IN PRINCIPIO ERA UN BUCO

Districarsi con agilità tra schemi ottici, gruppi, lenti e nomi strampalati.

Il primo obiettivo ad essere calcolato matematicamente fu progettato nel 1840 dall'ungherese Joseph Petzval e commercializzato dalla Voigtländer. Appositamente pensato per il ritratto, l'obiettivo aveva un'apertura relativa massima piuttosto elevata (f/3). In pratica si tratta di due gruppi acromatici di lenti positive, piuttosto distanziati fra loro e separati dal piano del diaframma. Negli obiettivi di Petzval usati per la proiezione, ovviamente il diaframma manca.

Schema dell'obiettivo convertibile Taylor-Hobson Cooke. Come si vede dai tre schemi sovrapposti, esso poteva essere usato in differenti combinazioni, capaci di realizzare tre diverse lunghezze focali: in alto, l'elmento A è in posizione frontale, l'elemento B in posizione posteriore, separati dal piano del diaframma; in centro, l'elemento A è stato rimosso e viene usato soltanto l'elemento B, sistemato posteriormente rispetto al piano del diaframma; in basso, rimosso l'elemento B, viene utilizzato soltanto l'elemento A, invertito e sistemato anteriormente al piano del diaframma.

Il Rapid Rectilinear di Dallmeyer e Steinheil può essere considerato il capostipite degli obiettivi simmetrici. La correzione dell'aberrazione sferica imponeva un'apertura relativa piuttosto ridotta (f/8). Inoltre la curvatura di campo poteva essere corretta soltanto introducendo un grado di astigmatismo piuttosto elevato.


Schema originale del Goerz Dagor. La correzione dell'aberrazione sferica zonale residua imponeva l'uso di aperture relative piuttosto contenute, generalmente non superiori a f/5,6.

Schema originale dello Schneider Angulon: due tripletti cementati simmetrici.

A confronto il Planar 80 mm progettato per la fotocamera medio formato Contax 645 (in alto) e il Planar 50 mm f/1,4 progettato per le reflex Contax 35 mm (in basso).

Schema originale dello Zeiss Topogon. Il problema degli obiettivi grandangolari a schema simmetrico era essenzialmente rappresentato dalla necessità di diaframmare energicamente, soprattutto per correggere l'aberrazione sferica. L'esigenza era quella di progettare schemi che consentissero di lavorare anche a diaframmi ragionevolmente aperti ma che nello stesso tempo fossero caratterizzati da un numero ridotto di lenti (ricordiamo che il trattamento antiriflessi multistrato era ancora sconosciuto).

Sopra, lo schema originale dello Zeiss Biogon f/4,5. Sotto, il Biogon realizzato per le Contax G.

Lo Schneider Super-Angulon è un classico schema simmetrico. Si noti come gli elementi esterni siano in realtà costituiti da due menischi divergenti (cioè negativi).

La forte curvatura degli elementi anteriore e posteriore dell'Hologon f/8 progettato per la Contax G.


In alto, il principio dello schema retrofocus o "a teleobiettivo invertito", ideato dalla Angénieux per le ottiche cinematografiche: i raggi di luce vengono fatti divergere dall'elemento anteriore negativo e poi vengono fatti convergere dall'elemento posteriore positivo. Il fuoco posteriore risulta così maggiore della lunghezza focale. In basso, uno schema Zeiss Distagon. Il vantaggio principale dello schema retrofocus consiste nella possibilità di utilizzarlo sulle fotocamere reflex, dove la presenza di uno specchio ribaltabile impone che venga mantenuto un certo spazio fra l'elemento posteriore e il piano focale; i vantaggi secondari (ma non certo trascurabili) consistono in una più contenuta vignettatura e di conseguenza in una più uniforme illuminazione di tutto il campo. La correzione delle aberrazioni e in particolare della distorsione rende però complesso lo schema retrofocus, che richiede l'introduzione di gruppi di lenti negative. L'elevato numero di lenti rende importante la presenza di un severo ed efficace trattamento antiriflessi.

Lo schema originario del Tripletto di Cooke. I primi modelli avevano aperture relative massime dell'ordine di f/6,3. La correzione dell'aberrazione sferica zonale richiese ben presto l'adozione di un elemento centrale più spesso, soluzione possibile soltanto quando la lunghezza focale restava contenuta e pertanto adottata soprattutto negli obiettivi cinematografici.

Lo schema Tessar (parola greca che significa "quattro") rivela in modo inequivocabile la sua derivazione dal tripletto di Cooke. In alto, il disegno originale; al centro, il Tessar 45 mm realizzato per le reflex Contax/Yashica; in basso, lo Schneider Xenar 210 mm f/6.1 per il grande formato.

Lo schema Sonnar denuncia, anche se resa difficilmente identificabile dai numerosi rimaneggiamenti, la sua derivazione dal tripletto di Cooke.

Sopra, come funziona lo schema a teleobiettivo. I raggi in arrivo sono fatti convergere dal gruppo anteriore positivo. La forte convergenza viene poi ridotta dal gruppo posteriore negativo, in modo da ridurre la lunghezza fisica dell'obiettivo. Sotto, lo schema originario.

