FAQ - MISCELLANEA
Domande ricorrenti sul mondo della Fotografia

Perché può capitare che una fotocamera digitale non sia compatibile con una scheda di memoria uscita successivamente?

Sulle schede di memoria, così come avviene per i dischi fissi (e per i dischetti), i dati non vengono memorizzati in maniera sequenziale (come avviene, ad esempio, sui nastri) ma in maniera casuale: vengono cioè sparpagliati in tutto il disco, occupando via via i vari settori liberi che si incontrano nella fase di scrittura.
Alla fine di ogni blocco di dati c’è l’indirizzo del settore in cui si trova il gruppo di dati successivo. Se ne deduce che c’è bisogno di un qualcosa che tenga traccia di dove si trovi il primo settore di ogni file memorizzato sul supporto. Questo qualcosa si chiama FAT, File Allocation Table (tabella di allocazione dei file), sigla che dà anche il nome al filesystem più diffuso, il FAT-32 di Microsoft (evoluzione del sistema precedente, il FAT-16, resasi necessaria per poter gestire memorie di massa sempre più capienti).
Un filesystem è in realtà qualcosa di molto più complesso che assolve a numerose altre funzioni, ma per gli scopi di questa FAQ è sufficiente sapere quanto appena esposto.
Le fotocamere digitali non hanno bisogno di tutte le altre funzionalità che un filesystem sfrutterebbe su un computer, quindi nel formattare le schede di memoria si limitano alla creazione di FAT molto “snelle”, idonee giusto ad essere lette via computer; è per questo motivo che spesso nelle istruzioni delle fotocamere si raccomanda di formattare le schede di memoria o di cancellarne i dati solo dalla fotocamera, e non dal computer.
Essendo cresciuta negli anni la risoluzione delle fotocamere, e quindi la dimensioni dei file creati, si sono rese necessarie schede di memoria sempre più capienti; ciò ha comportato nel tempo l’evoluzione verso altre implementazioni di FAT. Ora, se la circuiteria che gestisce le schede di memoria si trova all’interno di ogni singola scheda (come avviene per le Compact Flash), il fatto che vi sia una FAT “nuova” è del tutto trasparente alla fotocamera, che continua a scrivere/leggere dati sulla scheda di memoria senza curarsi di come la scheda li memorizzi o li recuperi.
Se invece, come nella maggioranza degli altri casi (schede xD, SD, ecc.), la scheda di memoria viene gestita da un componente interno alla fotocamera, ecco che quest’ultima si può ritrovare incapace a dialogare con una scheda di memoria che usi una FAT diversa da quelle originarie che la fotocamera è in grado di gestire; per cui può capitare che la scheda non funzioni affatto, o che la fotocamera veda solo una piccola parte della sua capacità.

VIAGGIARE CON RULLINI
Buone notizie per quelli che temono danni causati alle pellicole dagli apparecchi a raggi X adoperati negli aeroporti per l'ispezione del bagaglio a mano. Prove condotte dal British Photographers' Liaison Committee hanno scagionato su tutta linea i sistemi di ispezione in uso negli aeroporti gestiti della BAA (British Airport Authority) per tutte le pellicole fino ad una sensibilità di 400 ISO. Pellicole speciali con sensibilità di 800 ISO ed oltre possono risentire dell'esposizione ai raggi X se le ispezioni superano il numero di 8, ma con effetti chiaramente osservabili in pratica solo se le esposizioni si aggirano intorno a 32. Il suddetto Comitato va oltre e raccomanda di trasportare il materiale sensibile nel bagaglio a mano invece che nel bagaglio registrato, lasciando supporre che l'energia in gioco per l'ispezione di quest'ultimo abbia valori più elevati. Informazioni da altre fonti indicano che i più moderni sistemi di ispezione del bagaglio registrato reagiscono alla presenza di oggetti opachi come gli involucri protettivi contenenti un foglio di piombo, effettuando più passaggi a potenza progressivamente crescente per esaminare l'oggetto sospetto a diverse profondità. La protezione fornita da questi involucri è, almeno per quanto riguarda il bagaglio registrato, illusoria. Le informazioni specificamente compilate per gli aeroporti della BAA (nome per esteso) possono essere estese alla stragrande maggioranza degli aeroporti. Per esperienza personale possiamo affermare che pellicole da 400 ISO, sottoposte a 6 - 8 ispezioni anche negli aeroporti più remoti e cadenti, non hanno subito nessun danno. L'ispezione manuale delle pellicole può essere previamente richiesta ma viene concessa a sola ed assoluta discrezione del funzionario in carica. Il trucco, peraltro superfluo, di portarle in tasca può riuscire con i rullini 120, che sono tutta carta e plastica, ma il metal detector dell'aeroporto di Zurigo ha "visto" gli scatolini di metallici dei rullini da 35mm che portavamo addosso. Inutile dire che furono passati con cortese fermezza uno per uno ai raggi X. Al contrario di quanto detto per il bagaglio registrato gli involucri protettivi possono essere utili nel caso del bagaglio a mano, perché il funzionario, insospettito dall'oggetto opaco alle radiazioni a bassa energia, ha due opzioni: accontentarsi di esaminare l'oggetto manualmente, oppure riesaminare i rullini senza protezione, cosa che, come indicato più sopra, non crea problemi per un numero di passaggi limitato. Le cose cambiano per chi viaggia per mesi con frequente uso dell'aereo. In questo caso si può programmare la spedizione in patria dei rullini esposti tramite spedizionieri affidabili, come per esempio Federal Express, presenti praticamente negli aeroporti di tutto il mondo, e di rinnovare localmente la provvista di materiale sensibile. Soluzione un po' cara, ma per chi può permettersi di girare il mondo in aereo per due o più mesi non dovrebbe essere un problema.

