Ci sono viaggi che si devono conquistare con sudore e fatica, viaggi in cui non basta farsi trasportare da aerei o automezzi vari, ma nei quali occorre impegnarsi attivamente, con il corpo e con la mente.
Negli anni Ottanta ho avuto la fortuna di visitare l’altopiano del Tassili in Algeria, un luogo famoso per le sue straordinarie pitture rupestri, risalenti a 5/6000 anni fa, che mostrano l’incredibile trasformazione di questa parte d’Africa da savana ricca di animali e vegetazione, in progressivo deserto, non a causa dell’inquinamento, ma per variazioni climatiche che, evidentemente, ci sono sempre state nel nostro pianeta, magari meno violente e veloci di quelle attuali.
Del resto, tutti abbiamo studiato la storia di Annibale e dei suoi elefanti, che appena 2000 anni fa erano ancora presenti in Nord Africa, ma che ormai sono scomparsi da tempo. Evidentemente in quei tempi una buona parte del Nord Africa era ancora una savana, popolata da grossi erbivori. Negli anni Ottanta l’Algeria doveva ancora vivere il periodo più buio della sua storia recente, prima che una terribile guerra civile insanguinasse il paese, con massacri e violenze che sono durate un decennio. Miei compagni in questa avventura sono stati un gruppo di Tuareg, che prima in jeep e poi a piedi, con un impegnativo trekking di diversi giorni, ci hanno fatto da guida sull’altopiano del Tassili, disseminato da massi rocciosi ricchi di antichissime pitture rupestri, straordinariamente ben conservate grazie all’aria secca del deserto sahariano e al loro isolamento. I Tuareg, popolo nomade per eccellenza, stanziato in diversi paesi del Nord Africa, sono stati spesso protagonisti di romanzi e film di avventure, spesso impiegati come guide ed accompagnatori per la loro abilità di muoversi con sicurezza in un habitat ostile come l’immenso deserto del Sahara.
Con me avevo un buon corredo Canon FD: qualche obiettivo e due corpi macchina, una F-1 Old, e una moderna A-1, superelettronica allora considerata una delle punte tecnologiche dell’industria nipponica. La Canon A-1, apparsa in Italia nel 1980, presentava, grazie ad un miracoloso chip (allora una novità quasi assoluta) ben 5 programmi di esposizione, tra cui il Program, che sino allora era stato considerato degno solo per le compatte. Invece con la A-1 il Program e l’automatismo in Stopdown (utilissimo in macro e microfotografia) facevano il loro ingresso negli apparecchi reflex, suscitando clamore e costernazione tra i fotografi tradizionalisti, ma imponendosi come trensetter per molti altri apparecchi, tra cui l’Olympus OM-2P e la costosa Leica R4, tra l’altro utilizzata con soddisfazione da noti fotografi come il veneziano Fulvio Roiter. In più si aggiungeva un buon mirino (con interruttore per lo spegnimento dati, per risparmiare la batteria) con indicazioni dei tempi e dei diaframmi a LED molto visibili, e una lettura esposimetrica integrale prevalente sulla zona bassa del fotogramma, per compensare presumibilmente il terreno scuro nei paesaggi. Devo ammettere che questo tipo di esposimetro non mi piaceva molto, perché non andava bene per tutti i soggetti, e per questo motivo affiancavo quasi sempre alla A-1 le 2 F-1, sia la Old che l’ottima New, ambedue dotate di lettura spot. Molto utile la piccola impugnatura laterale, antesignana delle future impugnature complete che seguiranno negli anni, come ad esempio nella T-90. La A-1, a causa della sua complessità (per l’epoca, intendiamoci, oggi sarebbe una macchina estremamente semplice) era vista con diffidenza dai fotografi tradizionalisti per l’iniezione spinta dell’elettronica, con cui aveva superato le concorrenti di allora, tra cui la Minolta XD-7 che, poverina, possedeva solo 2 automatismi.
Alcuni appassionati si potrebbero meravigliare per la mia scelta dei corpi macchina, poiché avevo portato una macchina super elettronica in un ambiente non idoneo. Ma la Canon A-1 non ha battuto ciglio e, pur essendo molto meno utilizzata della F-1, un vero ferro da stiro fotografico, ha compiuto il suo dovere con notevole rapidità e sicurezza, grazie ai suoi automatismi, specie nei ritratti, quando il tempo tra inquadratura e scatto (elettromagnetico, tra l’altro) era estremamente ridotto. La A-1 è stata preceduta di 3 anni dalla AE-1, con un chip semplificato, vero best seller mondiale di vendite e primo grande successo commerciale di Canon. Oggi la A-1 spesso non è più riparabile come molte sue sorelle elettroniche, mentre le meccaniche F-1 hanno sempre quotazioni superiori. E’ il destino di questi apparecchi elettronici, negli anni Ottanta e Novanta super funzionali e quotati ma ormai miseramente decaduti. Del resto è anche passato qualche decennio.