COME È NATO QUESTO ARTICOLO

Controllando la posta (cartacea, non elettronica), ho trovato ieri una lettera del signor Corrado Fantolino, che non ho il piacere di conoscere personalmente ma che ritengo segua la mia attività pubblicistica, dal momento che è riuscito a rintracciarmi per pormi questioni attinenti alla fotografia. Tralascio i complimenti (dei quali ringrazio il cortese lettore) e riporto il nucleo centrale della lettera. Scrive il signor Fantolino:

"Lei ha più volte affermato che al momento dell'acquisto dell'obiettivo è importante informarsi sul tipo di schema ottico o di disegno ottico dell'obiettivo stesso. Cosa che nessuno fa, ma che evidentemente deve avere la sua importanza. Ora la domanda è: a che cosa mi serve sapere che un obiettivo segue lo schema Tessar piuttosto che uno schema simmetrico, o che è fatto di quattro lenti piuttosto che tredici? Non sono altri i parametri di riferimento (le curve MTF, ad esempio)? Lo chiedo perché, essendomi da poco accostato al mondo del grande formato, vorrei poter scegliere con oculatezza i miei strumenti di lavoro. Devo dire che per adesso ho molta confusione in testa. Ad esempio, perché uno Xenar e un Apo-Symmar di pari focale appartengono a fasce di prezzo così diverse? Che cosa li distingue, oltre alla luminosità leggermente (ma non poi tanto) diversa? Basta questo parametro a giustificare una differenza così forte, o c'è dell'altro?"

In un primo momento stavo per inserire la lettera fra quelle del Forum sul grande formato, ma poi ho pensato che in realtà l'argomento può interessare tutti, o per lo meno tutti i fotografi attenti e non occasionali. Per cui ho pensato che forse sarebbe valsa la pena di tentare un intervento un po' più articolato e completo di quanto non sarebbe una semplice risposta sul Forum.

UN PO' DI STORIA NON FA MAI MALE

Per capire la differenza - anche in termini di prestazioni - fra i vari disegni ottici, bisogna risalire indietro nel tempo e ripercorrere brevemente la storia degli obiettivi da ripresa. Per farlo, partiamo da Adamo ed Eva, e cioè da ancor prima che Niepce ottenesse la sua héliographie su una lastra di peltro spalmata di bitume di Giudea. Ovviamente la macchina fotografica non esisteva, però c'era la sua mamma, quella camera obscura che i pittori usavano per tracciare a carboncino le linee essenziali del paesaggio. Già Aristotele aveva teorizzato la possibilità di formare immagini sulla parete interna di una scatola nera, a patto che sulla parete opposta fosse praticato un foro molto piccolo, capace di "catturare" i raggi di luce riflessi da un oggetto (o da un paesaggio) per proiettarli su un piano. Il foro doveva essere molto piccolo per evitare perdite di nitidezza determinate dall'accavallarsi dei raggi. Molto piccolo, cioè stretto, cioè stenopeico (il greco è greco, ragazzi, che ci posso fare?).

Il foro stenopeico aveva vantaggi e svantaggi. Il vantaggio principale era che le immagini risultavano a fuoco indipendentemente dalla distanza tra il foro e il piano di proiezione; lo svantaggio era costituito da una luminosità intollerabilmente ridotta, che non permetteva al disegnatore di cogliere i particolari più fini dell'immagine. Se si allargava il buco, addio nitidezza; se si restringeva il buco, addio occhi!

Già intorno al 1550 il matematico Gerolamo Cardano (sì, proprio l'inventore del giunto cardanico, e se non sapete cos'è tornate a scuola guida, ché ne avete bisogno!) ebbe l'idea di sostituire al foro una lente biconvessa. L'introduzione della lente portava con sé, ancora una volta, un vantaggio e uno svantaggio. Il vantaggio era costituito dal fatto che il buco più grande lasciava passare molta più luce, la quale veniva comunque focalizzata dalla lente e concentrata su un piano; lo svantaggio stava nel fatto che la distanza fra la lente e il piano di messa a fuoco (cioè la lunghezza della scatola nera) doveva essere attentamente calcolata. Se non coincideva con la lunghezza focale della lente, addio nitidezza! Ma non basta: tutto quanto abbiamo detto finora funzionava se la lente era focalizzata sull'infinito; ma quando occorreva visualizzare oggetti vicini, ecco che le cose cambiavano e le pareti della scatola dovevano allungarsi. Nacque così il concetto di messa a fuoco, che all'inizio fu risolto con camere obscure dotate di pareti scorrevoli come gli elementi di un cannocchiale, poi con il classico soffietto ancor oggi utilizzato nelle macchine di grande formato. La qualità delle immagini ottenute con la lente di Cardano era piuttosto scadente, data la quantità impressionante di aberrazioni ottiche che affliggono una lente semplice. Ma i disegnatori non erano troppo pignoli in fatto di definizione. La lente permise alla camera obscura di diventare portatile: non era più necessario entrarvi e abituare gli occhi all'oscurità: bastava mettersi un panno nero sulla testa e osservare dall'esterno l'immagine proiettata su un vetro smerigliato grazie a un sistema di specchi. Era nato il concetto di reflex. Più tardi si scoprì che inserendo davanti alla lente un diaframma (cioè una barriera metallica con un foro) si riusciva a migliorare la qualità di immagine, perché si sfruttava soltanto il centro della lente, cioè l'area meno afflitta dalle varie aberrazioni.