PILE AL MERCURIO
Come è noto le pile al mercurio sono state messe fuori legge e non vengono più prodotte, con notevoli difficoltà per i proprietari di fotocamere di vecchio modello. Negozianti poco interessati o poco competenti non esitano a suggerire le batterie PX625A (alcaline) da 1.5v al posto delle PX625 (al mercurio) da 1.35v, ignorando più o meno deliberatamente la differenza di voltaggio. Per una lista delle possibili soluzioni si veda il seguente articolo su Nadir: Il problema batterie PX 625: le possibili soluzioni

Per ulteriori informazioni consultare i seguenti siti:
http://buttononline.heha.net/
http://www.acecam.com/magazine/battery1.html
http://www.heier.com/olydocs/
http://www.photobattery.com/
http://www.smu.edu/%7Ermonagha/bronbattery.html
http://www.glink.net.hk/~olympus/
http://www.mir.com.my/rb/photography/hardwares/classics/olympusom1n2/index.htm

VEDI ANCHE ARTICOLO SU NADIR CON LE NUMEROSE SOLUZIONI DEI LETTORI

VALE LA PENA FREQUENTARE CORSI DI FOTOGRAFIA?
La risposta non può che essere "dipende". Molto spesso abbiamo visto la pubblicità di corsi costosissimi, tenuti da docenti sconosciuti, e senza possibilità di accedere ad un programma dettagliato se non dopo aver scucito fior di Euro. In questi casi è opportuno stare alla larga da tali (presunte) Scuole ed investire i propri soldi in obiettivi e pellicole, che rimangono sempre la palestra migliore. Viceversa, se si tratta di corsi tenuti da docenti capaci ed in strutture riconosciute per il loro valore, un'esperienza didattica può avere la sua importanza.
Aggiungiamo, come considerazione generale, che se ci sono amore per la fotografia ed un briciolo di talento, migliorarsi da soli (ricorrendo anche ad amici più esperti, riviste, libri, mostre e così via) è forse più stimolante, oltre che più economico; e se queste due componenti mancano, non c'è corso che tenga.
Darsi la preparazione teorica necessaria, scattare molto ed essere molto critici con le proprie foto: questo è il modo migliore per progredire. C'è chi ha bisogno di un corso per ottenere tutto questo, e chi no. L'importante è tenere a mente che la sensibilità estetica si forma con l'osservazione del bello - non solo belle foto, ma anche quadri, sculture, monumenti, e in generale tutta l'arte - in un percorso che educhi l'occhio all'armonia delle forme, all'accostamento dei colori, al gusto per la composizione.

ESISTE UN MANUALE DI FOTOGRAFIA ALL'INFRAROSSO?
Il volume "Fotografare con l'infrarosso", di Maurizio Micci, è molto valido; costa 28mila lire e l'editore è Cesco Ciapanna (quello della rivista "fotografare"). Se non è disponibile in libreria lo si può ordinare alla casa editrice (06-87183441).

POLAROID IMAGE SE: DOPPIE ESPOSIZIONI E KIT MACRO
Per allungare a volontà il tempo di posa e fare lunghissime esposizioni notturne si usa il meccanismo delle esposizioni multiple, usando la terza levetta da sinistra, cioè quella dell'autoscatto. Il "trucco" è stato pubblicato su REFLEX di ottobre 1987, pagine 70 e 71.