Alcune ottiche FD completavano il corredo, tutte dotate di sistema di blocco: un 200mm f/4, usato pochissimo, e che non mi ha mai dato molte soddisfazioni, pur essendo un obiettivo onesto, ma soprattutto il 100/2,8 (5 elementi in 5 gruppi), ottimo da viaggio per compattezza e peso di soli 270g con cui, pur all’interno della Toyota Land Cruiser, sono riuscito ad eseguire alcuni ritratti dei nostri compagni Tuareg, col volto quasi sempre coperto dal loro inconfondibile velo color indaco. In pratica, quasi un normale per leggerezza e portabilità, molto buono otticamente. Poi il 24/2,8, sempre sui 300g, pur possedendo ben 10 elementi, molto versatile per dare ampiezza al paesaggio di dune, e pratico in quanto non occorreva quasi muovere la messa per avere i soggetti a fuoco. Ottima la nitidezza all’infinito, con una leggera vignettatura a TA, ma praticamente sempre utilizzato a f/5,6-8. Infine, il 17/4, (terza versione di quest’ottica, presentata inizialmente nel 1970, e appena uscita quasi in contemporanea alla A-1) con un peso di 360g (ben 11 elementi in 9 gruppi) e una distorsione minimale, è risultato utilissimo per immergersi nei fantastici panorami dell’Erg. Ottica notevole (in diretta concorrenza col mitico Zeiss Distagon 18/4 per Contarex, ma differenziandosi per un millimetro in meno di lunghezza focale, mentre Leitz aveva scelto la focale da 19mm), ma da usare con parsimonia, altrimenti i soggetti risulterebbero sempre molto lontani. Da rimarcare infine che sia il 24 che il 17mm condividono un sistema flottante delle lenti, per migliorare la resa alle brevi distanze.
Tutte queste ottiche hanno presentano una buona risoluzione, discreto contrasto e colori abbastanza naturali, ma leggermente carichi (senza quella caratteristica ‘neutra’ degli Zeiss, ad esempio), più che buona la costruzione meccanica, almeno per la loro fascia di prezzo, che rimane una delle caratteristiche salienti delle ottiche FD. L’innesto FDnew, con blocco, possiede un innesto veloce e sicuro e ha permesso un risparmio di peso rispetto alle ottiche precedenti con anello di serraggio. Da rimarcare che alla fine del viaggio, tutte le ottiche sono state smontate e ripulite, specie nelle ghiere di messa a fuoco, in quanto intasate di granelli di sabbia, impastata col grasso dell’elicoide, che nel tempo avrebbero smerigliato l’elicoide stesso, rendendolo inutilizzabile. Alcune situazioni mi sono rimaste nella memoria pur a distanza di decenni. Il camminare nel deserto, ad esempio: simile alle situazioni che avrei trovato molti anni dopo nell’Artico. Estraniante. Si avanza per ore senza un vero punto di riferimento e sembra di non avere una meta: l’uniformità del paesaggio è impressionante! Poi gli incontri: mentre la jeep correva le dune, improvvisamente ho notato qualcosa su una di queste. Eravamo in pieno deserto, nel nulla minerale più assoluto. Ho fatto cenno all’autista Tuareg di rallentare e quando questo si è fermato ho scattato una foto da vicino col 24mm.
Lo sconosciuto si è avvicinato all’autista e l’ha salutato - Salam Alaikum - ricevendone la tradizionale risposta - Alaikum Salam - aggiungendo poi qualcosa di incomprensibile. L’autista ha tirato fuori da un sacchetto 3 datteri (tre di numero, li ho visti perfettamente) e li ha dati allo sconosciuto che ha ringraziato - Sukram - poi tranquillamente si è allontanato nel nulla. Evidentemente doveva esserci una tenda, a noi invisibile, dietro qualche duna, con forse una famiglia. Il Tuareg, senza una spiegazione, ha innestato la marcia ed è ripartito.
Foto col 100/2,8 alla minima distanza di messa a fuoco, 1 metro.
Alla mia domanda chi fosse quello sconosciuto, mi è stato risposto semplicemente: uno che vive nel deserto! E’ stata l’unica persona incontrata in 3 giorni di trasferimento in Jeep. Un alieno marziano forse mi avrebbe meno impressionato.
La sera era rilassante cenare al campo, sotto il l’infinito cielo stellato, avvolti in un caldo piumino, nel freddo tipico delle notti del deserto. Lo scorbutico cuoco Tuareg, dopo un paio di sere, ci ha tenuto a precisare, come se parlasse a dei bambini: "Cucinare è un lavoro da donne, ma siccome siete nostri ospiti, lo faccio volentieri per voi!". Ho molto apprezzato la sincerità di un nomade, discendente di viaggiatori e predoni del deserto, orgoglioso e sprezzante, che ci teneva a farmi sapere che non era obbligato a quel servizio, ma si adattava di buon grado.
E allora gli ho risposto, guardandolo dritto negli occhi Bien sur mon ami, merci! e siamo scoppiati a ridere entrambi perché ambedue sapevamo che in fondo si trattava di un gioco delle parti: l’europeo, che pagava, e il Tuareg che, pur facendo l’altezzoso, accettava il compenso. Ma tutto era trattato con spirito amichevole e scherzoso da ambedue le parti. Il mattino successivo il nostro bravo cuoco si è benevolmente lasciato fotografare.
Perché nei viaggi è bellissimo vedere paesaggi nuovi, scoprire nuove culture, vivere avventure, ma riuscire a farsi una risata e meditare sulla propria comune condizione umana con una persona che non conosci e di cui non parli neanche la lingua è un regalo inimitabile. Significa riuscire a rompere quella barriera linguistica e culturale che apparentemente ci separa, nonchè la lontananza geografica. Questo è viaggiare!
Pierpaolo Ghisetti © 11/2024
Riproduzione Riservata
Articoli correlati
La sezione dedicata a obiettivi e fotocamere Canon