Nel 1814 l'inglese Wollaston sostituì la lente biconvessa con un menisco convergente. Il menisco (oltre che una parte del ginocchio) è una lente concavo-convessa leggermente più corretta della semplice lente di Cardano (le lenti addizionali che ancora oggi si usano per fotografare da vicino sono essenzialmente menischi convergenti). Il diaframma fu sistemato dietro la lente, a una distanza tale da correggere, almeno in parte, le principali aberrazioni.

Nel 1829 Chevalier progettò il primo vero sistema ottico, composto da un elemento positivo e uno negativo, fabbricati ciascuno con un diverso tipo di vetro ottico e caratterizzati da un potere di dispersione uguale e contrario, al fine di ridurre drasticamente l'aberrazione cromatica. Era nato il doppietto acromatico convergente, realizzato incollando una lente positiva in vetro flint ad alto indice di rifrazione a una lente negativa in vetro crown a basso indice di rifrazione, in modo da ottenere un sistema complessivamente positivo. Ideato per abbattere l'aberrazione cromatica dei telescopi astronomici a rifrazione, il doppietto acromatico fu presto usato anche in campo fotografico, grazie alla sua semplicità costruttiva. Alcuni obiettivi sono ancora oggi costituiti da un semplice doppietto acromatico, quali certi lungo-fuoco molto costosi prodotti da Novoflex e Leitz.

Nel 1840 il matematico Ungherese Joseph Petzval realizzò il primo obiettivo calcolato matematicamente: quattro lenti con diaframma al centro che garantivano una buona nitidezza in prossimità dell'asse ottico, la quale però andava gradatamente deteriorandosi verso i bordi. Un obiettivo ideale per il ritratto che la Voigtländer provvide subito a produrre in serie e a commercializzare. Schemi ottici derivati dall'obiettivo di Petzval venivano usati fino a non molto tempo fa per realizzare obiettivi da proiezione.

Contrariamente ai ritrattisti, i fotografi di paesaggio avevano bisogno di obiettivi ben diversi dall'obiettivo di Petzval: l'esigenza era quella di coprire un vasto angolo di campo mantenendo una nitidezza accettabile tanto al centro quanto ai bordi dell'immagine. Gli studi di Dallmeyer e Steinheil, ideatori del celebre Rapid Rectilinear, portarono, nel 1900, alla realizzazione dell'Hypergon, un grandangolare capace di coprire un campo di 130 gradi prodotto e commercializzato dalla Goerz (e recentemente riproposto dall'americana Wisner).

Verso la fine del XIX secolo le vetrerie Schott di Jena avevano iniziato a produrre vetri ottici nei quali l'indice di rifrazione e l'indice di dispersione potessero rivelarsi indipendenti, aprendo così nuove strade alla sperimentazione. Il primato tecnologico dell'industria tedesca portò alla realizzazione di schemi ancor oggi ben conosciuti come il Protar di Carl Zeiss e il Dagor della Goerz. Gli obiettivi divennero schemi complessi, nei quali le lenti potevano essere montate separatamente oppure cementate fra loro (ad esempio, una lente positiva incollata a una lente negativa per ridurre l'aberrazione cromatica). Le lenti unite insieme prendono il nome di "gruppi". L'espressione "quattro lenti in quattro gruppi" significa che ogni lente è separata dalle altre (e costituisce un gruppo a sé), mentre se diciamo "quattro lenti in tre gruppi" significa che due di esse sono incollate insieme a formare un gruppo unico.

Nel 1893 l'inglese H. D. Taylor progettava, per la Cooke & Sons, un obiettivo del tutto nuovo, che avrebbe annoverato fra i suoi discendenti molti nobili rampolli: l'idea di partenza era costituita dal doppietto acromatico di Chevalier: un elemento positivo e uno negativo cementati insieme in modo da creare una somma di Petzval uguale a zero. Separando le due lenti, il sistema acquistava un potere positivo, pur lasciando inalterata la somma di Petzval. Non contento, Taylor "spezzò" in due l'elemento positivo, sistemandolo ai lati estremi dell'elemento negativo, con il diaframma in mezzo. Lo schema, fortemente asimmetrico, consentiva una buona correzione delle aberrazioni extra-assiali e una drastica riduzione della distorsione. Il tripletto di Cooke - in vari modi modificato e aggiornato - fu utilizzato per realizzare schemi celeberrimi come gli Elmar della Leitz, gli Heliar della Voigtländer, i Tessar e i Sonnar di Carl Zeiss.

