sfortunatamente, però, ogni produttore usa un proprio sistema di identificazione dei vetri, quindi lo stesso vetro si può chiamare 517624 secondo il sistema delle sei cifre (sistema che, per la cronaca, si chiama MIL-G-174 perché è uno standard militare), BK-7 se prodotto dalla Schott, BSC-7 se prodotto dalla Hoya, e così via. L'importante è saperlo!
Tornando per un istante alla classificazione tra crown e flint citata più sopra, precisiamola: i vetri crown sono quelli poco dispersivi, tipicamente con numero di Abbe superiore a 50, ed i flint quelli più dispersivi, con numero di Abbe inferiore a 50. E per favore, non chiedeteci come classificare un vetro con numero di Abbe pari a 50...
Qui sotto, infine, abbiamo pubblicato a mo' di esempio una tabella che descrive le proprietà di alcuni vetri. E' a documenti come questi che i progettisti ed i ricercatori fanno riferimento per selezionare i materiali ottici con i quali, poi, scatteremo le nostre amate fotografie. La prossima volta che staremo guardando una dia dai colori splendidi, non ringraziamo solo la nostra abilità di fotografi: facciamo volare un pensierino anche all'ingegnere o al fisico che hanno selezionato il vetro del nostro obiettivo.

Agostino Maiello © 10/2003
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