Una raccolta di saggi "in
difesa dei valori tradizionali" quali bellezza, verità,
forma: la fotografia intesa come metodo di riconciliazione
col mondo che ci circonda.
Robert
Adams (New Jersey, 1937) è uno di quei fotografi che,
nonostante le sue immagini siano state oggetto di importanti
riconoscimenti e mostre in sedi prestigiose come il Museum
of Modern Art di New York o il Philadelphia Museum of Art,
non si trova quasi mai incluso nelle storie della
fotografia, se non per brevi accenni, e varrà quindi la pena
spendere due parole sul suo lavoro, prima di sfogliare
insieme questa sua importante raccolta di saggi "
in
difesa dei valori tradizionali", originariamente
pubblicata nel 1981, tradotta in italiano nel '95 e
ristampata nel 2006.
Fondamentale, ai fini della sua sensibilità critica e
visiva, particolarmente incline ad una delicata deriva
poetica, risulta essere la sua formazione letteraria, prima
come studente, poi come studioso e successivamente anche in
veste di insegnante. Tornato in Colorado - terra in cui era
cresciuto - nel 1962, dopo un lungo periodo di assenza, si
trovò a fare i conti con un paesaggio profondamente mutato e
"ferito" dallo sconsiderato intervento umano: ecco che si
rese necessario un percorso di
riconciliazione con la
geografia del
suo mondo, per riuscire a sentirsene
nuovamente parte, a riconoscerlo ed amarlo nonostante la
mutata fisionomia del paesaggio. Adams sentì dunque il
bisogno di mettersi "
alla ricerca di un silenzio adeguato",
interiore ed esteriore al contempo, che gli permettesse di
medicare con cura e pazienza la frattura emotiva che
rischiava di trasformarlo in un estraneo in casa propria. Ed
è qui, nei silenziosi e maestosi spazi del West verso la
fine dei Sessanta, che entra in scena la fotografia, col suo
carico di potenzialità riflessive e direi quasi
terapeutiche. Fotografare per comprendere, per
riconoscere, per riappropriarsi del mondo che ci circonda.
Fotografare per
consolarsi, se, come ebbe modo di
affermare Adams stesso, ogni creazione artistica prende
fatalmente le mosse da un'infelicità, da un vuoto che chiede
di essere espresso e colmato; l'attenzione esclusiva al
paesaggio che caratterizzerà tutta la sua produzione futura,
dunque, affonda le proprie radici in questa piaga intima e
dolente. A onor del vero, le due foto scelte per illustrare
il suo lavoro all'interno di questo articolo (sotto) non
sono poi così rappresentative del suo stile, considerato che
la rigorosa e quasi asettica geometricità della
composizione, che la fa da padrone nelle due immagini
sottostanti, non risulta affatto essere il tratto distintivo
dell'intero
corpus delle sue fotografie; le ho
ugualmente scelte, tra le tante possibili, perché mi pareva
costituissero una sorta di meraviglioso "dittico hopperiano"
(la foto che invece fa da copertina al libro non è sua,
bensì di Jacob Riis: risale al 1888 e si intitola
Mendicante cieco).
I
soggetti ricorrenti dei suoi scatti sono soprattutto
agglomerati urbani, autostrade, ponti, centrali nucleari,
depositi di rifiuti... e, in generale, ogni altro intervento
umano sull'ambiente compiuto all'insegna del disordine e
dell'approssimazione, tramite cui focalizzare l'attenzione
sul perenne incontro-scontro tra
civiltà e
wilderness (che, come fa notare Costantini nella
prefazione al libro, risulta essere la tematica forse più
frequentata nell'ambito della cultura americana); Adams farà
non a caso parte di un gruppo di fotografi denominati "Nuovi
Topografi", dal titolo della mostra che li vide
protagonisti,
The New Topographics: Photographs of a
Man-Altered Landscape ('I Nuovi Topografi: fotografi del
paesaggio alterato dall'uomo'), tenutasi alla George
Eastman House di Rochester nel 1975.
I Nuovi Topografi - tra cui spiccano i nomi di Lewis Baltz,
Stephen Shore, i coniugi Becher - perseguivano un ideale
fotografico per certi aspetti opposto a quello esemplificato
dalle immagini di un Ansel Adams: laddove quest'ultimo mirava a
rappresentare la maestosità dell'incontaminato ritraendo
vasti e intonsi scenari naturali come quelli dello Yosemite,
essi invece optavano per una visione meno romantica, ma
senza dubbio più realistica, del paesaggio americano.
Ma attenzione: Adams prende sì atto di un innegabile
degrado, ma non per giudicarlo, né per intonare un inutile
lamento funebre in memoria di una purezza idilliaca
miseramente violentata e perduta; al contrario: la funzione
dell'atto fotografico diventa infatti quella di «
documentare
la forma sottesa a questo apparente caos», o, per dirla
altrimenti, di svelare la testarda bellezza di quei luoghi,
capace di resistere ad ogni vessazione umana, rintracciando
un nuovo ordine fuori e dentro di sé, estetico ed
esistenziale insieme.
