HA ANCORA SENSO PARLARE DI GRANDE FORMATO?
Michele Vacchiano, gennaio 2017

Alcuni (pochi) fotoamatori mi scrivono per chiedermi se tengo corsi sulla fotografia in grande formato, o se utilizzo ancora apparecchi a corpi mobili, sia da studio sia da campo (folding).

Usare il Grande Formato in era digitale - FATIFFino a pochi anni fa – quando i sensori digitali professionali non superavano i 22 milioni di pixel – dicevo e scrivevo che una pellicola piana di 4x5 pollici, correttamente sviluppata e scandita ad alta risoluzione, sarebbe stata in grado di superare qualunque dispositivo digitale, in termini di risolvenza e finezza dei dettagli.

Ma il mondo cambia in fretta: nel giro di pochi anni i sensori di medio formato hanno raggiunto i 100 milioni di pixel (sul singolo scatto), mentre quelli di piccolo formato (full-frame) sono arrivati ai 50,6 milioni di pixel della Canon Eos 5DS.
Ed è molto probabile che tra cinque anni queste righe avranno il sapore del rosolio della nonna…

Quindi, per rispondere alla domanda iniziale, dobbiamo partire da una semplice considerazione: fermo restando che un paragone vero è quasi impossibile, data la complessità dei parametri in gioco, possiamo tranquillamente affermare che il potere risolvente di un moderno sensore (anche amatoriale) è – all’atto pratico – superiore a quello di qualunque pellicola.

Lo so che questo farà storcere il naso ai nostalgici, i quali, oltretutto, si fanno forti di alcune affermazioni (quanto autorevoli, non saprei dire) che girano sul web.
Una di queste asserisce che fotografando una mira ottica con una pellicola in bianco e nero a bassa sensibilità, è possibile distinguere (al microscopio) differenze di luminosità fino a due micron: questo equivarrebbe al potere risolvente di un sensore da più di 200 milioni di pixel.
Il fatto è che nella pratica quotidiana (tanto professionale quanto amatoriale) non si fotografano mire ottiche ma soggetti reali, tridimensionali e a colori, spesso a mano libera.
Questo fa scendere la risoluzione reale di una pellicola a valori compresi fra i 6 e gli 8 milioni di pixel, come dimostrano prove effettuate da diversi autori (tra cui Kodak, già nel lontano 1998, e loro se ne intendono).

Usare il Grande Formato in era digitale - FATIFPossiamo supporre che con la macchina sul cavalletto, lo specchio sollevato, lo scatto flessibile, un obiettivo eccellente e una pellicola a bassa sensibilità (quindi a grana fine) si raggiungano i 18-20 milioni di pixel, che è lo standard di molte odierne reflex entry-level, oltre che di gran parte delle mirrorless.
Ma se fotografiamo a mano libera e con lo zoom economico in dotazione, i nostri risultati su pellicola non supereranno la qualità fornita da un sensore da 4 milioni di pixel.

Fino ad ora abbiamo parlato di piccolo formato, ma quanto detto vale anche per i formati superiori: un dorso digitale di medio formato, equipaggiato con un sensore di 4x5 centimetri e superiore ai 40 milioni di pixel, è ormai in grado di superare ampiamente i risultati ottenibili non solo da una pellicola 120, ma anche da una lastra, o pellicola piana, di 4x5 pollici.

Ritengo pertanto che fotografare oggi con un apparecchio di grande formato a corpi mobili rappresenti un divertente, entusiasmante, estroso, creativo e costoso sistema per complicarsi inutilmente la vita, a fronte di risultati più facilmente ottenibili con una full-frame digitale, purché equipaggiata con un obiettivo di qualità e utilizzata in condizioni ottimali.

Questo è il motivo per cui – pur rimpiangendo le possibilità offerte dai movimenti dei corpi (limite superabile, ma solo in parte, utilizzando un obiettivo tilt & shift) – ho da tempo rinunciato a utilizzare il grande formato a livello professionale.

Usare il Grande Formato in era digitale - LINHOFPer quanto riguarda il livello amatoriale, al di là dell’aspetto ludico  e di considerazioni personali (appunto il divertimento, l’estrosità, la creatività), che possono legittimamente incuriosire e stimolare chi fotografa per diletto, suggerisco al fotoamatore di valutare con attenzione il sistema fotografico nel quale investire i suoi soldi, prima di intraprendere un’avventura che implicherà un significativo esborso di denaro (non solo per l’acquisto di apparecchi, obiettivi e accessori, ma anche per acquisire la competenza necessaria ad utilizzarli) e un non indifferente impegno personale.
Aggiungo la crescente difficoltà nel reperire le pellicole piane, ma anche i laboratori in grado di svilupparle, a meno che non si decida di lavorare in bianco e nero e di trattare in proprio i negativi (il che richiederà un ulteriore impiego di tempo e denaro).

Insomma, come si dice in romanesco e anche in piemontese (si scrive uguale ma si pronuncia diverso): lassa perde.