La procedura è:

  • Fare la prima esposizione con l'autoscatto. In questo modo la fotocamera non espelle la pellicola.
  • Non togliere l'autoscatto, chiudere un po' il coperchio e riaprirlo in modo che la fotocamera sia disposta a scattare nuovamente senza espellere la pellicola.
  • Scattare di nuovo (sempre con l'autoscatto) e ripetere la procedura per tutte le esposizioni desiderate.
  • Arrivati all'ultima esposizione prevista, disinserire l'autoscatto e la pellicola sarà finalmente libera di uscire. In questo modo, con la fotocamera sul cavalletto, si possono accumulare i tempi di posa a piacere!

L'accessorio macro è solo una scatola con una grossa lente addizionale all'interno ed uno specchio che diffonde la luce del flash.

VARIA LA PROSPETTIVA AL VARIARE DELLA FOCALE?
Che significa esattamente che con lo zoom s'ingrandisce o rimpicciolisce l'immagine, ma non si cambia la prospettiva? È molto semplice. Poichè utilizzando un obiettivo di lunghezza focale maggiore rispetto ad un altro l'immagine del soggetto si ingrandisce, molti ritengono che aumentando la lunghezza focale si ottenga lo stesso effetto che avvicinandosi al soggetto. Bene, non è così. Aumentando la lunghezza focale, per esempio raddoppiandola, le dimensioni dell'immagine sul fotogramma si raddoppiano. Ora, bisogna tenere presente che dato un soggetto e la distanza fotocamera-soggetto, tutti gli obiettivi della stessa lunghezza focale producono immagini delle stesse dimensioni. Una persona inquadrata ad una certa distanza con un 50mm produce sul fotogramma un'immagine alta 3 cm: non importa se stiamo usando una fotocamera 35mm o una Pentax 6x7.

Ovviamente con una 35mm l'immagine di 3cm riempirà tutto il fotogramma (che è alto 24mm) ed oltre, su un negativo 6x6 riempirà metà fotogramma, con una lastra da 20x25 cm ancora meno, eccetera.

Se anziché variare la lunghezza focale noi ci avviciniamo al soggetto, abbiamo si un ingrandimento del soggetto stesso, ma anche una variazione delle relazioni spaziali interne alla scena. Più precisamente, gli oggetti vicini s'ingrandiranno maggiormente rispetto a quelli lontani. Facciamo un semplice esempio: se l'oggetto in primo piano è ad 8 m di distanza e lo sfondo ad un chilometro esatto, spostando la fotocamera in avanti di 4m avremo ridotto la distanza dell'oggetto in primo piano alla metà, raddoppiandone così le dimensioni dell'immagine. Al tempo stesso avremo ridotto la distanza dello sfondo a 996m, aumentando la dimensione dell'immagine di quattro millesimi, cosa assolutamente insignificante. Variando invece la lunghezza focale, senza dunque spostare la fotocamera, la prospettiva non cambia, poiché non cambia la posizione degli oggetti più vicini rispetto a quella degli oggetti più lontani. Cambia solo, ripetiamo, la dimensione del soggetto sul fotogramma, perché se ne inquadra un'area differente, minore man mano che si aumenta la lunghezza focale.

USO DEL MONOPIEDE
Per la sua semplicità d'uso e leggerezza è diventato un accessorio quasi indispensabile nelle riprese dinamiche dove si ha necessità di lavorare con lunghe focali e diaframmi molto chiusi o tempi lenti (partite, corse ecc.) o quando per motivi di spazio non si può utilizzare il treppiedi (concerti, teatro, conferenze ecc.). I tempi di sicurezza aumentano con la pratica ma diciamo che si può scattare con tranquillità fino ad 1/15 con un ottica da 300mm, puntando su un soggetto che si muova in una direzione ben precisa in modo da poterlo seguire con continuità. Come usarlo? Per esempio montandoci sopra una testa Joystick della Manfrotto che permette di impostare una certa inclinazione della macchina con la semplice pressione di una leva, oppure con la testa sferica o addirittura niente tra il monopiede e la macchina.
Tecnica di utilizzo? Prima di tutto avvitarlo non sotto la macchina ma sotto l'obiettivo, onde evitare inavvertite e drammatiche sollecitazioni al fondo della macchina dovute al grande braccio di leva. Una volta posizionato e regolato in altezza per la migliore comodità di visione s'impugna con una mano la macchina e con l'altra l'obiettivo.
Alcuni usano impugnare il monopiede (ovviamente devono lavorare in autofocus ed esposizione programmata) ma spesso in questi casi si trasmettono vibrazioni alla macchina. Attenzione quando ci si muove dalle postazioni. Conviene smontare la macchina e non fare quello che si vede allo stadio dove i fotografi si portano a spalla il monopiede con la macchina agganciata. Si rischia parecchio. I fotografi sportivi se ne fregano, nella maggior parte dei casi le macchine non sono loro, e se con questo scherzo danneggiano la boccola di aggancio ottica o lesionano il fondo della macchina, l'apparecchiatura gli viene sostituita. Una piastra di aggancio rapido Manfrotto ed in mezzo secondo la macchina è liberata o agganciata.

