VAN LEO
|
La fotografia non è fedele neanche quando il fotografo ci si mette d'impegno: è sempre interpretazione e mistificazione.
Lo è per colpa dell'attrezzatura che filtra la realtà (basta pensare alle diverse lunghezze focali degli obiettivi e all'uso del diaframma per gestire la profondità di campo) e lo è per per colpa dell'interpretazione del fotografo.
Questa, ovviamente, più che una "colpa" è la caratteristica che più fa avvicinare la fotografia alle altre arti figurative e, nel campo del ritratto, chiunque venga fotografato cambia per il fatto di stesso di esserlo. Quando il soggetto è in posa, si può dire che la fotografia non lo rappresenti, ma lo crei: l'uomo in posa, cosciente di essere fotografato, è a disposizione dell'invenzione e della volontà del fotografo, diventa il suo "materiale".
Leon (Leovan) Boyadjian, armeno (1921-2002), in arte noto come "Van Leo", studia questo materiale vivo e lo interpreta a modo suo, ma non si limita a "interpretarlo" in senso puramente fotografico: Van Leo va ben oltre, decidendo con il modello lo stile da utilizzare, l'abito e, soprattutto, il trucco. Questo poteva essere tanto pesante da includere cocktail di vaselina e sabbia per modellarne il viso e il corpo come nel ritratto di Teddy Lane del 1944 che rimanda a celebri prototipi hollywoodiani, come quello di Edward Steichen, per le luci dure e taglienti, l'acconciatura, lo sguardo e l'elevato contrasto (la straordinaria foto di Steichen è del 1926).
Il setting cambiava ogni volta: "Ti faceva accomodare in studio, sedere, all'inizio al buio, su una pedana rialzata al centro del pavimento. Poi, dietro la macchina fotografica, considerava l'insieme, aggiustava e muoveva le luci, spegnendole e accendendole, suggerendo un leggero cambiamento di posizione, rimproverandoti gentilmente per non avere mai capito che il sinistro è il tuo lato migliore. E questo poteva continuare per ore".
|
|
L'esordio di Van Leo può risalire a quel giorno in cui il padre gli fece fotografare tutti gli impiegati di una fabbrica di tabacchi: centinaia di persone. Van Leo non si limitò a fotografare tutti gli impiegati, ma iniziò a scoprire le differenze tra i diversi volti, anche i più banali, e a rivelarne l'aspetto peculiare.
Scrive Martina Corgnati: "Per Van Leo potenzialmente tutti i volti avevano qualcosa di interessante, delle particolarità spesso misconosciute o sottovalutate: per questo la sua predilezione andava a coloro che non nutrivano idee troppo preconcette e definite su se stessi, lasciandogli quindi campo libero e discrezione di agire, di inventare la situazione, di scegliere, in altre parole, la "maschera" più adatta. Il cliente ideale era dunque uno che non opponeva alla manipolazione di Van Leo una maschera propria, già confezionata e irrigidita sul volto. Per parafrasare Barthes e le quattro componenti che, secondo lui, costituiscono l'immaginario del ritratto (quello che credo di essere, quello che voglio si creda io sia, quello che il fotografo crede, quello di cui si serve per esaltare il suo "stile"), è chiaro che Van Leo puntasse decisamente sulle ultime due e apprezzasse soggetti che gli permettevano di farlo."
Il soggetto più adatto era quindi chi non poteva avere un'idea della propria immagine né l'intenzione di modificarla: un cieco.
Lo scrittore Taha Hussein, cieco dall'età di tre anni, "non si toglieva mai gli occhiali, ed è proprio questo che l'immagine coglie di lui: una pelle abbagliata dalla luce violenta in drammatico contrasto con lo schermo nero delle lenti. E poi la fronte lievemente aggrottata, una ruga profonda fra il naso e la bocca, il labbro superiore appena rialzato, le spalle a chiudere la composizione. Sospesa nel nulla, contro il buio assoluto di uno sfondo senza dimensioni, questa faccia rivela nelle pieghe un intenso carattere senza mostrare alcuna profondità psicologica (d'altra parte, è possibile una psicologia senza sguardo?). Se non conoscessimo affatto la persona, certo nulla ci direbbe che si tratta di un ministro o uno scrittore; potremmo perfino non accorgerci della cecità, perché, come dice Nigel Ryan, non c'è niente di "ufficiale" in questa immagine, niente di controverso, niente di intellettuale e, meno ancora, di compassionevole o di "umano". Van Leo non si lascia impressionare dalla fama di Taha Hussein e non lo commisera per la sua condizione di non vedente".
Van Leo cerca di mostrare il ritratto di qualcuno il cui carattere saliente è senz'altro la negazione dello sguardo al contrario del resto della sua produzione in cui lo sguardo ha un'importanza fondamentale: donne e uomini a volte osservano un punto lontano, a volte fissano il fotografo e quindi l'osservatore, ma i loro sguardi si rivolgono sempre a qualcosa che probabilmente non ci riguarda e per questo forse diventano misteriosi e seducenti come lo sono le foto di Van Leo, semplici, misteriose, forti, senza dubbio affascinanti al di là del costituire un documento inestimabile della società egiziana degli ultimi cinquant'anni.
Rino Giardiello © 05/2008
Le foto a lato, dall'alto in basso
• Autoritratto, 1948
• Lo scrittore cieco Taha Hussein, 1950
• Autoritratto, 1944
IL LIBRO
Titolo: Un fotografo di nome Van Leo
Editore: Skira, 2007
Dimensioni: 16,5x24cm, 96 pagine
46 a colori e 1 in bianconero, brossura
Prezzo: Euro 20,00
ISBN 978-88-6130-560-1
Puoi ordinarlo qui
|
L'AUTORE
Leon (Leovan) Boyadjian, nasce a Ceyhan, 43 chilometri a est di Adana (l'Antiochia classica) in Cilicia, il 20 novembre del 1921. La città, nella Turchia meridionale non lontano dal confine con la Siria, sede di una fra le comunità armene più nutrite e antiche dell'intera Anatolia, era stata teatro di efferati massacri e deportazioni.