Le dimensioni delle lastre fotografiche usate nel XIX secolo richiedevano che l'obiettivo normale avesse una focale di circa 300 mm. Questo significava 30 cm di allungamento del soffietto per fotografare all'infinito, e 60 cm per riprendere soggetti vicini con un rapporto di riproduzione di 1:1. Se poi era necessario aumentare la focale per avvicinare soggetti lontani, l'allungamento del soffietto diventava incompatibile col buonsenso. Una focale di 600 mm (appena doppia della normale, come un 100 mm per una reflex 24x36) richiedeva un metro e venti di soffietto per fare il close-up! Fu per ovviare a questi inconvenienti che, intorno al 1890, Dallmeyer ideò lo schema a teleobiettivo: un'ottica il cui fuoco posteriore risultava più corto della lunghezza focale nominale, richiedendo così un tiraggio meno spinto. Anche se oggi siamo soliti definire "teleobiettivo" tutte le focali superiori alla normale, in realtà questo termine si riferisce a un ben preciso schema ottico, non sempre utilizzato negli obiettivi moderni: molte lunghe focali sono realizzate ricorrendo al tripletto di Cooke, altre seguono lo schema tradizionale lungo-fuoco (un doppietto acromatico anteriore talvolta affiancato da una lente di campo posteriore), altri ancora sono catadiottrici.

A proposito dei catadiottrici (obiettivi misti a lenti e a specchio), va detto che la vexata quaestio obiettivi catadiottrici versus obiettivi a lenti non ha significato se posta in termini assoluti. In realtà bisogna chiedersi "che cosa voglio fotografare?" e soltanto in base alla risposta che ci si dà incominciare a discuterne. Alcuni fatti mi sembrano comunque incontrovertibili:

  1. Il catadiottrico costa meno di un'ottica a lenti corrispondente, a meno che non ci si rivolga a quei Super Tubar senza nome che ancora circolano nei negozietti di periferia ma che stanno alla fotografia come il go-kart sta alla formula uno;
  2. Il catadiottrico è meno ingombrante (ma non necessariamente più leggero) di un'ottica a lenti corrispondente;
  3. Il catadiottrico non può essere diaframmato. Questa non è soltanto una questione di luminosità, del tipo ce la faccio a fotografare con un tempo ragionevolmente breve, ma è un problema - molto più serio - di profondità di campo. Avete mai provato a fotografare davvero un camoscio con un catadiottrico, diciamo un 500 mm f/5,6? Per bene che vada, se mettete a fuoco sugli occhi avrete nitide le orecchie e le corna, ma il naso e la groppa saranno già sfocati;
  4. Il catadiottrico trasforma i punti di sfocatura in cerchietti, grazie alla conformazione degli specchi. Gli estimatori dicono che questa è una caratteristica simpatica, un elemento creativo e caratterizzante. Balle. In realtà dà un fastidio bestia e fa andare gli occhi insieme come la maionese. Oltretutto distoglie l'attenzione dal soggetto principale, il che non è certo lo scopo della fotografia creativa. Sareste contenti se chi guarda la vostra foto dicesse "oh, che bei cerchietti" invece di dire "oh che bel camoscio"?
Ciò detto, la scelta è solo vostra, e sarà effettuata in base alle vostre personali e non condivisibili esigenze di ripresa. Tenete soltanto conto del fatto che nei formati professionali (medio e grande formato) i catadiottrici non si sa nemmeno che cosa sono.

Il già citato Rapid Rectilinear può essere considerato fra i capostipiti degli obiettivi simmetrici, il cui vantaggio consiste essenzialmente nel fatto che la correzione delle aberrazioni extra-assiali è insita nello stesso disegno ottico: due gruppi di lenti praticamente identici e separati dal piano del diaframma, ognuno dei quali produce una coma, una distorsione e un'aberrazione cromatica laterale di uguale grado ma di segno opposto, le quali pertanto si elidono a vicenda. Uno dei più celebri schemi simmetrici è senza dubbio il Planar di carl Zeiss, disegnato da Rudolph nel 1896. Lo schema simmetrico è oggi utilizzato anche dagli obiettivi grandangolari progettati per il grande formato o per le fotocamere non reflex, quali lo Schneider Super-Angulon o lo Zeiss Biogon.

Nelle reflex sarebbe impossibile utilizzare schemi di questo genere: il fuoco posteriore sarebbe così corto che lo specchietto, sollevandosi, andrebbe a frantumarsi contro la montatura dell'obiettivo. Per questo i grandangolari destinati alle reflex utilizzano uno schema brevettato dalla Angénieux per le ottiche cinematografiche e denominato "schema retrofocus" o "teleobiettivo invertito": in pratica il fuoco posteriore è maggiore della lunghezza focale nominale quel tanto che basta per consentire allo specchietto di sollevarsi durante lo scatto. Lo Zeiss Distagon, caratterizzato da un grande elemento negativo in posizione frontale, è un tipico rappresentante di questa famiglia.

POCHE LENTI O MOLTE LENTI?