CHE SIGNIFICANO I VALORI EV?
EV sta per Exposure Value, Valore di Esposizione, tradotto però molto più propriamente con Valore Luce, perché è un indicatore della luce riflessa dal soggetto, anche se ovviamente collegato all'esposizione. L'esposizione da dare ad una pellicola viene decisa in base alla luminanza del soggetto (possiamo chiamarla intensità luminosa, se ci rende la comprensione più facile) ed alla quantità di luce che la pellicola richiede. In pratica la scala degli EV è stata introdotta al fine di poter rappresentare i variabilissimi valori delle luminanze del mondo reale in una scala aritmetica di facile uso. La luminanza, in poche parole, si può definire come una grandezza che indica quanta luce colpisce (o è riflessa da) un determinato oggetto, e si misura in candele per metro quadro. Per convenzione, 1 EV = 2 candele per metro quadro. Ritornando al nostro problema di esposizione, la luminanza può essere equiparata alla pressione che esiste in una tubazione dell'acqua, la quantità di luce richiesta dalla pellicola è invece il volume del recipiente che vogliamo riempire. Ciò che vogliamo sapere è di quanto bisogna aprire il rubinetto (diaframma) e per quanto tempo (tempo di otturazione) per ottenere il volume richiesto (quantità di luce) con quella data pressione (intensità luminosa). Ora, l'esposimetro non misura quantità di luce, ma solo intensità. Bisogna quindi tradurre la misura di intensità in un dato di esposizione, ed i fabbricanti di esposimetri ce lo rendono possibile stabilendo per mezzo di esperimenti la correlazione tra l'intensità indicata dallo strumento ed il giusto annerimento della pellicola. Troveranno così che, per una pellicola da 100 ISO, il giusto annerimento per una data intensità luminosa del soggetto si ottiene ad F/5,6 ed 1/60. La stessa quantità di luce può essere convogliata sulla pellicola chiudendo il diaframma ad F/8 ad allungando il tempo ad 1/30, e così via per tutte le altre coppie equivalenti.
In termini fotografici, dunque, i valori EV devono venire tradotti in coppie tempo/diaframma, perché è così che funzionano le macchine fotografiche. Per esempio, EV=10 equivale a f/5.6 e 1/30, e da questo valore si ricavano tutte le coppie equivalenti: f/4 e 1/60, f/2.8 e 1/125, ecc. Allo stesso modo, EV=11 equivale ad f/5.6 e 1/60 (ovvero uno stop in meno di esposizione rispetto a EV=10); qui le coppie equivalenti sono f/4 e 1/125, f/2.8 e 1/250, ecc. Ovviamente tutta questa scala ha un perno su cui basarsi. Questo perno è EV=0, ed equivale ad un secondo ad f/1 (il tutto sempre in riferimento ad una 100 ISO). Naturalmente questo non vuol dire che al di sotto di EV = 0 non c'è luce. Questa scelta dello zero della scala è totalmente arbitraria, e la scala può essere estesa verso valori negativi degli EV, con il significato che ad EV = -1 c'è metà luce che ad EV = 0, e ad EV = -2 ce n'è metà che ad EV = -1. Se la sensibilità della pellicola è diversa da 100 ISO le coppie diaframma-tempo si spostano verso sinistra (sensibilità più alta) o verso destra (sensibilità più bassa). Un metodo più rapido è quello di calcolare sempre tutto sulla scala per i 100 ISO, e poi una volta trovato il valore che ci interessa ridimensionarlo (cioè aumentarlo o diminuirlo) di uno, due o più stop a seconda della sensibilità della pellicola. Ci si può porre la domanda se quanto detto vale per tutti gli esposimetri, cioè, per esempio, se ogni esposimetro a -1EV, F/1.4 e 100 ISO indicherebbe 4sec di esposizione. In principio si, la relazione EV/sensibilità/diaframma/tempo è la stessa, almeno finché i diversi esposimetri leggono l'intensità luminosa con la stessa precisione. Ogni strumento ha però i suoi limiti di affidabilità, per cui è possibile che un particolare esposimetro non sia abbastanza preciso al di sotto o al di sopra di certi valori EV. Nel libretto d'istruzioni dell'esposimetro o del corpo macchina in cui esso è incorporato dovrebbero essere riportati i limiti entro i quali il comportamento è affidabile. Se il limite minimo è EV = -1 i 4sec indicati sono una indicazione valida, al di sotto di EV = -1 non lo sarebbero più. Lo stesso vale per il limite superiore.