Michele Vacchiano © 01/2017
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Dopo la pubblicazione di questo articolo, abbiamo ricevuto diverse mail di lettori (ed altre critiche le abbiamo viste sui social network) che non si dichiaravano d'accordo con quanto espresso. Ci è parso dunque giusto dare a Michele Vacchiano l'opportunità di chiarire ulteriormente il proprio pensiero

Mi dispiace essere stato frainteso da molti per il senso di questo articolo, ma evidentemente non mi sono spiegato bene, quindi è colpa mia.
Il mio invito a lasciar perdere non era sicuramente rivolto a chi da anni si occupa con soddisfazione e competenza di fotografia in grande formato, capace di regalare momenti davvero magici e irripetibili a chi ha la capacità e la passione per dedicarcisi.
L’invito (come credevo si capisse dal testo) era rivolto al neofita, a chi non ha mai fotografato se non col cellulare e mi chiede se acquistare una reflex o un apparecchio a banco ottico.
E’ al principiante assoluto che nel mio articolo sconsigliavo (e continuo fermamente a sconsigliare) di intraprendere un’avventura difficile, impegnativa, costosa, oggi ancor più di ieri a causa della difficoltà nel reperire i materiali e i laboratori in grado di trattarli.
I risultati che un principiante (e sottolineo la parola) può sperare di ottenere da un banco ottico sono ampiamente ottenibili (e ribadisco anche questo) con una buona reflex. Non perché i due strumenti siano paragonabili, ma perché chi li usa non è in grado di gestire la differenza.
Questo non avviene, ovviamente, quando il banco ottico è usato da una persona esperta, appassionata e competente, che conosce i vantaggi e le possibilità creative dei movimenti di macchina e li sa usare con la necessaria perizia.
Il discorso che riguarda me è diverso: io sono un professionista e devo dare al cliente quello che il cliente richiede, il che oggi significa lavorare esclusivamente in digitale.

Ma non ho perso la passione per la fotografia d’arte e nemmeno l’energia per trasportare il banco ottico in giro per i sentieri di montagna, con buona pace di chi pensa che mi sia indebolito.
Solo che lo faccio molto meno di un tempo e solo per divertimento personale, nel poco, pochissimo tempo libero che gli impegni quotidiani mi regalano.
Per quanto riguarda la diatriba tra analogico e digitale, mi sono limitato a riportare - semplificandoli molto - risultati di studi e prove fatti da chi è molto più esperto di me (e possiede tecnologie di livello industriale che a me sono negate). Tra i tanti che ho consultato e dai quali ho tratto conoscenze e informazioni, c'è anche lo studio di Aristide Torrelli, ma ovviamente non è l'unico.

Il confronto, ancora una volta, serviva a evidenziare il concetto che la differenza tra analogico e digitale non può più essere giocata sulla qualità di immagine, ormai paragonabile (che non vuol dire uguale), ma su altri parametri del tutto soggettivi, quali - ad esempio - il piacere di giocare con i basculaggi, i profumi acri ed esaltanti della camera oscura, la magia di un'immagine che si schiude lentamente davanti agli occhi (il che vale sia per chi lavora sotto un ingranditore, sia per chi gestisce con perizia il trattamento del file digitale).
Quattromila anni fa, in quella culla della civiltà che fu la Mesopotamia, avvenne una rivoluzione epocale: dall'Egitto fu importato il papiro.
Le scomode, laboriose, faticose tavolette d'argilla, su cui scrivere in fretta prima che si seccassero, furono sostituite da un supporto molto più comodo, versatile e veloce.

Che cosa avrà pensato l'archivista sumero?
Si sarà lamentato esclamando "La scrittura è morta", o avrà accolto con gioia il nuovo e più agile strumento di lavoro?
Ognuno di loro avrà certamente reagito in modo diverso, e sicuramente ci sarà stato chi ha continuato a divertirsi scrivendo sulle tavolette d'argilla, magari creando capolavori destinati a durare molto più a lungo (le tavolette di quell'epoca sono pervenute fino a noi, i papiri no), ma ormai la strada era segnata, ed era a senso unico: il papiro prima, la pergamena poi e la carta alla fine hanno reso sempre più facile, economico e veloce fissare i pensieri su una pagina.
Questo per dire che chi scrive non gestisce strumenti, ma informazioni e idee.
Lo stesso fanno i fotografi, indipendentemente dal mezzo che usano.

Ma a un bambino che impara a scrivere io non consegno una tavoletta d'argilla, e nemmeno la stilografica con cui ho imparato a scrivere io e che macchiava tutte le dita d'inchiostro: al principiante assoluto io consegno lo strumento più facile e versatile che gli consenta di imparare a gestire i segreti dell'arte: un buon quinterno di carta morbida e una moderna penna a fibra (e anche - ma solo dopo - un computer equipaggiato con un efficace programma di scrittura).
Grazie a tutti per i numerosi messaggi riguardanti l’argomento: indipendentemente dal fatto che siano a favore o contro, dimostrano che la fotografia è viva e che suscita passione e dedizione.
E questo mi conforta, perché è segno che anche il mio lungo, faticoso, gratuito lavoro di divulgazione è servito e serve (almeno un poco) a qualcuno.

Un grande abbraccio collettivo.

Michele Vacchiano