Fin dagli inizi della fotografia e fino a tempi relativamente recenti l'esigenza dei costruttori fu quella di ottenere una sufficiente correzione delle aberrazioni mantenendo basso il numero di lenti del sistema. La spiegazione di questo sta nel fatto che ogni superficie aria-vetro provoca da un lato la rifrazione (cioè il "piegamento") del raggio luminoso (che viene così indirizzato verso il suo punto di focalizzazione), dall'altro la sua parziale riflessione. L'aumento delle superfici aria-vetro causa di conseguenza un aumento della luce riflessa. Ora, è intuitivo che quella percentuale di luce riflessa sarà da considerarsi di fatto perduta, dal momento che non contribuirà alla formazione dell'immagine. Inoltre tutta quella la luce riflessa all'interno del sistema finirà per viaggiare avanti e indietro in modo disordinato e finirà per andarsi a focalizzare a caso in diversi punti del piano focale, provocando flare e riflessi parassiti. Questo rappresentava un serio problema prima dell'invenzione del trattamento antiriflessi: gli schemi ottici dovevano per forza essere semplici (cioè composti da poche lenti), allo scopo di ridurre il più possibile la quantità di superfici aria-vetro attraversate dalla luce. Se il numero di lenti aumentava (a volte si rendeva indispensabile rendere più complesso il sistema per migliorare la correzione delle aberrazioni) il contrasto subiva un drastico calo. Già nel 1896 Taylor (l'ideatore del tripletto di Cooke) aveva osservato che le lenti più vecchie, rese opache dall'usura, trasmettevano una quantità di luce maggiore di quanto non facessero le lenti nuove e appena lucidate. Taylor ne dedusse correttamente che lo strato più opaco doveva essere caratterizzato da un indice di rifrazione inferiore a quello del vetro, e che di conseguenza era in grado di riflettere meno luce, permettendo una rifrazione migliore. Nel 1903 egli brevettò un sistema di deposito chimico di materiali antiriflettenti che tuttavia si rivelò poco sicuro. Nel 1936 il sistema fu perfezionato da A. Smakula, della Carl Zeiss, mediante il deposito per sublimazione di sostanze quali il fluoruro di calcio o di magnesio. Il trattamento antiriflessi permise di migliorare la correzione delle diverse aberrazioni mediante l'introduzione di nuovi elementi all'interno del sistema: una pratica che prima, come abbiamo visto, causava una perdita di contrasto direttamente proporzionale all'aumentare del numero delle lenti. Per tutta la seconda guerra mondiale questa tecnologia fu considerata segreto militare dal governo del Terzo Reich, e solo dopo la fine del conflitto venne applicata su scala industriale. Dapprima il trattamento antiriflessi era di tipo monostrato (single coating) e riduceva l'indice di riflessione relativo a una determinata lunghezza d'onda. In seguito, l'applicazione di più strati permise di ridurre la riflessione della luce entro la gamma dell'intero spettro visibile. Il trattamento multistrato (multicoating) fu applicato su scala commerciale per la prima volta da Leitz. Oggi tutti gli obiettivi subiscono il trattamento antiriflessi multistrato. Sul mercato dell'usato si trovano ancora obiettivi "single coated", che a mio avviso andrebbero evitati. Se proprio non si può fare a meno di acquistarli, ci si accerti almeno che il numero di lenti rimanga contenuto: si pensi che un semplice schema Tessar implica ben otto superfici di separazione aria-vetro! Non vorrei sembrare fanatico, ma oggi il pubblico (parlo non tanto dei lettori di Eva 3000 quanto dei clienti di un fotografo professionista, che sanno apprezzare e distinguere una fotografia realizzata in grande formato) è abituato a una qualità di immagine con la quale è difficile scendere a compromessi.

QUELLI CHE HANNO FATTO LA STORIA

Esistono obiettivi che hanno caratterizzato in modo indelebile la storia della fotografia e che ancora oggi vengono ricordati, almeno dai fotografi più anziani. Alcuni di essi, poi, sono ancora presenti non solo sul mercato antiquario, ma anche sul mercato dell'usato. Molti li apprezzano tuttora, nella convinzione che nomi così altisonanti siano di per se stessi garanzia di qualità. In realtà la tecnologia ha fatto anche in questo campo passi da gigante, e chi acquista un glorioso Dagor o un ancor più glorioso Protar rischia di ritrovarsi tra le mani uno strumento che non è più in grado di fornirgli quella qualità di immagine che oggi il cliente si aspetta.

GLI SCHEMI SIMMETRICI

La lente biconvessa è già un obiettivo, capace di focalizzare su un piano i raggi luminosi che la attraversano. Tuttavia - come abbiamo già sottolineato - essa è affetta da una grande quantità di aberrazioni, che la rendono sufficiente per la visione ma non certo adatta a formare un'immagine ragionevolmente nitida su una superficie sensibile.

Il menisco convergente corregge parte delle aberrazioni e forma un'immagine almeno leggibile. Alcuni obiettivi in plastica prodotti per le fotocamere pocket o per le usa-e-getta sono di fatto menischi convergenti.

Se si utilizza un obiettivo composto da un semplice menisco convergente e si sceglie di sistemare il diaframma in posizione frontale (cioè tra la lente e il soggetto), si otterrà una forte distorsione positiva, cioè a cuscinetto. Se invece si posiziona il diaframma dietro la lente (cioè tra questa e il piano focale), la distorsione acquisterà segno negativo e apparirà a barilotto. Se si accoppiano tra loro due menischi convergenti, separati dal piano del diaframma, le due aberrazioni, uguali ma di segno contrario, si elideranno a vicenda. Allo stesso modo vengono corrette l'aberrazione cromatica extra-assiale e la coma. Questa è l'idea base degli obiettivi a schema simmetrico: due gruppi ottici aventi lo stesso grado di aberrazioni, che sistemati simmetricamente (cioè "a specchio") l'uno rispetto all'altro e separati dal piano del diaframma, compensano l'uno le aberrazioni dell'altro.