COME SI CALCOLA L'ANGOLO DI VISIONE DI UN OBIETTIVO NOTA LA SUA LUNGHEZZA FOCALE?
La formula è: Angolo di campo = 2 x arctan D/2xF , dove D è la diagonale del formato (per esempio la diagonale nel 35mm è circa 43mm), ed F è la lunghezza focale.

A parole, la formula sarebbe "2 moltiplicato l'arcotangente della diagonale del formato divisa per il doppio della lunghezza focale".

COME E QUANDO SI USA IL TASTO DELLA PROFONDITA' DI CAMPO?
La quasi totalità delle reflex moderne, per non dire tutte, opera a tutta apertura; la chiusura del diaframma si attua solo al momento dello scatto. Supponiamo di avere un 85mm F/2,8 innestato sul corpo macchina: anche se si regola il diaframma su un valore piuttosto chiuso, ad esempio F/11, in realtà le lamelle del diaframma rimangono dove sono, e l'obiettivo continua a rimanere impostato su F/2.8, la sua apertura massima. Per far sì che l'esposimetro tenga conto del valore di diaframma impostato la macchina è dotata di un simulatore di diaframma, ma nel mirino si continua a vedere l'immagine chiara e luminosa data da un'apertura di F/2,8. Quando poi si preme il pulsante di scatto, succede quello che già sappiamo: lo specchio si alza, il diaframma si chiude, l'otturatore fa quel che deve fare, dopodiché lo specchio si riabbassa ed il diaframma ritorna all'apertura massima. Quando è presente, un motorino fa avanzare la pellicola al fotogramma successivo. Ora, il tasto di profondità di campo (pdc) serve ad avere un'idea nel mirino di ciò che sarà a fuoco sull'immagine finale. Maggiore è la chiusura del diaframma, maggiore sarà la profondità di campo (ovvero, più ampia sarà la zona di nitidezza accettabile davanti e dietro il soggetto su cui è stata regolata la messa a fuoco dell'obiettivo). Quando si preme il pulsante per la pdc, il diaframma si chiude al valore effettivo impostato, ed ecco perché si vede "più scuro"; guardando bene si può notare che gli oggetti più distanti dal piano di messa a fuoco principale appaiono più nitidi, nonostante la minore luminosità generale, man mano che si chiude il diaframma. La profondità di campo apparente dipende essenzialmente da tre fattori. Il primo è costituito dall'apertura relativa: quanto più è aperto il diaframma, tanto minore è la pdc. Il secondo è costituito dalla focale dell'obiettivo: quanto maggiore è la lunghezza focale, tanto minore è la pdc. Il terzo è rappresentato dalla distanza di ripresa: quanto più il soggetto è lontano, tanto maggiore è la pdc; di conseguenza in macrofotografia essa si riduce a pochi millimetri. La messa a fuoco selettiva consiste proprio nello sfruttare diaframma, focale e distanza di ripresa per influenzare la sensazione visiva della pdc: un volto ripreso a distanza ravvicinata con un teleobiettivo ed un diaframma sufficientemente aperto apparirà come l'unico centro di interesse della composizione, dato che lo sfondo risulterà completamente sfocato. La messa a fuoco selettiva si utilizza quando si vuole caricare sul soggetto tutto il peso della comunicazione. Al contrario, se si vuole mantenere nitido il primo piano oltre che lo sfondo, si usano diaframmi chiusi e obiettivi di corta focale regolati sull'iperfocale.