Partecipa alle riunioni di "Art et liberté" che si tenevano tutte le domeniche mattina in casa di Angelo de Ritz alla Cittadella, un edificio ottomano nel cuore di un quartiere antico che Van Leo considerava "romantico" ed è proprio qui che elabora alcune delle posizioni estetiche caratteristiche del suo periodo migliore (gli anni quaranta e cinquanta), mentre Angelo Boyadjian (che ha già lasciato lo studio ed emigrerà in Francia nel 1961 per fuggire alla nuova e, per suoi gusti, opprimente atmosfera dell'Egitto post-rivoluzionario), era diventato un habitué dei night club e dei locali del Cairo, dove si viveva una tardiva ma convincente belle époque.
Il successo arriva velocemente. Nel 1950 il giovane fotografo si è specializzato in ritratti da studio con poche scappatelle outdoor, e davanti al suo obiettivo posano alcuni astri nascenti o addirittura stelle di prima grandezza nel mondo dello spettacolo e della cultura egiziana e internazionale: Omar Sharif splendida promessa del cinema (fotografato nel 1950), la notissima attrice alessandrina Fatma Rushdi (1950), la femminista e giornalista egiziana Doria Shafiq, il cui ritratto diventa nel 1996 la copertina della biografia di Cynthia Nelson, il musicista e attore libanese dalle ascendenze aristocratiche druse Farid Al-Atrash, l'attore e compositore Mohamed Abdel Wahhab, Faten Hamama, la danzatrice del ventre e attrice Amira Amir, la cantante libanese Sabah, Samia Gamal, ballerina e star del cinema egiziano e infine Taha Hussein, una delle figure più autorevoli e prominenti della cultura egiziana del secolo scorso, scrittore, critico e saggista, noto anche in Europa per alcuni testi autobiografici" che appunto nel 1950 era stato nominato ministro della Cultura.
Nonostante la fama, Van Leo non altera il suo gusto per venire incontro a quello mutevole dei clienti, né adatta lo stile alle mode del momento; in particolare, non nasconde la sua disapprovazione per la fotografia a colori, che si diffonde a macchia d'olio intorno alla metà degli anni settanta, salutata dal pubblico come "l'ultima frontiera della bellezza" e invece, a suo avviso, vera e propria tomba della tecnica di stampa e dell'invenzione formale. Forse inconsapevolmente, nella sua feroce ostilità nei confronti del realismo fotografico e delle tecniche "facili" prêt-à-porter, ricalca le orme illustrissime di Baudelaire, strenuo denigratore dell'industria artistica che aspira e sembra rendere possibile la riproduzione fedele della natura. "Giacché la fotografia ci dà tutte le garanzie desiderabili di esattezza (credono proprio questo, gli stolti!), l'arte è la fotografia. Da allora la società immonda si riversò, come un solo Narciso, a contemplare la propria immagine volgare sulla lastra" scriveva il poeta francese nel 1859. Van Leo naturalmente sapeva che, nonostante le apparenze, la fotografia non avrebbe mai potuto essere davvero realista; ne temeva però la volgarità che emerge quando essa, abdicando al suo compito trasfigurante, si appiattisce sulla mera aderenza alle cose, cioè a quelle che Ansel Adams avrebbe definito "shapes" e non "forms". Nella difesa teorica e pratica della fotografia all'antica, con la "F" maiuscola, Van Leo dimostra di saper tenere le posizioni, anche a costo dell'isolamento intellettuale e personale. Una situazione analoga si verifica anche nella vita, specie nel rapporto con le donne: infatti, nonostante la condizione favorevole costituita dai buoni risultati commerciali e dalla notevole avvenenza, Van Leo non sembra aver incontrato la donna della sua vita e, in ogni caso, non si è mai sposato. Bisogna riconoscere che, benché abbia trascorso tutta la vita in Egitto, anzi nella stessa strada se non nella stessa stanza, Van Leo in fondo si è mantenuto sempre in una posizione di relativa precarietà, si vorrebbe dire sul piede di partenza; almeno nelle intenzioni, è rimasto sempre pronto a muoversi e a cambiare, ma dice: "avrei dovuto andarmene anch'io, ma io amo l'Egitto" come per sintetizzare una relazione di amoreodio in cui fotografia ed Egitto finivano per essere la stessa cosa. Negli ultimi anni di vita, conosce il fotografo americano Barry Iverson col quale nasce un'intensa amicizia e la coraggiosa decisione di donare l'intero corpus di fotografie e negativi rimasti in studio (circa diecimila negativi e quattrocento vintage) all'American University in Cairo, con cui Iverson lo mette in contatto. Questa donazione contribuisce al ritorno dell'attenzione critica su Van Leo e al suo lavoro vengono dedicate alcune mostre piuttosto ampie e sistematiche, in Medio Oriente e altrove. Nel 2000 è il primo fotografo in assoluto a ricevere il prestigioso Royal Netherlands Prince Claus Prize e, in occasione del conferimento del premio, la Townhouse Gallery gli dedica una grande retrospettiva.
Incomincia così un inarrestabile processo di valorizzazione ancora pienamente in corso, ma Van Leo, scomparso il 18 marzo del 2002, di questo concerto orchestrato intorno alla sua opera non ha potuto ascoltare che le prime battute.
|
|