Il Doppel Anastigmat fu ideato da Paul Rudolph per la Zeiss nel 1890. Consisteva in un doppietto acromatico anteriore simmetrico rispetto a un secondo doppietto acromatico, sistemato posteriormente rispetto al piano del diaframma. Nel doppietto posteriore l'elemento in vetro flint era caratterizzato da un basso indice di rifrazione, mentre l'elemento in vetro crown aveva un alto indice di rifrazione. Questo contribuiva a correggere l'astigmatismo e la curvatura di campo in modo quasi ottimale. Una versione successiva prevedeva la sostituzione dei doppietti con gruppi costituiti da ben quattro lenti. Questa versione fu commercializzata a partire dal 1900 con il marchio Protar e fu la capostipite degli obiettivi convertibili: il gruppo posteriore poteva essere utilizzato da solo come obiettivo di lunga focale, oppure insieme a gruppi ottici anteriori diversi. Questo consentiva di variare le focali mantenendo costante il gruppo posteriore e sostituendo soltanto quello anteriore. Oggi una splendida serie di obiettivi convertibili è prodotta da Schneider per l'americana Wisner e commercializzata con il marchio Plasmat. Il Protar fu prodotto su licenza da numerose case (Bausch & Lomb, Krauss, Fritsch e altri) sia in Europa che negli Stati Uniti.

Il Dagor fu realizzato probabilmente da Emil Von Hoegh per la Goerz nel 1892. Dico "probabilmente" perché alcuni storici sostengono che esso fosse stato in realtà progettato in casa Zeiss. Grazie a questo progetto, particolarmente geniale, Von Hoegh fu promosso ai più alti vertici dell'azienda e finì per prendere il posto di Carl Moser, da poco scomparso. Il nome originale dell'obiettivo fu Doppel Anastigmat Goerz, poi abbreviato in Dagor nel 1904. Lo schema (6 elementi in 2 gruppi) consiste in due tripletti, ciascuno dei quali composto da lenti incollate fra loro. I due elementi esterni di ogni tripletto sono positivi, mentre quelli centrali, negativi, servono rispettivamente a correggere l'aberrazione sferica e la curvatura di campo. La riduzione delle superfici aria-vetro (quattro in tutto) migliora il contrasto e riduce il flare. Uscito di produzione in Europa nel 1926, con l'acquisizione della Goerz da parte della Carl Zeiss , il Dagor continuò ad essere prodotto negli USA dalla Goertz American Optical Co. (divisione statunitense della Goerz staccatasi dalla casa madre dopo la fusione con la Zeiss) fino a tempi abbastanza recenti. L'azienda, divenuta Goertz Optical Co. Inc. nel 1964, fu acquistata da Kollmorgen nel 1971. A sua volta la Kollmorgen fu assorbita da Schneider l'anno successivo. Alcuni modelli, caratterizzati da un formidabile cerchio di copertura (mentre altri non consentivano alcun tipo di movimenti), furono per decenni gli obiettivi preferiti dai large format photographers, e sono ancora piuttosto quotati sul mercato dell'usato. Occorre dire che oggi le loro prestazioni appaiono inferiori agli standard qualitativi richiesti dal pubblico. L'idea dei due tripletti simmetrici fu sfruttata anche da Schneider per il suo Angulon, ma qui c'era un elemento positivo centrale incollato in mezzo a due elementi negativi esterni. Questo permise di rendere più sottili i gruppi ottici riducendo drasticamente la vignettatura. Per lo stesso motivo negli Schneider Angulon (e Super-Angulon) la superficie delle lenti esterne (frontale e posteriore) è più ampia del diametro del cono di raggi rifratto dal sistema.

Lo schema Planar fu ideato da Paul Rudolph (Zeiss) nel 1896. Per progettarlo, Rudolph si ispirò probabilmente al telescopio di Gauss (1817), costituito da una coppia di menischi, uno convergente e l'altro divergente. Lo schema (6 elementi in 4 gruppi disposti simmetricamente) riduceva drasticamente la curvatura di campo e l'astigmatismo. L'assottigliamento dell'elemento negativo e la riduzione dello spazio fra le lenti contribuì a ridurre l'aberrazione sferica, presente in modo massiccio nello schema di Gauss. I due elementi (positivo e negativo) erano caratterizzati da un identico indice di rifrazione ma da un diverso potere di dispersione. Lo schema Planar era affetto da un contrasto piuttosto basso, a causa delle numerose superfici aria-vetro che provocavano fenomeni di interriflessione, perciò non ebbe molte applicazioni prima dell'introduzione del trattamento antiriflessi. Oggi quasi tutti gli obiettivi ad alta luminosità prodotti dall'industria ottica giapponese sono derivati dallo schema Planar. Furono molti i fabbricanti che tentarono in vari modi di ripercorrere la strada di Rudolph, modificando il doppio disegno di Gauss a sei lenti: il Kodak Ektar (usato da Ansel Adams), lo Schneider Xenon f/2, Il Raptar Wollensack, lo Zeiss Biotar e il Noctilux f/1,2 della Leitz sono solo alcuni dei numerosi esempi che testimoniano il successo di questo disegno ottico.