COS'È IL SISTEMA APS? CONVIENE?
Il sistema APS è "un bidone" perché fa comprare nuove fotocamere e nuove pellicole per ottenere alla fine delle stampe più costose di qualità inferiore a quella del normale 35 mm.
Il formato APS è nato alcuni anni fa in un periodo in cui il mercato del 35mm ristagnava, e si è trattato di un'invenzione tutta commerciale, pianificata a tavolino, il cui unico scopo era cercare di convincere la maggioranza dei consumatori che le fotocamere 35mm erano "vecchie" ed andavano sostituite con i nuovi, fiammanti gioiellini APS. Forse pochi ricorderanno le prime voci riguardo a quello che poi è diventato l'APS. All'inizio era stato soprannominato il "Super35mm", dato che le nuove emulsioni con le nuove possibilità delle bande magnetiche dovevano aumentare la qualità del 35mm che, a sentire i produttori, avrebbe "sfiorato quella delle medioformato", con tanta praticità in più.
Il discorso era intelligente e sensato anche se i costruttori, volendo vendere nuove attrezzature, accessori, etc... pensavano di aumentare la superficie del 24x36 utilizzando parte delle attuali perforazioni, in modo da rendere le nuove pellicole incompatibili con le attuali fotocamere.
All'epoca si discuteva addirittura di un nuovo formato, che doveva essere più quadrato dell'attuale, e si mormorava di un 30x40mm, in rapporto coi lati del monitor vista la crescente interazione tra fotografia tradizionale e digitale. A conti fatti eliminare il 24x36 a favore del nuovo Super35mm era forse una mossa troppo azzardata. Dopo un po' di tempo si smise di parlare del Super35mm e spuntò l'APS, che non ha nulla a che vedere con il normale 35mm: sono delle deliziose quanto inutili fotocamere, spesso costosissime, che usano delle pellicole che hanno bisogno di nuove attrezzature per essere sviluppate e costringono i fotolaboratori ad aggiornarsi a caro prezzo, a tutto beneficio dei produttori di macchine minilab (Kodak, Fuji, Konica, ecc.). Comunque il "miracolo" è avvenuto: si sono prodotte e vendute nuove attrezzature che riescono a dare, quasi, la stessa qualità di prima (sic!). L'APS, a causa del formato del negativo più piccolo, produce infatti immagini meno dettagliate e "belle" di quelle ottenibili con una qualunque compatta 35mm da 200mila lire. Se a questo si aggiunge che i costi di sviluppo e stampa sono più elevati, e che le fotocamere costano molto di più, il giudizio finale non può che essere negativo.

I pregi dell'APS? Pochi, davvero pochi.

1) Il rullino più piccolo ha consentito di progettare fotocamere dalle dimensioni assai ridotte. È un dato di fatto che alcune compatte APS, come ad esempio la Canon Ixus, sono, esteticamente e tecnologicamente parlando, dei veri gioiellini; molte fotocamere APS sono grandi quanto un pacchetto di sigarette, anche meno! Quelle davvero buone però hanno i prezzi di compatte 35mm solitamente snobbate perché troppo di lusso...

2) La pellicola, quando torna dal laboratorio, è ancora inserita nel rocchetto; questo vuol dire che l'utente finale non avrà mai accesso ai negativi, il che li difende da smarrimenti o danneggiamenti vari ma ne rende scomodo l'utilizzo (pensiamo, per esempio, ad un appassionato di camera oscura). Non parliamo poi degli appassionati di diaproiezione, costretti a comprare altri diaproiettori (quelli normali fondono le dia APS) o appositi telaietti (e le ottiche considerate "normali" diventano maledettamente tele!).

3) (considerazione molto personale): sulla quasi totalità delle fotocamere APS è possibile riavvolgere un rullino ancora non completato, metterne un altro, usarlo in parte e poi ritornare al precedente. In pratica, con la stessa fotocamera si possono tranquillamente alternare negative e diapositive, pellicole b/n ed a colori, e così via, cosa un po' complicata con le normali reflex 35mm e, sembra, del tutto impossibile con le compatte 35mm.

A parte queste tre considerazioni che sinceramente ci appaiono alquanto marginali, l'APS richiede più soldi per offrire una qualità fotografica inferiore, e ciò solo dovrebbe bastare a scoraggiare qualunque potenziale acquirente.