To Make It Home, recita il
titolo di un'importante monografia dedicata ad Adams nel
1990: '
rendere familiare', e dunque nuovamente
abitabile, un luogo di cui percepivamo solo l'ostilità;
individuare la coerenza di una nuova verità ed imparare ad
accettarla, nonostante tutto. Per poi scoprire -
parafrasando un'affermazione di Adams citata nella quarta di
copertina - come questo potere non dimori nelle potenzialità
di un'apparecchiatura fotografica, bensì esclusivamente nei
nostri occhi. Una motivazione profondamente umana e sofferta
in cui molti, immagino, avranno modo di riconoscersi.
Il libro di cui ci occupiamo non ci presenta però l'Adams
fotografo, bensì quello critico, impegnato in un'analisi
teorica contraddistinta da una non comune capacità
comunicativa che rende la lettura di questi brevi saggi
fluida e piacevole: chiarezza e moralità sono infatti gli
elementi essenziali, per Adams; quelli senza i quali non può
darsi "critica" degna di questo nome («
I critici migliori
hanno il coraggio di correre costantemente il rischio più
grande: dimenticare se stessi», senza quindi sviare
l'attenzione dalle immagini, intontendo il lettore con le
loro "belle parole"; così si esprime Adams nel saggio
Buone notizie,
palesando una posizione coraggiosamente onesta e controcorrente).
Nel testo che dà il titolo alla raccolta, Adams esprime il
suo punto di vista su un parametro relativo per antonomasia:
la Bellezza, appunto; ci propone un'opinione soggettiva che, se anche
potrà trovarci in disaccordo, ci spronerà comunque ad
interrogarci sull'argomento. La riflessione di Adams, in
sostanza, fa coincidere la Bellezza - nella fotografia così
come nell'arte in generale - con il parametro della Forma,
o, se si vuole, della composizione (quel "vestito" che il
fotografo o il pittore fanno indossare al reale, in modo da
fornirgli un'apparenza migliore);
Forma, a sua volta, intesa come sinonimo della coerenza e
della struttura sottese alla vita. «
Perché la forma è
bella? - si chiede Adams: -
Lo è, perché ci aiuta ad
affrontare la nostra paura peggiore, cioè a dire il timore
che la vita non sia che caos e che la nostra sofferenza non
abbia dunque alcun senso»; quasi che l'uomo fosse
portato a chiamare "bello" - e dunque a connotare
positivamente - quell'elemento (la Forma) che ha in sé il
potere di consolarlo, rassicurandolo sull'esistenza di un
ordine, per quanto abilmente dissimulato, in ciò che lo
circonda. Ma per far sì che questa ordinata struttura emerga
in superficie, rendendosi percepibile, la Forma (e, di
conseguenza, la Bellezza) presuppone necessariamente
un'astrazione, una semplificazione: in ogni caso, mai una
semplice
rappresentazione; detto altrimenti: secondo Adams, l'arte,
per rivelare la Forma (e dunque il Bello, che
tradizionalmente è considerato il fine principale di ogni
creazione artistica), deve spesso e volentieri "prendersi
delle libertà" nei confronti del reale. Ecco quindi che la
categoria astratta del Bello, contrariamente al solito, in
questo caso non presuppone la rima obbligata con Buono e
Vero (argomento, questo, trattato in particolare nel saggio
Fotografare il male, in cui anche le eventuali
"manipolazioni" da parte del fotografo vengono considerate,
alla luce delle riflessioni appena esposte, legittime).
Al contrario di quanto qualcuno sarà forse portato a
pensare, l'eloquio di Adams è ben lungi dall'essere
confinato in una dimensione astratta: ogni affermazione è
infatti supportata da esempi concreti, che tirano in ballo
immagini conosciute e nomi celebri - da Diane Arbus a Edward
Weston, a Paul Strand, a Alfred Stieglitz e numerosi altri
-, rendendo il tutto molto più comprensibile e, soprattutto,
verificabile in base alla propria sensibilità. Il discorso
su Bellezza e Forma non è che un tassello della sua
riflessione teorica, un assaggio di quanto possano essere
stimolanti i quesiti che ci pone in queste pagine. Il posto
d'onore è comunque assegnato a quello che è il tema
principale del suo essere fotografo: il paesaggio, in
special modo quell'Ovest americano a cui Adams dedica pagine
intense, in cui emozione ed affezione risultano evidenti;
un'immensità filtrata non solo dal suo sguardo, ma anche da
quello di pionieri come Timothy O'Sullivan (particolarmente
caro ad Adams), o da autori moderni quali Minor White e
Frank Gohlke.
Robert Adams, in conclusione, ci regala un esempio di
critica fotografica fatta, una volta tanto, non solo con la
freddezza della mente o con la presunzione del
"mestiere", ma anche e soprattutto con il calore del cuore.
Caratteristica purtroppo sempre più rara, e dunque ancor più
preziosa.
Nora Dal Monte © 09/2007
Riproduzione Riservata
SOMMARIO: Introduzione di Paolo
Costantini - Premessa - Prefazione alla seconda edizione - Verità e paesaggio - La bellezza in fotografia - Buone
notizie - Fotografare il male - Rinnovare l'arte - Riconciliazione con la
geografia: Minor White, Frank Gohlke, C.A.
Hickman - Appendice Alla ricerca di un silenzio
adeguato. Il volume ha un piccolo inserto in
cui sono riportate alcune foto (in bianconero)
rappresentative degli autori di volta in volta citati
nel testo, tra cui Edward Weston, Robert Capa, Diane
Arbus, Alfred Stieglitz, Dorothea Lange, Timothy H.
O'Sullivan, Minor White, Lewis Hine.