Nel 1903 Walter Zschokke (Goerz) progettò un obiettivo simmetrico apocromatico destinato alle arti grafiche. Lo chiamò Alethar. Purtroppo il vetro utilizzato era di qualità corrente e l'obiettivo si rivelò molto inferiore alle aspettative. Così, nel 1904, Zschokke (affiancato da F. Urban) ridisegnò il progetto, semplificandolo. Per gli elementi positivi utilizzò vetro crown al bario e per gli elementi negativi il vetro flint normalmente usato per i telescopi astronomici. Il nuovo obiettivo, denominato Artar, assicurava la correzione apocromatica richiesta dalle arti grafiche per la riproduzione in tre colori e rimase in produzione per quasi sessant'anni. I moderni obiettivi per grande formato Nikkor M e Schneider G-Claron sono modificazioni dello schema Artar. Alcuni Apo-Artar per grande formato sono ancora reperibili sul mercato dell'usato.

L'Hypergon, originariamente progettato da Goerz, era un grandangolare estremo caratterizzato da una buona planeità di campo. È composto da due menischi fortemente incurvati e opposti l'uno all'altro in modo da far somigliare lo schema a una sfera. Tra i due è inserito il piano del diaframma. Per limitare l'aberrazione sferica e cromatica l'apertura relativa massima non poteva essere superiore a f/20. La vignettatura, a dir poco spaventosa, era tenuta sotto controllo da una specie di elica, azionata mediante una pompetta, che ruotava durante l'esposizione oscurando (grazie alla differenza di moto angolare) la parte centrale della lente più delle zone periferiche. Oggi l'Hypergon è prodotto dall'americana Wisner e un filtro digradante (più scuro al centro che ai bordi) ha sostituito la piccola elica.

Nel 1933 Robert Richter (Zeiss) realizzò un disegno simmetrico basato sullo schema di Gauss, che chiamò Topogon. Grazie all'ampio angolo di campo e alla distorsione molto contenuta, il Topogon (insieme al Metrogon della Bausch & Lomb, che ne costituiva una variante) divenne l'obiettivo di elezione per la fotografia aerea e godette di un successo incontrastato fino al 1952, anno in cui venne messo in commercio il Wild Aviogon. Il Topogon copriva un angolo di campo di 90° con un'apertura relativa massima di f/6,3. Con lo schema Topogon furono prodotti molti obiettivi, alcuni dei quali, come spesso avveniva, erano realizzati anche secondo altri schemi (pur mantenendo lo stesso nome commerciale): dal Wide-field della Kodak al Rectagon e al Geotar della Goerz; dal Rodenstock Ronar al Wide-angle Raptar della Wollensack.

Nel 1951 Ludwig Bertele, progettista Zeiss che ritroveremo parlando dei derivati del tripletto di Cooke, progettò un obiettivo grandangolare a schema simmetrico, il Biogon, destinato non solo alle macchine di grande formato (il formidabile Biogon 75 mm f/4,5, leggero quanto un ferro da stiro, è ancora reperibile sul mercato dell'usato, a prezzi non lontani da quelli richiesti per una pelliccia di visone selvaggio), ma anche alle Contax a telemetro e alle Hasselblad. L'elemento frontale era costituito da due menischi, l'elemento posteriore da un menisco semplice molto incurvato. L'estrema vicinanza dell'elemento posteriore al piano focale riduceva la distorsione e migliorava il contrasto. Questo eccellente progetto fu presto sfruttato, con alcune modifiche, da altri costruttori: Schneider ad esempio realizza il suo Super-Angulon inserendo un solo menisco alle due estremità. L'anno successivo (1952) Bertele riprende questo disegno per realizzare l'Aviogon, commissionatogli dalla Wild di Heerbrugg (Svizzera). Con i suoi due menischi alle estremità, l'Aviogon da 115 mm copriva il formato 5x7"/13x18 cm, assicurando una distorsione inferiore ai 10 micron su tutto il campo. Questa eccezionale caratteristica lo rese ideale per la fotografia aerea e la fotogrammetria. Poco tempo dopo Bertele brevettò uno schema con tre menischi ad ogni estremità, capace di garantire un angolo di campo di 120 gradi.

Nel 1966 Erhard Glatzel (Zeiss) riprese il progetto del Biogon per realizzare un nuovo schema (5 elementi in 3 gruppi), che chiamò Hologon. Anche in questo caso l'elemento posteriore doveva restare vicinissimo al piano focale per garantire un buon contrasto, e per questo (al pari del Biogon) l'obiettivo non poteva essere utilizzato sulle reflex. La distorsione è ben corretta come pure la curvatura di campo. La forte vignettatura impone l'uso di filtri graduati più scuri al centro che ai bordi.

I NOBILI DISCENDENTI DEL TRIPLETTO DI COOKE

Nel 1900 il progettista Hans Harting della Voigtländer iniziò a studiare la possibilità di modificare in senso simmetrico il tripletto di Cooke. Harting sostituì l'elemento posteriore (positivo) del tripletto con un doppietto di lenti incollate insieme, capace di correggere astigmatismo, aberrazione sferica e aberrazione cromatica. L'obiettivo, denominato Heliar, era però affetto da una coma evidente, soprattutto nelle riprese a lunga distanza, il che costrinse Harting a rivedere il progetto originale. Nel 1903 egli invertì l'ordine degli elementi esterni in modo che la superficie incollata rivolta verso il piano del diaframma apparisse convessa invece che concava. Questo aumentava l'astigmatismo ma migliorava la correzione delle altre aberrazioni.