COS'È IL FORMATO 126?
Mamma Kodak, in fondo, ha fatto molto per diffondere e rendere popolare la fotografia, sin dalle sue origini. Infatti Mr. Eastman vendeva dei "cubi" precaricati che andavano spediti a Kodak per il trattamento, e dopo si ricevevano a casa le foto insieme al cubo "ricaricato": le prime "usa e NON getta". Negli anni Sessanta, ma ancora oggi, la fotografia "popolare" fatta con la pellicola formato 135 (o Leica) aveva un grosso problema nella difficoltà di aggancio della stessa. Infatti spesso capita di impressionare "l'aria" perche' lo spezzone iniziale non e' stato agganciato bene. Per ovviare a questo inconveniente, la Kodak inventò un nuovo formato: il 126. Si trattava di una pellicola larga come il 135, cosi' da poter essere trattata dalle stesse apparecchiature, pero' inserita in una cartuccia (cartridge) di plastica nella quale si avvolgeva anche la parte impressionata. Sulla parte posteriore era posizionata una striscia di carta sulla quale erano stampati i numeri dei corrispondenti fotogrammi che s'intravedevano da una finestrella sul dorso. In buona sostanza per caricare la pellicola bastava inserire questa cartuccia nell'apposito vano, chiudere lo sportello ed agire sulla leva di carica sino a quando un nottolino di metallo si andava ad infilare nell'UNICO foro sulla pellicola adiacente ad ogni fotogramma. Così si bloccava l'avanzamento pellicola. Dopo lo scatto, il nottolino arretrava liberando la pellicola e così di nuovo sino al fotogramma successivo. Terminata la pellicola, e quindi i forellini, con la leva di carica si finiva di avvolgere la pellicola nel vano ricevente. Kodak 33, 133, 233 ecc. erano le sigle di queste compatte "formato 126" che la Kodak introdusse sul mercato e presto seguita dagli altri fabbricanti. Producevano immagini quadrate del formato 24x24 mm. e venivano stampate quadrate nel formato 10x10 cm. Fu una scelta azzeccata perché la dimensione del fotogramma, in fondo, rimaneva abbastanza grande per le dimensioni delle stampe. Ne scaturì un grosso successo commerciale "semplificando" le procedure di carica e scarica della pellicola ed avvicinando massaie, bambini e pigri al consumo di fotografie. Per l'illuminazione in interni usava un quarzino piezoelettrico che generava una scintilla in un cubo trasparente con quattro dispositivi al magnesio sigillati chiamati "Magicube X", che differiva dal tipo precedente "Cuboflash" che necessitava di una batteria inserita nella fotocamera. Inutili, però, furono i tentativi di "promuovere" di rango questo formato. Tutti i tentativi di costruire compatte di un certo valore attorno a questo formato si sono sempre rivelati fallimentari. Per le foto del popolo le fotocamere non potevano (e non possono) costare più di una stecca di sigarette. Una decina di anni dopo la stessa Kodak seppe reinventarsi presentando il formato 110, sistema rivoluzionario sotto ogni aspetto, grazie alle pellicole sempre più valide. Si trattava essenzialmente dello stesso sistema ma con i fotogrammi delle dimensioni di un'unghia e fu ancora un successo clamoroso sino a quando le compatte 135 iniziarono a scendere di prezzo con l'avvento dei primi fabbricanti non giapponesi (Taiwan, Hong Kong, Singapore), restituendo alla pellicola cinematografica il primato delle fotocamere "compatte" e popolari e segnando la morte del 126, del 110 ed anche dell'ennesimo tentativo di Kodak di reinventarsi con la pellicola Disk.

PASSEPARTOUT (COME REALIZZARLO)
Il passepartout, oltre ad arricchire la fotografia la preserva da manipolazioni maldestre e le fornisce un supporto utile in caso di esposizione.

1) Scegliere un cartone di buona qualità (cartone conservazione fabbricato a partire da paste con alto tenore di alfacellulosa o 100% cotone) e di almeno 800gr/mq di grammatura se si vuole il taglio a 45°.
2) Tagliare due rettangoli uguali che diventeranno base e finestra del passepartout, tenendo presente che la distanza bordo/finestra dovrebbe essere di circa 1/3 del lato maggiore della finestra.
3) Centrare la foto sul cartone e tracciane i contorni, da ridurre o allargare di almeno 1/2 cm per lato a seconda che si voglia montare con i bordi ricoperti dei bordi della finestra (A), o all'interno della finestra (B).

Ora viene il difficile. Ci sono quattro possibilità:

a) si compra una taglierina per taglio a 45°, costosissima
b) si compra un righello con un coltello a 45° (auguri!)
c) si va dal un corniciaio a farsi fare il taglio
d) tagliare il cartone a 90° (non è proprio superelegante!)

Fissare la foto al cartone. Se si sceglie l'opzione A vanno benissimo gli angolini in Mylar o in carta, oppure una cerniera in carta giapponese ed un po' di colla solubile in acqua, come la Thylose Mp 300.

L'alternativa B è più costosa perché la foto, non essendo tenuta a posto dalla finestra, deve essere letteralmente incollata al cartone, ed il metodo migliore fa uso di un film termoplastico. Per foto di grande formato occorre una pressa, ma per foto fino a 30x40 ci si può arrangiare con un ferro da stiro. Vedremo poi il vantaggio di incollare la foto al cartone in entrambi i casi.

4) Fissare i due cartoni tra di loro. Un nastro in tela (filmoplast t) fatto proprio per questo scopo, costa una fortuna ma per lo meno garantisce una tenuta solida. In alternativa si può usare un nastro in carta o un telato.

Allora, qual è questo vantaggio di incollare la foto al cartone?

a) Le foto vengono conservate senza finestra. Occupano metà dello spazio, cosa che in casa può essere molto apprezzata.

b) Anche se si organizza un'esposizione non è necessario avere altrettante finestre quante sono le foto che si hanno in archivio, il che costituisce un notevole risparmio sotto forma di cartone e di operazioni di taglio da parte di un incorniciatore. Per un lavoro ben fatto il taglio a 45° è praticamente indispensabile! Certo occorre standardizzare un po' il formato delle proprie foto, ma ne vale la pena.

PUBBLICARE LE FOTO
Le strade possono essere due. La prima consiste nel rivolgersi a periodici di non eccessiva tiratura (giornali locali, bollettini missionari ecc.), che volentieri pubblicano servizi fotografici su popoli o luoghi poco noti. Tuttavia, ammesso che le foto siano tecnicamente perfette ed esteticamente valide, questa sarebbe solo una soluzione di ripiego. La seconda strada consiste nel rivolgersi alle agenzie fotogiornalistiche. Homoambiens (via Calabria 56 - 00187 Roma), è una di queste. Per presentare le foto a Homoambiens, e in genere a tutte le agenzie, si procede in questo modo:

1) Si effettua una severa selezione delle proprie immagini eliminando tutte quelle che da un punto di vista tecnico o estetico non risultino più che soddisfacenti

2) Si raggruppano le fotografie per argomento, come per luogo o regione geografica, tenendo conto del fatto che quanto più è ristretto il proprio ambito di intervento tanto meglio è. Le agenzie vogliono fotografi specializzati, non dilettanti tuttofare

3) Si raccolgono in questo modo dalle cento alle cinquecento immagini e si inseriscono nei plasticoni, scrivendo sul telaietto il nome e il cognome dell'autore, nonchè un numero progressivo

4) Si scrivono, a macchina o col computer, le didascalie, ognuna delle quali corrispondente al numero della diapositiva, indicando chiaramente:

a) il luogo
b) il soggetto
c) la fotocamera e l'obiettivo utilizzato
d) i dati di esposizione (facoltativo)
e) la data dello scatto

Quanto maggiori saranno le indicazioni fornite, tanto più facilmente l'agenzia potrà archiviare la foto. Si spedisce il tutto in busta imbottita e raccomandata assicurata convenzionale con ricevuta di ritorno (ovviamente con lettera di accompagnamento) e si resta in fiduciosa attesa. Se il lavoro appare interessante, l'agenzia spedirà al fotografo un contratto di collaborazione. Il contratto di solito prevede che:

1) L'agenzia trattiene le immagini che ritiene utili (non belle, utili: l'agenzia non è la giuria di un concorso!) e restituisce le altre. La percentuale delle foto trattenute si aggira di solito intorno al 20-30 per cento.

2) Quando e se l'agenzia riuscirà a vendere la fotografia corrisponderà al fotografo un compenso che va dal 50 al 60 per cento del prezzo di vendita.

3) Il contratto ha validità di 3 anni e si intende tacitamente rinnovato.

Il fotografo può richiedere in ogni momento la restituzione di parte del materiale o della sua totalità. Le riviste importanti si servono ormai quasi tutte di servizi d'agenzia, accanto a, e talvolta in sostituzione di, quelli realizzati dai collaboratori diretti. Se l'agenzia restituisce tutto dicendo che non le interessa non scoraggiarsi e bussare ad altre porte. La concorrenza è agguerrita e spietata e farsi strada richiede pazienza, tenacia e una buona dose di faccia tosta. Saper bluffare con eleganza non è un difetto, è un pregio (l'importante è essere onesti: bluffare non vuol dire mentire, o come diceva James Bond, le bugie sono un'estensione della verità).

Ancor più importante è considerare che un eventuale rifiuto non significa che il lavoro non sia stato apprezzato, ma semplicemente che per imperscrutabili ragioni qualcuno ha deciso che in quel momento il mercato non lo richiedeva.

COS'È E COME SI REALIZZA UN PORTFOLIO
Per portfolio si intende la raccolta dei lavori organizzata in modo tale che si possano facilmente mostrare. Nel caso specifico, cioè foto, si utilizza una specie di album che può essere fatto in casa oppure acquistato. Cosa metterci? Se è per trovare un lavoro la cosa è ostica perché di solito quelli che esaminano i portfolio (agenzie o responsabili marketing delle varie ditte) ne vedono a centinaia (e di solito sono di livello buono) e ne sono arcistufi. Quindi ci devono essere delle cose comunque belle e professionali oppure bisogna tarare il cliente in base ai propri lavori; se ho foto non molto belle non andrò a propormi ad una ditta importante e tantomeno ad una agenzia (dove se non hai qualche conoscenza "stretta" ti guardano come guarderebbero il calorifero), ma da un piccolissimo cliente che può privilegiare l'economicità. Se invece la finalità è solo raccogliere le proprie foto per soddisfazione personale le possibilità sono più ampie. In ogni caso generalmente si inseriscono stampe o diapositive o lavori pubblicati e naturalmente vale la regola del "poco ma buono".