Lo schema Tessar, diretto discendente del tripletto di Cooke, fu ideato nel 1902 dal solito Paul Rudolph della Zeiss. Esso utilizza il doppietto posteriore dell'Anastigmat e il gruppo anteriore di un altro obiettivo, l'Unar, costituito da un doppietto di lenti separate e non cementate. Questo elemento anteriore è caratterizzato da un indice di rifrazione molto basso: il suo unico scopo è quello di correggere le aberrazioni residue dell'elemento posteriore acromatico. L'apertura relativa massima del progetto iniziale era f/6,3, ma nel 1917 raggiunse f/4,5. Nel 1930, grazie alle modifiche di Merte e Wandersleb, fu possibile raggiungere f/2,8. L'Elmar f/3,5 che equipaggiava la prima Leica fu disegnato da Max Berek nel 1920 secondo lo schema Tessar. Con le sue quettro lenti in tre gruppi, leggero, poco costoso e ben corretto, nitido e ben contrastato, questo schema ebbe un successo forse ineguagliato. L'unico neo era costituito da un cerchio di copertura non esaltante. Tutti i produttori realizzarono schemi tipo Tessar caratterizzati da diversi nomi commerciali: dallo Xenar della Schneider allo Skopar di Voigtländer; spesso, poi, lo stesso obiettivo veniva prodotto utilizzando sia lo schema simmetrico sia lo schema Tessar: è il caso del Raptar Wollensack e dell'Ektar Kodak.

L'Ernostar nacque nel 1919 in casa Ernemann ad opera di Ludwig Bertele. L'idea originaria era quella di incrementare l'apertura relativa massima del tripletto di Cooke. Allo stesso scopo, già Charles Minor aveva inserito un menisco positivo fra i due elementi anteriori. Bertele decise di partire dalla modifica di Minor, sostituendo i due elementi anteriori con due doppietti acromatici incollati. Fu il primo obiettivo a raggiungere la fantastica apertura di f/2, il che consentiva di fotografare in luce disponibile. Nel 1920, una nuova modifica portò la luminosità a f/1,8.

Nel 1930 Lo stesso Ludwig Bertele, passato alla Zeiss a seguito dell'assorbimento della Ernemann da parte del colosso tedesco, iniziò a disegnare un nuovo schema basato sull'Ernostar f/1,8. Nel 1931 lo schema Sonnar era pronto. La sua apertura relativa era pari a f/2. Un elemento esterno ad alto indice di rifrazione e un elemento interno a basso indice di rifrazione erano il cuore del tripletto negativo del Sonnar. Nel 1932, l'aggiunta di un elemento incollato al gruppo posteriore permise di portare la luminosità a f/1,5. Nonostante l'apertura, le aberrazioni di ordine superiore erano sufficientemente corrette. Il nome Sonnar, in realtà, si riferiva dapprima a un apparecchio a telemetro realizzato dalla Contessa ed equipaggiato con un'ottica tipo Tessar. Quando la Zeiss assorbì la Contessa, il nome Sonnar passò a identificare il nuovo schema di Bertele. Più leggero e più semplice del Planar, meglio contrastato a causa del minor numero di lenti (ricordo che all'epoca il trattamento antiriflessi era primitivo), il Sonnar era anche molto meno costoso. La relativa "morbidezza" verificabile ai diaframmi più aperti scompariva del tutto, consentendo una resa "tagliente", non appena si chiudeva un po' il diaframma. Il mitico Olympia-Sonnar fu realizzato per celebrare le olimpiadi di Berlino del 1936.

I pochi esempi fin qui riportati e le spiegazioni fornite dovrebbero aver messo i lettori in grado di capire che cos'è uno schema ottico e – con un po' di pratica, ma soprattutto osservando le illustrazioni che corredano questo articolo – di distinguere i vari disegni di base. Ma alla fine, è utile sapere a quale famiglia appartiene l'obiettivo che si sta per acquistare? Sì, più di quanto si immagini. Ad esempio è utile ricordare che i discendenti del tripletto di Cooke sono caratterizzati (generalmente) da un elevato microcontrasto; è utile sapere che gli schemi semplici (poche lenti) sono da preferire ai disegni più complessi, essenzialmente per il già citato problema dei riflessi parassiti (ridotto ma non del tutto eliminato dal trattamento antiriflessi). E soprattutto occorre risordare che il costo di un obiettivo non è determinato dal numero di elementi, ma dalla loro accuratezza costruttiva, dalla progettazione, dalla qualità del vetro impiegato. È più difficile correggere le aberrazioni mantenendo basso il numero di lenti che continuare ad aggiungere elementi a tutto svantaggio della nitidezza: se esistono ottiche lungo-fuoco a due lenti che costano quanto un'utilitaria una ragione ci sarà, giusto?

Michele Vacchiano © 04/2001